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La manovra taglia le feste patronali e viene spontaneo domandarsi se si tratti più di un colpo alla vita religiosa delle nostre comunità locali o alle loro radici culturali e sociali. «Credo che la cosa da comprendere quando ci si occupa di feste e sagre patronali – sostiene Ulderico Bernardi, sociologo dell'Università Ca' Foscari di Venezia – è che si tratta di celebrazioni che vanno oltre la questione religiosa in se stessa. Sono occasioni in cui si ribadisce una coesione alla memoria collettiva di una comunità. Oggi troppo spesso la memoria viene oltraggiata, ma una comunità è tale in quanto condivide una memoria collettiva. Spesso la festa patronale è il momento in cui passato, presente e futuro si riconnettono, si ricompongono in una visione generale, che fornisce un senso alla vita comune».
ABOLENDO LE FESTE SI ABOLISCE UN ESSENZIALE RIFERIMENTO DI SENSO?
Spesso dimentichiamo che la festa del santo patrono è un riferimento anche per chi vive e lavora lontano dal paese d'origine. Sono tanti gli emigrati che tornano ogni anno in occasione di questi festeggiamenti. Tante comunità di emigrati celebrano il patrono nei luoghi dove vivono anche a cinquanta, cento anni di distanza.
SI TRATTA DI RITI CHE RINSALDANO I LEGAMI DI COMUNITÀ?
Rappresentano un qualcosa che è parte integrante dei meccanismi profondi della cultura identitaria, di ciò che fa in modo che una comunità si conservi tale nel tempo. Tanto più in un'epoca in cui molte comunità locali si sono impoverite culturalmente. Non bisogna dimenticare che in un Paese come il nostro le festività legate ai santi sono da sempre essenziali per la vita sociale.
HA IN MENTE UN RIFERIMENTO STORICO PRECISO?
Intorno alla fine del '700 la Repubblica veneta fece una grande ricerca sul territorio per stabilire quanti fossero in ogni singolo paese i santi celebrati con la sospensione dal lavoro. In certe località se ne festeggiavano addirittura 45. Un eccesso che venne ridotto per via legislativa salvaguardando le ricorrenze più importanti.
OGGI QUESTO TIPO DI SALVAGUARDIA NON HA PIÙ SENSO?
Direi che oggi, invece, le opportunità che forniscono occasione per ribadire il radicamento dei singoli nella comunità sono ancor più importanti e andrebbero doppiamente salvaguardate, per difendere le nostre identità dalla globalizzazione, per radicare le generazioni future nella nostra storia, nelle nostre tradizioni.
CI SONO PAESI CHE LE SALVAGUARDANO ANCHE PERCHÉ FORNISCONO IMPORTANTI INTROITI TURISTICI.
Bisogna però ricordare che le tradizioni, dal punto di vista delle scienze umane, vanno intese come il frutto di una condivisione di senso esistenziale attraverso il tempo e le generazioni, che sono l'incarnazione del tempo.
NIENTE TRADIZIONI, NIENTE RADICAMENTO DEI GIOVANI NEL TERRITORIO?
Esattamente. Il radicamento è cosa ancor più importante oggi che dobbiamo affrontare il problema essenziale dell'integrazione fra le culture e dovremmo cercare in tutti i modi di non riproporre da noi quel che succede in Francia e in Gran Bretagna, dove degli sradicati hanno messo a ferro e fuoco le città. Come possono, i giovani, confrontarsi con una società senza storia, senza tradizioni, senza continuità col passato, che ha perduto l'anima, è diventata anonima e non ha quindi nulla da dire per il futuro? (...) Si tratta di colpi inferti al tessuto primario della società italiana, che è fatto di comunità locali. C'è confusione fra la necessità di razionalizzare i servizi pubblici e la fondamentale esigenza della difesa identitaria delle comunità a tutti i livelli, da quelle locali a quelle familiari. Non bisogna considerare solo le poste economiche, anche quelle sociali e antropologiche sono essenziali, perché portano benefici nel senso del bene comune i quali, in prospettiva, diventano benefici economici.
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