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IL MANDYLION DI EDESSA DEI PRIMI SECOLI: LA CONFERMA STORICA CHE LA SINDONE E' AUTENTICA
di Ilaria Ramelli

 Ho già ricordato che diverse testimonianze attestano come il Mandylion di Edessa fosse, in realtà, un lungo telo piegato in due quattro volte, in modo da mostrare solo il volto. Di qui la leggenda del ritratto di Cristo commissionato da Abgar, o, secondo la versione che si affermò, dell’impressione del volto di Cristo su stoffa (l’Achiropita non dipinta da mani umane). Anche Smera di Costantinopoli nell’VIII secolo afferma che l’immagine ricevuta da Abgar era, non del solo volto, ma dell’intero corpo di Gesù: «[Non tantum] faciei figuram sed totius corporis figuram cernere poteris». Ai suoi giorni quindi il Mandylion di Edessa era stato dispiegato, in modo da far apparire, sotto il volto, tutto il resto del corpo.
  Questa deduzione è confermata da un sermone del 769 di papa Stefano III, il quale menziona l’immagine gloriosa «del volto e di tutto l’intero corpo» di Gesù su un telo. Ancora nell’VIII secolo, Giovanni Damasceno attesta che a Edessa continuava ad essere conservata l’immagine sul telo (rhakos) su cui Gesù «aveva impresso la propria figura», e Gregorio II nello stesso secolo citava questa immagine fatta 'senza mano umana' (akheiroteuktos). Leone Anagnoste, quando da Costantinopoli andò a Edessa, vi vide «l’immagine sacra non fatta da mani umane [ akheiropoieton, da cui 'achiropita']». Nel 944, da Edessa, governata dai musulmani, l’Achiropita fu traslata a Costantinopoli. Lo spostamento fu diretto da Gregorio il Referendario, che in un’omelia del 944 affermò che il Mandylion edesseno era in realtà un lenzuolo funebre. Questo fatto, di cui si mostra al corrente anche Germano di Costantinopoli, poteva essere appurato soltanto una volta dispiegato il Mandylion in tutta la sua lunghezza. Fintanto che, invece, nei primi secoli della sua permanenza a Edessa il telo era stato conservato ripiegato in modo da mostrare solo il viso, si era creduto che fosse, non il lenzuolo sepolcrale di Gesù, ma il suo ritratto (un dipinto o un’achiropita).
  La presentazione del Mandylion di Edessa da parte di Gregorio il Referendario a Costantino Porfirogenito a Costantinopoli, dopo la traslazione, è raffigurata in una miniatura della Biblioteca Nazionale di Madrid: il Mandylion  vi appare come un lungo telo. Come attesta la  Diegesis o narrazione sul Mandylion di Edessa attribuita al Porfirogenito, dopo la traslazione esso fu disteso in tutta la lunghezza sul trono imperiale a Costantinopoli. La Diegesis insiste che l’immagine non è un dipinto, ma deriva dall’impressione di fluidi, e ne attesta il legame con la Passione: è l’impronta di sudore e sangue di Gesù, portata a Edessa da Taddeo.
  La natura sepolcrale del Mandylion divenne nota dopo il suo dispiegamento. A Costantinopoli ne avveniva l’ostensione ogni venerdì nella chiesa di Santa Maria Blachernissa, e quivi il Mandylion rimase fino al saccheggio della città nel 1204, quando fu recata in Occidente. Si può ormai seguirne storicamente l’itinerario attraverso Atene, Besançon, Ginevra, nei luoghi dei Templari, che veneravano il Sacro Volto, fino al suo arrivo a Torino, il che suggerisce l’identificazione del Mandylion con la Sindone. Questa ipotesi è rafforzata dalla presenza, riscontrata dal palinologo Max Frei, di pollini tipici dell’area di Edessa sulla Sindone. Questo indizio, insieme ai dati storici cui ho accennato e che ho studiato in un articolo su Ilu del 1999, nella recensione a Illert nella Review of Biblical Literature 2009, e successivamente in Possible Historical Traces in the Doctrina Addai? (Piscataway 2009), istituisce un forte nesso tra il Mandylion e la Sindone. Questa è oggi distesa, mentre a Edessa rimase a lungo «piegata in due quattro volte», cosicché era visibile solo il volto. Ma probabilmente si tratta sempre della stessa immagine di Cristo, impressa sul suo lenzuolo funebre, che da Gerusalemme arrivò a Edessa, dove restò per secoli, inizialmente ripiegata, per poi passare a Costantinopoli e infine, con vari spostamenti, in Europa, dove oggi appartiene alla Chiesa ed è conservata a Torino.

 
Fonte: Avvenire