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IL CORONAVIRUS IMPEDIRA' A TRUMP DI ESSERE RIELETTO?
Intervista a Marco Respinti su quali temi saranno decisivi nella corsa alla Casa Bianca (anche stavolta il voto dei pro life farà vincere Donald Trump?)
di Luca Marcolivio

La pandemia da coronavirus e la conseguente recessione economica sono temi decisivi nella campagna elettorale per le presidenziali del prossimo 3 novembre negli USA. Nel dibattito non va comunque sottovalutato il ruolo dell'elettorato pro life, rivelatosi determinante nel 2016 e destinato probabilmente ad esserlo anche nel 2020. Pro Vita & Famiglia ne ha parlato con Marco Respinti, giornalista e saggista, direttore di International Family News e direttore responsabile di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights in China, studioso del mondo conservatore anglo-americano.
Da un po' di settimane ormai, gli USA hanno strappato all'Italia il primato dei contagi, che ora, oltreoceano, continuano ad aumentare vertiginosamente. In che misura questa pandemia sta cambiando la vita quotidiana e l'opinione pubblica americane?
«Come in Europa, la vita quotidiana negli Stati Uniti d'America è profondamente cambiata. Anche oltreoceano le libertà sono state ristrette e questo, per gli americani, è stato molto più difficile da digerire rispetto agli europei. Per loro la libertà è un principio non negoziabile e, in particolare nell'"America profonda" e nella provincia americana, che coprono forse il 70-80% del Paese, farsi dettare restrizioni alla libertà da parte dei governi è qualcosa che non viene accettato molto facilmente. Diverso è il discorso per città come New York e per tutte i centri più grandi, dove gli spazi sono molto più limitati ed "europei" e dove, quindi, il contagio si è diffuso in maniera più massiccia e violenta, con un maggior numero di morti. C'è quindi un senso di forte stridore tra le direttive dei governi (anche dei singoli Stati) e lo spirito di libertà che anima i cittadini. Negli Stati Uniti un governo che va a intromettersi nelle questioni dei cittadini viene percepito in modo molto negativo, a prescindere se si tratti di un governo di destra o di sinistra. Il senso della libertà personale, in quel Paese, è molto più spiccato».
Quanto inciderà la pandemia sull'economia e, quindi, sulla campagna elettorale che - ormai è ufficiale - vedrà a confronto Donald Trump e Joe Biden?
«Ovviamente inciderà tantissimo. La pandemia è un fenomeno globale, pertanto avrà forti ripercussioni sull'economia globale, in particolare sulle economie nazionali più forti e più importanti. Quali effetti questa crisi produrrà negli USA però è ancora prematuro dirlo. Prima della pandemia, l'economia americana stava andando piuttosto bene e Donald J. Trump avrebbe potuto certamente fregiarsi di questi successi. Ora bisognerà vedere come andranno la "fase due" e le fasi successive, in particolare a ridosso delle elezioni presidenziali del 3 novembre. Indubbiamente un tracollo economico c'è stato, però molto dipenderà da come l'Amministrazione Trump gestirà l'emergenza da qui a novembre e che prospettive riuscirà a dare. Da parte sua, il candidato democratico Joe Biden punterà ad accusare Trump di cattiva gestione. Non credo potrà certo arrivare ad accusare il presidente di aver favorito la pandemia, ma potrà dire che le misure messe in campo – tra cui massicci sussidi a fondo perduto per chi ha perso il lavoro – non sono state sufficienti. Siccome il destino della tenuta economica del Paese è molto difficilmente decifrabile, entrambi i candidati potranno giocare la propria campagna soprattutto sul piano psicologico e propagandistico. Proprio perché venivano da una riduzione delle tasse e da un'ondata economica favorevole, non è escluso che gli Stati Uniti possano trovarsi protagonisti di una ripresa economica più rapida rispetto all'Europa e, magari, in particolare, all'Italia. Bisognerà vedere, quindi, quale sarà l'andamento da qui a novembre: qualunque segnale positivo, reale o percepito, avvantaggerebbe Trump. Se succedesse il contrario, sarebbe invece Biden a guadagnarne».
Come conseguenza della pandemia, il modello sanitario americano potrebbe essere messo in discussione?
«In realtà il modello sanitario statunitense è sempre in discussione, basti pensare che, negli Stati Uniti, il rinnovo del Congresso federale avviene ogni due anni da più di duecento anni, e quindi ogni legislazione può essere sottoposta a revisione costante. Contrariamente a quanto si crede, non si tratta di un sistema monolitico e sempre uguale a sé stesso da decenni. Non è nemmeno corrispondente al vero la caricatura secondo la quale, nel Paese, se non sia paga non si viene curati, e si è destinati a "morire per strada": sono questi, piuttosto, scenari da Terzo mondo, dove non esiste una vera economia libera, dove i governi decidono tutto e il contrario di tutto, e dove i cittadini sono alla mercé di consorterie, oligopoli, legami nefasti fra Big Business e Big State. Negli Stati Uniti questo non succede o succede molto meno. In caso di urgenza, si viene curati e "rimessi in piedi", mentre per cure meno prioritarie, allora sì, si paga. Ma si paga anche in altri Paesi, Italia inclusa. La Sanità, come ogni servizio, non è mai gratis. Il trucco sta nel camuffare i costi che i cittadini pagano, per esempio con tasse, imposte e gabelle di vario tipo. Del resto anche in Italia, dove apparentemente la Sanità è "gratuita" e "per tutti", se si vogliono cure particolari e in tempi normali, prima ancora che rapidi, ci si rivolge al settore privato nonostante si paghi già la Sanità di Stato. Chi ha bisogno del dentista, preferirà pagare di più per servirsi da un dentista di fiducia piuttosto che spendere meno per gente di cui non si fida. Tornando agli Stati Uniti, mi pare che il Sistema sanitario abbia comunque retto egregiamente, nonostante l'alto numero di morti per coronavirus. Il Sistema sanitario statunitense, peraltro, più che privato, è un sistema che si articola su polizze assicurative: sicuramente andrà aggiornato per essere reso ancora più libero, fruibile ed efficiente. Non credo, però, ne sarà modificato l'impianto di fondo, forse mai».
Trova significativo che, dopo lo scoppio della pandemia, stati come l'Ohio, il Texas e il Tennessee abbiano congelato gli aborti "non essenziali" mentre qui in Italia si sia disposto l'esatto contrario?
«Certo, mi sembra un dato assolutamente più che significativo. Troppe voci in Italia hanno usato il coronavirus come una scusa ideologica, ipocrita e brutale per definire l'aborto una questione di prima necessità e invocare una diffusione sempre più massiva dell'aborto chimico a domicilio, prescrivibile telefonicamente o via chat da un medico autorizzato che autorizza l'uso di pillole che producono la morte del nascituro. Lo trovo aberrante e assurdo. Gli Stati nordamericani che lei ha citato hanno invece fatto l'esatto contrario. In primo luogo, hanno affermato che l'aborto è sbagliato sempre e che non andrebbe mai praticato; poi hanno spiegato che, anche se la legge lo permette, l'aborto non sarà mai inteso come un servizio di prima necessità, dando priorità, in questo momento, ai malati di coronavirus. Mi sembra una scelta di assoluto buonsenso e da applaudire. Al contrario, mi vergogno per quei sistemi sanitari che, in altri Paesi, hanno fatto il contrario».
Per quale motivo, di elezione in elezione e a tutti i livelli, i candidati Dem continuano a proporre politiche sempre più pro-choice (si pensi all'aborto fino al nono mese nello stato di New York)?
«Ci vorrebbe un libro per spiegarlo. In estrema sintesi: nel Partito Democratico americano, da decenni, è in corso un'involuzione di carattere culturale verso sinistra che riguarda in particolare i princìpi non negoziabili. È un itinerario a tappe, lungo e complesso, ma qui basta ricordare la stagione delle presidenze di John F. Kennedy e di Lyndon B. Johnson, e la stagione delle presidenze di Bill Clinton e di Barack Obama. Il mondo Democratico ha scelto da tempo di identificarsi come il partito delle "minoranze": una categoria con cui vengono identificati anche le femministe, i militanti LGBT+ e la galassia filoabortista, falsamente definiti come "perseguitati" e quindi bisognosi di protezione politica. Ora, i partiti statunitensi non sono nati, di per sé, come sistemi ideologici, ma lo sono diventati strada facendo, soprattutto in tempi relativamente recenti. Il Partito Democratico è un grande contenitore in cui albergano realtà che possono essere (o che sono state) anche molto diverse: tra queste vi sono quelle legate a gruppi molto ideologizzati, che rispondono a lobby molto potenti sul piano economico. Ecco, i Dem hanno voluto diventare il punto di riferimento di quel mondo. Sull'altro versante, il Partito Repubblicano ha conosciuto un processo simile, ma di segno opposto, diventando sempre più pro life e pro family. Poiché, tra i Repubblicani, spazio politico per l'aborto non ce n'è praticamente più, i Democratici si sono accaparrati la fazione pro choice. Ciò non vuol dire che i Democratici siano tutti graniticamente filoabortisti: ve n'è qualcuno, per esempio i deputati Dan Lipinski e Rober Casey Jr., come pure Robert Casey Sr. prima di loro, che non sono schierati su queste posizioni, ma si tratta di persone che nel partito vengono sempre più emarginate. Il Partito Democratico ha scelto di diventare paladino politico dell'ideologia pro choice e lo fa in maniera convinta: e, dal suo punto vista, egregia».
Alle presidenziali del 2016, il voto dei pro life risultò decisivo per l'elezione di Trump: lo sarà anche nel 2020?
«Da questo punto di vista la storia di Trump è molto particolare. Lui stesso scelse di candidarsi nel 2015-2016 come il "picconatore" del Partito Repubblicano, dileggiando anche il movimento conservatore. Poi è avvenuto qualcosa di importante, che ne ha fatto maturare la coscienza, facendogli mutare opinione. Trump si è del resto reso conto che quel mondo conservatore da lui inizialmente irriso era un movimento radicato tra la gente e non così facile da abbattere. E quindi molto utile sul piano elettorale. Ha quindi scelto, in un secondo tempo, di appoggiarsi a quel mondo. Una parte cospicua di quel mondo (anche se non tutta) ha accettato il patto e lo ha appoggiato, dapprima come "male minore" poi sempre più convintamente. Nel frattempo qualcosa è mutato anche in Trump stesso, specie su alcuni aspetti della difesa della vita e della famiglia. Una volta alla Casa Bianca il nuovo presidente si è comportato da galantuomo, mantenendo la sostanza delle promesse fatte al mondo conservatore. Trump ha cioè lavorato legislativamente in senso pro life e pro family, tagliando, per esempio, i fondi federali a Planned Parenthood e in molti altri modi ancora. Tutto questo è stato particolarmente apprezzato dalla base antiabortista, che quindi tornerà certamente a votarlo in novembre: mentre nel 2016 molti diedero a Trump un voto sulla fiducia, fra qualche mese gli daranno un voto suffragato da fatti e da promesse mantenute. È quindi ragionevole pensare che Trump, affidandosi nuovamente al mondo conservatore, pro life e pro family, possa sperare concretamente in un secondo mandato».

 
Titolo originale: Verso le elezioni Usa tra Coronavirus e crisi. I temi pro life saranno decisivi
Fonte: Provita e Famiglia, 12/05/2020