BastaBugie n�47 del 12 settembre 2008

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1 L'OSSERVATORE ROMANO ROMPE IL TABU' SULLA MORTE CEREBRALE
A quarant'anni dal rapporto di Harvard che ridefinì in maniera sospetta cosa sia la morte
Autore: Lucetta Scaraffia - Fonte: Osservatore Romano
2 L'INQUIETANTE STORIA DEL CONCETTO DI ''MORTE CEREBRALE''
L'encefalogramma piatto non dimostra la morte di un uomo
Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana
3 INDIA: LA TERRIBILE ESPERIENZA DI UN SACERDOTE CATTOLICO

Fonte: fonte non disponibile
4 PARLAMENTO EUROPEO SULLA CLONAZIONE: VIETATA PER GLI ANIMALI, AMMESSA PER GLI UOMINI
Le europremure per gli animali lasciano sconcertato l’uomo
Autore: Carlo Bellieni - Fonte: fonte non disponibile
5 REGIONE LOMBARDIA: TOGLIERE IL NUTRIMENTO A ELUANA, SI CHIAMA ASSASSINIO

Autore: Paolo Ferrario - Fonte: fonte non disponibile
6 FATIMA: L'OPPORTUNITÀ DI OSPITARE LA MADONNA NELLE SCUOLE

Autore: Rino Cammilleri - Fonte: fonte non disponibile
7 CAMBIAMENTI CLIMATICI E SUICIDIO DELLA SCIENZA

Autore: Fabio Malaspina - Fonte: fonte non disponibile
8 L'OSSERVATORE ROMANO: IL SACERDOTE E LA CELEBRAZIONE DELLA MESSA

Autore: mons. Nicola Bux - Fonte: fonte non disponibile

1 - L'OSSERVATORE ROMANO ROMPE IL TABU' SULLA MORTE CEREBRALE
A quarant'anni dal rapporto di Harvard che ridefinì in maniera sospetta cosa sia la morte
Autore: Lucetta Scaraffia - Fonte: Osservatore Romano, 3 settembre 2008

Quarant'anni fa, verso la fine dell'estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull'arresto cardiocircolatorio, ma sull'encefalogramma piatto: da allora l'organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte - che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo - accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l'eccezione del Giappone.
Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro ("Morte cerebrale e trapianto di organi", Morcelliana) che - oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas - affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa.
Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto - scrive Becchi - come «una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali». La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo.
Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l'idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall'interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare.
Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, "Finis vitae. Is brain death still life?" (Rubbettino), i cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei - sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell'essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: «Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno, anch'essi, alla sperimentazione medica (“cadaveri caldi”)».
Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l'idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: «Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie».
Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che «l'errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica», mentre il nodo dei trapianti «non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte», ma attraverso l'elaborazione di «criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili». La Pontificia Accademia delle Scienze - che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard - nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su «I segni della morte». Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.

DOSSIER "DONAZIONE DI ORGANI"
L'inquietante concetto di "morte cerebrale"

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Fonte: Osservatore Romano, 3 settembre 2008

2 - L'INQUIETANTE STORIA DEL CONCETTO DI ''MORTE CEREBRALE''
L'encefalogramma piatto non dimostra la morte di un uomo
Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana, 6 settembre 2008

L'intolleranza mediatica contro l'editoriale di Lucetta Scaraffia, I segni della morte, sull'"Osservatore Romano" del 3 settembre 2008, suggerisce alcune considerazioni sul tema delicato e cruciale della morte cerebrale.
Tutti possono consentire sulla definizione, in negativo, della morte come "fine della vita". Ma che cos'è la vita? La biologia attribuisce la qualifica di vivente ad un organismo che ha in sé stesso un principio unitario e integratore che ne coordina le parti e ne dirige l'attività. Gli organismi viventi sono tradizionalmente distinti in vegetali, animali ed umani. La vita della pianta, dell'animale e dell'uomo, pur di natura diversa, presuppone, in ogni caso un sistema integrato animato da un principio attivo e unificatore. La morte dell'individuo vivente, sul piano biologico, è il momento in cui il principio vitale che gli è proprio cessa le sue funzioni. Lasciamo da parte il fatto che, per l'essere umano, questo principio vitale, definito anima, sia di natura spirituale e incorruttibile. Fermiamoci al concetto, unanimamente ammesso, che l'uomo può dirsi clinicamente morto quando il principio che lo vivifica si è spento e l'organismo, privato del suo centro ordinatore, inizia un processo di dissoluzione che porterà alla progressiva decomposizione del corpo.
Ebbene, la scienza non ha finora potuto dimostrare che il principio vitale dell'organismo umano risieda in alcun organo del corpo. Il sistema integratore del corpo, considerato come un "tutto", non è infatti localizzabile in un singolo organo, sia pure importante, come il cuore o l'encefalo. Le attività cerebrali e cardiache presuppongono la vita, ma non è propriamente in esse la causa della vita. Non bisogna confondere le attività con il loro principio. La vita è qualcosa di inafferrabile che trascende i singoli organi materiali, dell'essere animato, e che non può essere misurata materialmente, e tanto meno creata: è un mistero della natura, su cui è giusto che la scienza indaghi, ma di cui la scienza non è padrona. Quando la scienza pretende di creare o manipolare la vita, si fa essa stessa filosofia e religione, scivolando nello "scientismo".
Il volume Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, pubblicato in coedizione dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da Rubbettino (Soveria Mannelli 2008), con il contributo di diciotto studiosi internazionali, dimostra questi concetti in quasi cinquecento pagine. Non solo non può essere accettato il criterio neurologico che fa riferimento alla "morte corticale", perché in essa rimane integro parte dell'encefalo e permane attiva la capacità di regolazione centrale delle funzioni omeostatiche e vegetative; non solo non può essere accettato il criterio che fa riferimento alla morte del tronco-encefalo, perché non è dimostrato che le strutture al di sopra del tronco abbiano perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo; ma neppure può essere accettato il criterio della cosiddetta "morte cerebrale", intesa come cessazione permanente di tutte le funzioni dell'encefalo (cervello, cervelletto e tronco cerebrale) con la conseguenza di uno stato di coma irreversibile. Lo stesso prof. Carlo Alberto De Fanti, il neurologo che vuole staccare la spina a Eluana Englaro, autore di un libro dedicato a questo argomento (Soglie, Bollati Boringhieri, Torino 2007), ha ammesso che la morte cerebrale può essere forse definita un "punto di non ritorno", ma "non coincide con la morte dell'organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l'arresto cardiocircolatorio)" ("L'Unità", 3 settembre 2008). E' evidente come il "punto di non ritorno", posto che sia realmente tale, è una situazione di gravissima menomazione, ma non è la morte dell'individuo.
L'irreversibilità della perdita delle funzioni cerebrali, accertata dall'"encefalogramma piatto", non dimostra la morte dell'individuo. La perdita totale dell'unitarietà dell'organismo, intesa come la capacità di integrare e coordinare l'insieme delle sue funzioni, non dipende infatti dall'encefalo, e neppure dal cuore. L'accertamento della cessazione del respiro e del battito del cuore non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte della vita. Se la tradizione giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione delle attività cardiocircolatorie è perché l'esperienza dimostra che all'arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis e quindi l'inizio della disgregazione del corpo. Ciò non accade in alcun modo dopo la cessazione delle attività cerebrali. Oggi la scienza fa sì che donne con encefalogramma piatto possano portare a termine la gravidanza, mettendo al mondo bambini sani. Un individuo in stato di "coma irreversibile" può essere tenuto in vita, con il supporto di mezzi artificiali; un cadavere non potrà mai essere rianimato, neppure collegandolo a sofisticati apparecchi.
Restano da aggiungere alcune considerazioni. Il direttore del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, ha dichiarato i criteri di Harvard "non sono mai stati messi in discussione dalla comunità scientifica" (" La Repubblica ", 3 settembre 2008). Se anche ciò fosse vero, e non lo è, è facile rispondere che ciò che caratterizza la scienza è proprio la sua capacità di porre sempre in discussione i risultati acquisiti. Qualsiasi epistemologo sa che la finalità della scienza non è produrre certezze, bensì ridurre le incertezze. Altri, come il prof. Francesco D'Agostino, presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica, sostengono che, sul piano scientifico, la tesi contraria alla morte cerebrale "è ampiamente minoritaria" ("Il Giornale", 3 settembre 2008). Il prof. D'Agostino ha scritto belle pagine in difesa del diritto naturale e non può ignorare che il criterio della maggioranza può avere rilievo sotto l'aspetto politico e sociale, non certo quando si tratta di verità filosofiche o scientifiche. Intervenendo nel dibattito, una studiosa "laica" come Luisella Battaglia osserva che "il valore degli argomenti non si misura dal numero delle persone che vi aderiscono" e "il fatto che i dubbi siano avanzati da frange minoritarie non ha alcuna rilevanza dal punto di vista della validità delle tesi sostenute" ("Il Secolo XIX", 4 settembre 2008). Sul piano morale poi l'esistenza stessa di una possibilità di vita esige l'astensione dall'atto potenzialmente omicida. Se esiste anche solo il dieci per cento che dietro un cespuglio vi sia un uomo, nessuno è autorizzato ad aprire il fuoco. In campo bioetico, il principio in dubio pro vita resta centrale.
La verità è che la definizione della morte cerebrale fu proposta dalla Harvard Medical School, nell'estate del 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore di Chris Barnard (dicembre 1967), per giustificare eticamente i trapianti di cuore, che prevedevano che il cuore dell'espiantato battesse ancora, ovvero che, secondo i canoni della medicina tradizionale, egli fosse ancora vivo. L'espianto, in questo caso equivaleva ad un omicidio, sia pure compiuto "a fin di bene". La scienza poneva la morale di fronte a un drammatico quesito: è lecito sopprimere un malato, sia pure condannato a morte, o irreversibilmente leso, per salvare un'altra vita umana, di "qualità" superiore?
Di fronte a questo bivio, che avrebbe dovuto imporre un serrato confronto tra opposte teorie morali, l'Università di Harvard si assunse la responsabilità di una "ridefinizione" del concetto di morte che permettesse di aprire la strada ai trapianti, aggirando le secche del dibattito etico. Non c'era bisogno di dichiarare lecita l'uccisione del paziente vivo; era sufficiente dichiararlo clinicamente morto. In seguito al rapporto scientifico di Harvard, la definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, in seguito, anche nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati (in Italia, la "svolta" fu segnata dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 che all'art. 1 recita: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello").
La natura del dibattito non è dunque scientifica, ma etica. Che questa sia la verità lo conferma il senatore del PD Ignazio Marino che in un articolo su "Repubblica" del 3 settembre definisce l'articolo dell'"Osservatore Romano" "un atto irresponsabile che rischia di mettere in pericolo la possibilità di salvare centinaia di migliaia di vite grazie alla donazione degli organi". Queste parole insinuano innanzitutto una menzogna: quella che il rifiuto della morte cerebrale porti alla cessazione di ogni tipo di donazione, laddove il problema etico non riguarda la maggior parte dei trapianti, ma si pone solo per il prelievo di organi vitali che comporti la morte del donatore, come è il caso dell'espianto del cuore. Ciò spiega come Benedetto XVI, che ha sempre nutrito riserve verso il concetto di morte cerebrale, si sia a suo tempo detto favorevole alla donazione di organi. Il vero problema è che il prezzo da pagare per salvare queste vite è quello tragico di sopprimerne altre. Si vuole sostituire il principio utilitaristico secondo cui si può fare il male per ottenere un bene, alla massima occidentale e cristiana secondo cui non è lecito fare il male, neppure per ottenere un bene superiore. Se un tempo i "segni" tradizionali della morte dovevano accertare che una persona viva non fosse considerata morta, oggi il nuovo criterio harvardiano pretende di trattare il vivente come un cadavere per poterlo espiantare. A monte di tutto questo sta quel medesimo disprezzo per la vita umana che dopo avere imposto la legislazione sull'aborto vuole spalancare la strada a quella sull'eutanasia.

DOSSIER "DONAZIONE DI ORGANI"
L'inquietante concetto di "morte cerebrale"

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Fonte: Corrispondenza Romana, 6 settembre 2008

3 - INDIA: LA TERRIBILE ESPERIENZA DI UN SACERDOTE CATTOLICO

Fonte fonte non disponibile, 4 settembre 2008

Il sacerdote è stato picchiato per ore dagli integralisti: «Non ho odio né amarezza».
 Il modo con cui ci hanno picchiato, con bastoni, piedi di porco, lance, mostra che non ci considerano neppure degli essere umani….». La voce di padre Thomas Chellan trema mentre ripercorre quelle ore di agonia quando, lo scorso 26 agosto, un gruppo di estremisti indù l’ha aggredito con furia selvaggia. Lasciandolo in fin di vita. Il sacerdote, però, è riuscito a sopravvivere. E dall’ospedale in cui è stato ricoverato dopo il pestaggio, ha voluto raccontare la sua terribile esperienza a Nirmala Carvalho, corrispondente di  AsiaNews a Mumbai. Perché il mondo possa conoscere il dramma che si sta consumando nel cuore dell’Orissa. Padre Thomas, direttore del centro pastorale di Kandhamal, è stata una delle prime vittime del pogrom anticristiano scatenato dai radicali del Vishva Hindu Parishad, dopo l’assassinio del leader Swami Laxama­nanda Saraswati, il 23 agosto scorso. Il giorno dopo l’omicidio una folla urlante si raduna intorno al cancello del centro pastorale di Kandhamal. All’interno, oltre a padre Thomas, c’è un altro confratello e una suora. I tre, intuendo il pericolo, scappano nella foresta. «Mentre fuggivamo abbiamo visto le fiamme e il fumo». I religiosi riparano in un villaggio vicino, Nuagaon, dove trascorrono la notte. La furia integralista, però, li raggiunge. Il 25 agosto, un gruppo di estremisti irrompe nella cittadina e incendia la chiesetta locale. Poi, inizia la “caccia al cristiano”. La prima ad essere scoperta è la suora, fuggita con padre Thomas. Poi viene preso il sacerdote, che aveva trovato rifugio nel retro di un edifico. «Hanno cominciato a picchiarmi da tutte le parti e mi hanno strappato la camicia. Domandavano: perché avete ucciso Swa­miji? Quanti soldi avete dato agli uccisori? Perché fate sempre tante riunioni e incontri nel centro pastorale?», racconta il religioso.
  Inutile negare le accuse, inutile spiegare. Gli aggressori non vogliono dialogare. Vogliono solo sfogare la loro rabbia. Ai due religiosi viene versato addosso del kerosene, vorrebbero dar loro fuoco. Ma, per rendere più spettacolare il loro gesto decidono di compierlo a Nuagaon, a mezzo chilometro dal villaggio. Li legano e li trascinano sulla strada. «Mentre camminavamo piovevano colpi all’impazzata sui nostri corpi». Sulla strada il gruppo incrocia una pattuglia della polizia. Gli agenti vedono le violenze a cui sono sottoposti Padre Thomas e la religiosa, ma non intervengono. I due continuano ad essere picchiati brutalmente ma, forse la presenza della pattuglia, impedisce agli estremisti di portare a termine il piano omicida. «Poi, uno degli aggressori mi ha detto di andare insieme a uno degli ufficiali, che ci ha accompagnato alla sede della polizia». Lì i due ricevono le prime cure mentre, il giorno successivo, vengono trasferiti a Bhubaneshwar. L’incubo per loro è finito, ma per tanti cristiani l’agonia dura ancora. «Non c’è nemmeno un prete o una suora a Kadhamal. Tutti sono fuggiti, mentre dilagano le razzie e la caccia all’uomo – aggiunge padre Thomas –. Nella mia agonia prego per i cristiani nella foresta. Nemmeno quello è un rifugio sicuro». Poi, con un filo di voce, il sacerdote conclude: «Voglio tornare in Orissa. Insieme alle mie ferite, Cristo sta guarendo anche i miei sentimenti: non ho odio né amarezza. Sono pronto a servire anche coloro che mi hanno colpito».

Fonte: fonte non disponibile, 4 settembre 2008

4 - PARLAMENTO EUROPEO SULLA CLONAZIONE: VIETATA PER GLI ANIMALI, AMMESSA PER GLI UOMINI
Le europremure per gli animali lasciano sconcertato l’uomo
Autore: Carlo Bellieni - Fonte: fonte non disponibile, 4 settembre 2008

Il Parlamento Europeo ha votato ieri a grande maggioranza (622 sì, 32 no e 25 astenuti) una risoluzione che chiede di vietare la clonazione di animali a scopi alimentari. I motivi sono quelli autorevolmente sollevati diverse volte dalla comunità scientifica: gli animali clonati stanno male; e non sappiamo se mangiarli sia privo di effetti nocivi. Dunque, è doveroso cautelarsi per tutelare la salute delle persone.
  Ci congratuliamo per la posizione assunta in modo pressoché unanime dall’assemblea di Strasburgo, ma al tempo stesso è difficile non chiedersi perché tanta attenzione non si gioca anche nel campo della clonazione umana. Già: l’Europa che vieta i cibi Ogm e gli animali clonati è la stessa Europa che lascia clonare gli embrioni umani o permette che se ne facciano chimere con animali, o addirittura con piante. Strano?
  Non tanto, se consideriamo alcuni fatti recenti: come gli allarmi mediatici per l’uso indiscriminato di antidepressivi e ansiolitici destinati ai cani, per i quali si chiede invece un approccio meno chimico e più 'psicologico'; oppure la richiesta della Commissione svizzera di etica che teorizza uno status morale per le piante; o ancora la mobilitazione politica in Spagna per una legge che riconosca diritti civili ai macachi (mentre quelli degli uomini sono spesso misconosciuti e trascurati).
  Non deve quindi sorprendere che si usi sempre più attenzione per gli animali e sempre meno per l’uomo. Lo scienziato ha però il dovere di ricordare che la manipolazione fa esprimere i geni in maniera differente.
  Dunque le cellule umane clonate o mischiate con cellule di altri animali rischiano di dar luogo a geni che non vorremmo fossero espressi, con immaginabili effetti negativi.
  Non è un discorso nuovo o astratto: si chiama «epigenetica», ed è una branca della biologia in forte evoluzione.
  Ci piacerebbe allora che il principio di precauzione non venisse invocato a intermittenza. Come dice il celebre ambientalista (laico) Enzo Tiezzi nel libro «Una gravidanza ecologica», «per questo secolo sono già scesi in pista, con la stessa mentalità della cieca fede nel progresso, gli apprendisti stregoni delle biotecnologie, dei cibi transgenici e della manipolazione dell’embrione umano. Il minimo comune denominatore (…) è rappresentato dal non tener conto del principio di precauzione, dal credere che la super-specializzazione sia sinonimo di conoscenza scientifica», obbedendo «a diktat di dominio e di calcolo economico».
  Purtroppo sui media sta passando il messaggio opposto: sembra cioè che richiedere precauzione sull’uomo equivalga a bloccare la ricerca.
  Niente di più falso, anche perché se lasciassimo avanzare indistintamente ogni filone di ricerca si finirebbe con lo sprecare risorse e quindi fare meno ricerca utile. Bisogna viceversa concentrare le forze sulle ricerche che hanno come destinatari il maggior numero di persone e che vantano più possibilità di successo, ricordandosi sempre che se una strada terapeutica risolutiva è stata imboccata non vale la pena sprecare risorse in ricerche non chiaramente efficaci per il medesimo obiettivo. Penso all’uso delle staminali adulte rispetto agli insuccessi di quelle prelevate agli embrioni umani.
  Non è quindi inutile chiedere che l’Europarlamento volga i suoi richiami a tutti gli ambiti di ricerca in cui esiste il rischio di somministrare all’uomo cibi o farmaci a rischio. Lasciando in pace gli embrioni umani.

Fonte: fonte non disponibile, 4 settembre 2008

5 - REGIONE LOMBARDIA: TOGLIERE IL NUTRIMENTO A ELUANA, SI CHIAMA ASSASSINIO

Autore: Paolo Ferrario - Fonte: fonte non disponibile, 4 settembre 2008

«La richiesta da Lei avanzata non può essere esaudita ». È arrivata a stretto giro di posta, la risposta ufficiale della Regione Lombardia alla diffida dei legali di Beppino Englaro. Dieci giorni fa, l’avvocato Vittorio Angiolini aveva inviato al Pirellone una lettera in cui chiedeva di indicare la struttura sanitaria regionale dove eseguire la sentenza della Corte d’Appello di Milano: sospendere l’idratazione e l’alimentazione ad Eluana. Contro la sentenza, è bene ricordarlo, la Procura generale milanese ha presentato ricorso in Cassazione, sollecitando la stessa Corte d’appello a sospendere l’esecuzione del decreto.
  Ieri, il direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, Carlo Lucchina, ha dunque risposto a Beppino Englaro, dicendo, in buona sostanza, che «il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente, perchè verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio». Di più. Lucchina ha ricordato al padre e tutore di Eluana, da sedici anni in stato vegetativo, che la richiesta non può essere accolta «in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico­assistenziale dei pazienti». «In tali strutture, hospice compresi – si legge nella lettera di Lucchina – deve inoltre essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone».
  Nella lettera viene inoltre sottolineato come negli hospice (143 in tut­ta Italia, 48 soltanto in Lombardia), possano essere accolti solo malati in fase terminale. Ed Eluana non è in queste condizioni.
  Infine, Lucchina ha ribadito che «il personale sanitario che procedesse, in una delle strutture del Servizio sanitario, alla sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiale, verrebbe dunque meno ai propri obblighi professionali e di servizio». E questo «anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiede l’esecuzione, non contiene un obbligo formale di adempiere a carico di soggetti o enti individuati». Le «sei ragioni» su cui si fonda la lettera di Lucchina, sono state quindi esposte dallo stesso assessore regionale alla Sanità, Luciano Bresciani. Sottolineando il senso di «massima pietas per i familiari», l’assessore ha ribadito che «la nostra è una decisione tecnica, condivisa in un secondo momento anche dalla politica, supportata da considerazioni che non ci lasciavano alternativa». «Come facciamo a dire a un medico di sospendere l’alimentazione?», si è chiesto Bresciani. Interrogativo rilanciato dal presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Anzalone: «Capiamo la famiglia Englaro, ma un medico non può sopprimere nessuno. Per noi è inaccettabile la richiesta di lasciar morire Eluana».
  Contrario alla sospensione dell’alimentazione di Eluana si è dichiarato anche il presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, cardinale Javier Lozano Barragan: «Togliere l’alimentazione e l’idratazione a una persona è farla morire in modo crudelissimo. E questo si chiama assassinio».
  Anche per il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, non è possibile «immaginare di sospendere l’alimentazione, l’idratazione e l’assistenza a Eluana come a qualsiasi altro essere umano». Il governatore ha quindi aggiunto: «Ritengo che il Parlamento possa affrontare questi temi nel rispetto della dignità della persona, della sua effettiva e certa volontà e del rapporto di cura che lega il malato al proprio medico».

 

Fonte: fonte non disponibile, 4 settembre 2008

6 - FATIMA: L'OPPORTUNITÀ DI OSPITARE LA MADONNA NELLE SCUOLE

Autore: Rino Cammilleri - Fonte: fonte non disponibile, 23-08-2008

 «Spunti» è il periodico dell’associazione «Luci sull’Est», che organizza, tra le altre cose, i giri in Italia della «Madonna pellegrina», cioè la statua della Vergine di Fatima.
Nel numero dell’agosto 2008 si dà conto di tutte le tappe di quest’anno. Anche di quella di Modena, dove, tuttavia, l’assessore comunale all’istruzione aveva preventivamente dichiarato che la visita della statua nelle scuole era «inopportuna» in quanto nociva alla «laicità» delle stesse. Il bello è che tutte le scuole statali della città se ne sono impipate e hanno volentieri ospitato la Madonna.
L’unica a disdire l’appuntamento è stata una scuola cattolica, intimidita nientepopodimenoché da un assessore comunale. Caro Benedetto XVI, se non ti toglierai dai piedi tutti i calabraghe che in casa cattolica occupano posti che non dovrebbero, la cosiddetta «nuova evangelizzazione» comincerà nel Quarto Millennio. 

Fonte: fonte non disponibile, 23-08-2008

7 - CAMBIAMENTI CLIMATICI E SUICIDIO DELLA SCIENZA

Autore: Fabio Malaspina - Fonte: fonte non disponibile, 21-8-2008

Quale è lo "stato naturale" delle cose? Qual è il comportamento "naturale" di una persona? Quali i capelli al "naturale"? Quali gli animali allo "stato naturale"?
Con naturale generalmente s'intende quando le cose avvengono senza che l'uomo si sforzi per di aiutarle o impedirle volontariamente, ma tutto avviene "spontaneamente" e "da solo".
Tutto ciò che ci circonda è in un sorprendente continuo divenire, in cui ogni sua parte, anche non vivente, è libera di cercar di seguire la "propria natura". Siamo di fronte ad un sistema complesso in cui ogni parte accorda il suo cambiamento ed il suo comportamento al cambiamento ed al comportamento delle altre. La natura, proprio per questo suo presentarsi come un tutto in continuo divenire mantenendo un ordine, spesso ha indotto molti a pensare che la stessa fosse dotata di una "mente" e/o "volontà".
Purtroppo tale caratteristica del divenire spontaneo della natura è spesso trascurato nei programmi per il clima e/o ambientali, in rari casi esplicitamente e quasi sempre implicitamente. Un piano ambientale e/o sul clima dovrebbe prevedere i seguenti passi da svolgere con un ordine ciclico:
1. Osservare e documentare i cambiamenti nell'ambiente e/o sul clima;
2. Analizzare i dati ed estrapolare l'effetto dovuto all'azione umana;
3. Prevedere gli scenari futuri e valutare l'affidabilità dei vari scenari;
4. Valutare ed analizzare le conseguenze del cambiamento previsto su ecosistemi terrestri e marini, sugli aspetti economici, sociali, sanitari, sulla popolazione, etc;
5. Valutare con prudenza le eventuali Azioni di Risposta e Strategie di mitigazione rispetto ai cambiamenti;
6. Verificare oggettivamente i risultati delle azioni ed eventualmente correggere le politiche messe in atto al punto 5 ripartendo dal punto 1.
I punti 1, 3 e 4 sono quelli che dovrebbero essere sempre svolti da enti di ricerca autorevoli, affidabili ed indipendenti. Il punto 6 quasi sempre è trascurato. Il punto 5 riguarda le azioni di mitigazione, ad esempio il "protocollo di Kyoto".
Interessante soffermarsi sul punto 2, che è quasi sempre ignorato. Ormai siamo assuefatti a prendere come dimostrazione scientifica della crisi ambientale il semplice mostrare un cambiamento avvenuto a distanza di tempo. Della variazione del livello di un lago o mare in un anno, quanta parte è naturale? Dell'erosione di una costa in un decennio, quanta parte è naturale? Dell'avanzamento o restringimento di un ghiacciaio in un secolo, quanta parte è naturale? Dei presunti 0,6°C/secolo di riscaldamento globale, perché ormai è normale non domandarsi quanta parte è naturale?
E' grazie a questa idea di "natura morta" che i mass-media ci stanno trasmettendo, che Fulco Pratesi può far credere: "L'aumento di un solo grado della temperatura dell'Atlantico sta mettendo in moto quelle energie spaventose i cui effetti si vedono nelle foto che ci giungono da tutto il mondo". Non si parla più di studi, ricerche, dati, ma bastano le foto. Per molti ecologisti si fa scienza mostrando due immagini (satellitari o "terrestri") a distanza di anni dello stesso posto. Queste sono necessarie e sufficienti a dimostrare che a causa dell'azione umana la costa si è erosa, il ghiacciaio si è spostato, i poli sono ormai spacciati, la foresta è cambiata, è arrivata la siccità a causa dell'incremento della concentrazione di anidride carbonica, etc.
In realtà sarebbe un caso raro, direi unico, quello in cui a distanza di decenni la situazione di un luogo fosse identica: la "fisiologia" del pianeta è il cambiamento continuo.
Si deve tornare ad essere consapevoli che non tutti i cambiamenti sono sintomi di "patologie" del pianeta (anzi la stragrande maggioranza non lo sono), solo alcuni possono esserlo e per capirlo occorre ricorrere alla scienza e non alle foto o alle semplici correlazioni statistiche/grafiche.
Per capire cosa accade ai poli occorre finanziare un serio progetto nazionale di ricerca e non i "fotografi ecologisti".  Non si può far credere, come in modo silente si sta facendo, che i fiumi ed i laghi una volta erano sempre allo stesso livello, le coste sabbiose immobili, il clima seguiva esattamente il calendario, i fiumi non esondavano, la siccità non esisteva, etc.
Saltando il punto 2, come avviene troppo spesso, senza discuterne approfonditamente i motivi, si rischia di vivere continuamente "nel panico", di non poter più cogliere con meraviglia la bellezza della variabilità ed unicità della natura, di essere portati a voler mitigare la normale variabilità naturale, di far divenire l'adattamento un dispendioso e continuo rifacimento in cui l'uomo tenta inutilmente di trasformare la natura "viva" in apparentemente natura "morta", di voler trasformare la casa dell'uomo in un museo.
Il trascurare implicitamente il punto 2 senza che nessuno apra una seria discussione, è possibile perché è diffusa la convinzione che la natura vari solo per colpa delle azioni umane. Ma come disse Thomas H. Huxley (1825-1895): "La scienza compie suicidio quando adotta un credo".

Fonte: fonte non disponibile, 21-8-2008

8 - L'OSSERVATORE ROMANO: IL SACERDOTE E LA CELEBRAZIONE DELLA MESSA

Autore: mons. Nicola Bux - Fonte: fonte non disponibile, 5 agosto 2008

Il sacerdote, per celebrare con arte il servizio liturgico, non deve ricorrere ad accorgimenti mondani ma concentrarsi sulla verità dell'eucaristia. L'Ordinamento generale del messale romano stabilisce:  "Anche il presbitero...quando celebra l'eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo". Il prete non escogita nulla, ma col suo servizio deve rendere al meglio agli occhi e agli orecchi, ma anche al tatto, al gusto e all'olfatto dei fedeli, il sacrificio e rendimento di grazie di Cristo e della Chiesa, al cui mistero tremendo possono avvicinarsi quanti si sono purificati dai peccati. Come possiamo avvicinarci a lui se non abbiamo il sentimento di Giovanni il precursore:  "è necessario che egli cresca e io diminuisca"(Gv 3, 20)? Se vogliamo che il Signore cammini con noi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza, altrimenti priviamo dell'efficacia il nostro atto devoto:  l'effetto dipende dalla nostra fede e dal nostro amore.
NON È IL SACERDOTE PADRONE DEI MISTERI
Il sacerdote è ministro, non padrone, amministratore dei misteri:  li serve e non se ne serve per proiettare le proprie idee teologiche o politiche e la propria immagine, al punto che i fedeli si fermerebbero a lui invece che guardare a Cristo che è significato dall'altare e presente sull'altare, e in alto sulla croce. Come ha ammonito recentemente il Santo Padre, la cultura dell'immagine in senso mondano segna e condiziona anche i fedeli e i pastori; la televisione italiana, a commento del discorso inquadrava una concelebrazione nella quale alcuni sacerdoti parlavano al telefonino. Dal modo di celebrare la messa si possono dedurre molte cose:  la sede del celebrante in molti luoghi ha decentrato croce e tabernacolo occupando il centro della chiesa, talvolta sovrastando per importanza l'altare, finendo per assomigliare ad una cattedra episcopale che nelle chiese orientali sta fuori dell'iconostasi, ad un lato ben visibile. Era così anche da noi prima della riforma liturgica.
L'ars celebrandi consiste nel servire con amore e timore il Signore:  per ciò si esprime con baci alla mensa e ai libri liturgici, inchini e genuflessioni, segni di croce e incensazioni di persone e oggetti, gesti di offerta e di supplica, ostensioni dell'evangelario e della santa eucaristia.
Ora, tale servizio e stile del prete celebrante o, come si ama dire, del presidente dell'assemblea - termine che porta a fraintendere la liturgia come un atto democratico - si vede dal suo prepararsi alla vestizione in sacristia nel silenzio e raccoglimento per l'atto grande che si appresta a fare; dall'incedere all'altare, che deve essere umile, non ostentato, senza indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l'applauso. Infatti, il primo atto è l'inchino o la genuflessione davanti alla croce e al tabernacolo, in sintesi la presenza divina, seguito dal bacio riverente dell'altare ed eventualmente dall'incensazione; il secondo atto è il segno di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l'atto penitenziale, da compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero inginocchiarsi, come nell'antico rito, - perché no? - imitando il pubblicano gradito al Signore. Le letture saranno proclamate come parola non nostra, perciò con tono chiaro e umile. Come il sacerdote inchinato chiede di purificare le labbra e il cuore per annunziare degnamente il vangelo, perché non potrebbero farlo i lettori, se non visibilmente come nel rito ambrosiano, almeno in cuor loro? Non si alzerà la voce come in piazza e si manterrà un tono chiaro per l'omelia ma sommesso e supplice per le preghiere, solenne se in canto. Il sacerdote si appresterà inchinato a celebrare l'anafora ancora "in spirito di umiltà e con animo contrito".
LO STUPORE EUCARISTICO
Toccherà i santi doni con stupore - lo stupore eucaristico di cui ha parlato spesso Giovanni Paolo II - e con adorazione, e i vasi sacri purificherà con calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà sul pane e sul calice nel dire le parole di Cristo consacrante e nell'invocare lo Spirito Santo alla supplica o epiclesi. Li eleverà separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà con raccoglimento e tono orante l'anafora fino alla dossologia, elevando i santi doni in offerta al Padre. Reciterà il Padre nostro con le mani alzate e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il sacerdote non lascerà il sacramento sull'altare per dare la pace fuori del presbiterio, invece frazionerà l'ostia in modo solenne e visibile, quindi genufletterà davanti all'eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo corpo e prezioso sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l'ostia per la comunione, supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per primo. Così sarà di esempio ai fedeli.
Dopo la comunione il ringraziamento nel silenzio, meglio che seduti si può fare in piedi in segno di rispetto o inginocchiati, se è possibile, come ha fatto fino all'ultimo Giovanni Paolo II, col capo inchinato e le mani congiunte; al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la vita eterna, come si dice mentre si purificano i vasi sacri. Molti fedeli lo fanno e ci sono di esempio. Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione finale, salendo l'altare per baciarlo, ancora alzi gli occhi alla croce e si inchini o genufletta al tabernacolo. Quindi torni in sacristia, raccolto, senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.
Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia, che è una cosa seria, e in cui tutto ha un senso per l'incontro col mistero presente.
Paolo VI, nell'istruzione Eucharisticum mysterium richiama una verità centrale esposta da san Tommaso:  "Questo Sacrificio, poi, come la stessa passione di Cristo, sebbene sia offerto per tutti, "non ha effetto se non in coloro che si uniscono alla passione di Cristo con la fede e la carità... Ad essi tuttavia giova più o meno secondo la misura della loro devozione"". La fede è condizione della partecipazione al sacrificio di Cristo con tutto me stesso. In che cosa consiste l'azione dei fedeli, diversamente dal sacerdote che consacra? Essi, memori, rendono grazie, offrono e, convenientemente disposti, si comunicano sacramentalmente. L'espressione più intensa è nella risposta all'invito del sacerdote poco prima dell'anafora:  "Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa".
Senza fede e devozione del sacerdote non sussiste l'ars celebrandi e non viene favorita la partecipazione del fedele, innanzitutto la percezione del mistero. Perché il Signore, di noi "conosce la fede e la devozione" (Canone romano) che si esprimono nei sacri gesti, gli inchini, le genuflessioni, le mani giunte, lo stare inginocchiati. La mancanza della devozione nella liturgia, spinge molti fedeli ad abbandonarla e a dedicarsi a forme di pietà secondarie, allargando la divaricazione tra l'una e le altre. Poiché la sacra liturgia è un atto di Cristo e della chiesa, non l'esito della nostra bravura, non prevede il successo a cui applaudire. La liturgia non è nostra ma sua.
LA TRADIZIONE DELLA CHIESA
La congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti nell'istruzione Redemptionis sacramentum ricorda al sacerdote la promessa dell'ordinazione, rinnovata di anno in anno nella messa crismale, di celebrare "devotamente e con fede i misteri di Cristo a lode di Dio e santificazione del popolo cristiano, secondo la tradizione della Chiesa" (n. 31).
Egli è chiamato ad agire nella persona di Cristo, deve perciò imitarlo nell'atto sommo della preghiera e dell'offerta, non deve deformare la liturgia in una rappresentazione delle sue idee, cambiare e aggiungere alcunché arbitrariamente:  "Troppo grande è il mistero dell'eucaristia perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale" (Ivi, n. 11). La messa non è proprietà del prete o della comunità. L'istruzione declina abbondantemente come va celebrata rettamente la messa cioè l'ars celebrandi:  i seminaristi per primi devono apprenderla attentamente affinché possano attuarla da sacerdoti.
Benedetto XVI, nella Sacramentum caritatis dedica attenzione all'ars celebrandi (n. 38-42), intesa come l'arte di celebrare rettamente, e ne fa la condizione della partecipazione attiva dei fedeli:  "L'Ars celebrandi scaturisce dall'obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti"(38). In nota 116 la Propositio n. 25 specifica che "un'autentica azione liturgica esprime la sacralità del mistero eucaristico. Questa dovrebbe trasparire nelle parole e nelle azioni del sacerdote celebrante, mentre egli intercede presso Dio Padre sia con i fedeli sia per loro". Poi l'esortazione ricorda che "L'ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l'utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l'armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell'arredo e del luogo sacro" (40). Trattando dell'arte sacra, richiama l'unità tra altare, crocifisso, tabernacolo, ambone e sede (41):  attenti alla sequenza che rivela l'ordine d'importanza. Con l'immagine, anche il canto deve servire ad orientare la comprensione e l'incontro col mistero.
Il vescovo e il presbitero, tutto questo sono chiamati a esprimere nella liturgia che è sacra e divina, in modo che manifesti davvero il credo della Chiesa.

Fonte: fonte non disponibile, 5 agosto 2008

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