BastaBugie n�55 del 07 novembre 2008

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1 LA REPUBBLICA (MAGGIO 2008): IL MAESTRO UNICO VA BENE. LA REPUBBLICA (SETTEMBRE 2008): IL MAESTRO UNICO NON VA BENE

Autore: Michele Brambilla - Fonte: Fonte non disponibile
2 I MOTIVI DELLA CONTESTAZIONE AL MINISTRO GELMINI

Autore: Giancarlo Loquenzi - Fonte: Fonte non disponibile
3 LA COSTITUZIONE ITALIANA, UN MINESTRONE CHE IGNORA DIO
La Carta del 1948 compie sessant'anni. Fu il prodotto del compromesso fra cultura cattolica, partiti marxisti e forze laiche. E porta con se una colpa originale: non parla di Dio
Autore: Mario Palmaro - Fonte: Il Timone
4 I CITTADINI PIÙ DISCRIMINATI
Se si sospendono le cure ai neonati prematuri
Autore: Carlo Bellieni - Fonte: Fonte non disponibile
5 IL RACCONTO AGGHIACCIANTE DEL SACERDOTE CHE È STATO ACCANTO A TERRI SCHIAVO NELLE ULTIME 14 ORE

Autore: Padre Frank Pavone - Fonte: Fonte non disponibile
6 LA STRATEGIA DEL CASO PIETOSO
Il bimbo spagnolo selezionato per curare il fratello
Autore: Lucetta Scaraffia - Fonte: Fonte non disponibile
7 CRESCONO DELL’1,4 PER CENTO I CATTOLICI NEL MONDO

Fonte: Fonte non disponibile
8 PROGETTO DI LEGGE BIPARTISAN
Potrebbe rischiare il carcere chi critica gli omosessuali
Autore: Fabio Bernabei - Fonte: Fonte non disponibile

1 - LA REPUBBLICA (MAGGIO 2008): IL MAESTRO UNICO VA BENE. LA REPUBBLICA (SETTEMBRE 2008): IL MAESTRO UNICO NON VA BENE

Autore: Michele Brambilla - Fonte: Fonte non disponibile, 29 ottobre 2008

I voltagabbana del maestro unico

A sinistra considerano "pericolosa" la reintroduzione di un solo docente alle elementari. Ma fino a pochi mesi fa avevano nostalgia del vecchio sistema. Ecco che cosa scrivevano
«Quando l’antica maestra intera si scisse nelle tre maestre per due classi, per ragioni sindacali contro il crollo demografico, si minò un pilastro della nostra convivenza». Ecco, non riuscivo a trovare le parole per esprimere quel che penso sulla questione del maestro unico, sui danni prodotti dalla sua abolizione, e perfino sulle ragioni («sindacali», non pedagogiche) che portarono alle tre maestre invece che una, e grazie al Cielo ho trovato un altro che aveva già messo in fila le parole giuste prima di me. Così, con una bella citazione, me la sono cavata senza faticare troppo. E sapete di chi è la frase sopra riportata fra virgolette? Di Mariastella Gelmini? Del leghista Roberto Cota? O addirittura del premier? No: sono parole di Sofri. Adriano Sofri.
E sapete dove le ha scritte? Forse sul Foglio, che è un po’ berlusconiano? No: le ha scritte su Repubblica.
E sapete quando le ha scritte? Forse anni fa, in un altro tempo e con un’altra scuola? No: le ha scritte il 3 giugno 2008. Meno di cinque mesi fa.
Per completezza di informazione: l’articolo di Sofri era pubblicato in prima pagina e s’intitolava «Ecco perché ci servono più maestre da libro Cuore». Sempre per completezza, Sofri prendeva spunto da due fatti: un articolo di Zagrebelsky («La democrazia ha ancora bisogno di maestri») e l’appello di una quarta elementare di Roma al ministero affinché non cambiasse la maestra, in età di pensione.
Siccome quando si citano frasi altrui è sempre dietro l’angolo l’accusa di estrapolazioni selvagge, chiarisco che la frase citata all’inizio va inserita nel seguente contesto, che cito testualmente: «Zagrebelsky commemora i grandi maestri civili, soppiantati da televisione, pubblicità, moda: altrettante seduzioni facili, aliene dal suscitare i bravi discepoli senza i quali non compaiono i bravi maestri. Ma nel mondo che si perde la prima e decisiva formazione civile era l’opera delle maestre. Erano loro a insegnare a leggere e scrivere, a fare le operazioni, a dire le preghiere, a stare seduti e alzarsi in piedi. Il tramonto delle maestre può essere salutato come un capitolo dell’emancipazione femminile». E subito qui di seguito la frase citata all’inizio: «Ma quando l’antica maestra intera si scisse...».
Si potrebbe obiettare che Repubblica dispone di un ampio parco di grandi firme, e non è detto che quella di Sofri sia la posizione del giornale. Ok. Però, così, giusto per procedere sulla completezza d’informazione: pochi giorni prima, sempre sulla questione della quarta elementare romana che rischiava di cambiare maestra, Repubblica aveva affidato il commento a un altro suo esperto di scuola, Marco Lodoli. Il quale, dopo aver tratteggiato le qualità e l’importanza della vecchia maestra, scriveva: «Poi qualcuno ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi e da una è diventata tre, e tre maestre sono diventate un viavai di volti, abbondanza e confusione, e forse qualcosa si è guadagnato e di sicuro qualcosa si è perso». Notare il «forse» e il «di sicuro». Era il 27 maggio 2008, esattamente tre mesi e venti giorni prima che lo stesso Lodoli, sempre su Repubblica, così commentasse il progetto del governo di reintrodurre il maestro unico: «Le elementari, fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, sono finite sotto l’accetta della ministra Gelmini, che per rispettare le esigenze di risparmio non ha immaginato nient’altro che la maestra unica: come dire suicidiamoci per consumare meno ossigeno». Era il 16 settembre 2008.
Non è che vogliamo sottolineare, a proposito di maestrine dalla penna rossa, incoerenze e giravolte (nel caso di Sofri, tra l’altro, non risulta che abbia cambiato idea). Vogliamo solo esprimere lo stupore per l’attuale levata di scudi della sinistra contro il ritorno del maestro unico. Sono giorni che sentiamo demonizzare questa figura da pedagogisti che mai avevamo udito, prima, esprimersi in tal modo. Politici, giornalisti e genitori anti-Gelmini s’accodano. L’altra sera ad AnnoZero hanno parlato di «rischio di pensiero unico». Fosse un vecchio cavallo di battaglia della sinistra, capiremmo. Ma mai c’è stata, nella cultura della sinistra, l’esaltazione dei tre maestri, anzi. La loro introduzione fu motivata solo dalla volontà di salvare posti di lavoro, ma mai nessuno ne aveva esaltato l’efficacia. Al contrario, sono tantissime le testimonianze di una sinistra perplessa. Ortensio Zecchino, ministro dell’Università con D’Alema e Amato, al momento della riforma votò contro dicendo: «Non resta che prendere atto dell’esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale... svalutando il momento formativo e culturale». Ed Edgar Morin, consulente del ministro Fioroni proprio per la riforma della scuola, ha fatto dell’unitarietà dell’apprendimento il suo credo: «Il nostro sistema d’insegnamento - ha detto - separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo».
Chissà come mai, insomma, tanti repentini cambiamenti. Personalmente ho un ricordo fantastico e commovente, della mia maestra unica. Solo che fatico anche qui a trovare le parole. Le prendo in prestito: «La figura della maestra campeggia nella nostra memoria come un totem sacro, è l’asse attorno al quale ha girato la nostra infanzia, fu la solenne e dolce depositaria di ogni sapere, quella che ci ha insegnato gli affluenti del Po e le divisioni a tre cifre, le Guerre Puniche e le poesie di Pascoli, ci ha aiutato a crescere nella pace di un tempo immobile e fecondo. (...) L’infanzia ha bisogno di certezze (...) se l’amata maestra dopo quattro anni scompare, allora tutto può svanire». Chi ha scritto queste belle parole? Ma sempre Marco Lodoli, sempre su Repubblica. Sembra ieri, invece erano ben cinque mesi fa.

Fonte: Fonte non disponibile, 29 ottobre 2008

2 - I MOTIVI DELLA CONTESTAZIONE AL MINISTRO GELMINI

Autore: Giancarlo Loquenzi - Fonte: Fonte non disponibile, 24 Ottobre 2008

Vogliamo provare a capirci qualcosa in questa storia dell’Università, delle occupazioni, della Gelmini e tutto il resto? Non sarà facile, vi avverto, perché circola una confusione tale – in parte dovuta alla malafede, in parte alla superficialità – che a mettere un po’ d’ordine ci vuole concentrazione.
Prendiamo le mosse dai motivi della protesta: sui giornali, nei tiggì, nelle interviste ai ragazzi che protestano e occupano le università, si parla quasi sempre di “legge Gelmini”. Lì dentro sarebbe l’origine della devastazione dell’istruzione universitaria in Italia. La legge Gelmini, come dice Curzio Maltese su Repubblica, è quella che taglia il domani ai nostri ragazzi. Maltese ne è così convinto (ma non è il solo) che nel suo elegiaco resoconto di una notte di occupazione, pubblicato oggi su Rep., dice tra l’altro: “Gli studenti hanno tirato l’alba per studiare la legge Gelmini nei minimi particolari scovandovi un’infinita serie di contraddizioni”.
La prima contraddizione che Maltese e i suoi giovani eroi avrebbero dovuto scovare è che non esiste alcuna “legge Gelmini” che riguardi l’Università. Esiste un decreto legge che il Parlamento sta convertendo in legge in questi giorni (n°137 del 2008) che riguarda in modo particolare la scuola primaria (il maestro unico, i voti in numeri, ecc). Certo, studiandolo nei “minimi particolari” si può scoprire che c’è un articolo che riguarda l’abilitazione della laurea in scienze della formazione primaria (art.6) e un altro l’accesso alle scuole di specializzazione in medicina e chirurgia (art.7). Ma non sembra che siano questi i motivi della marea montante della protesta.
 Alla confusione contribuisce anche Walter Veltroni quando, in nome delle occupazioni in corso, chiede a Berlusconi di ritirare il decreto Gelmini. La stessa cosa chiedono gli universitari ricevuti dal ministro che poi si indignano quando questo rifiuta. Ma a meno che tutte le proteste di questi giorni siano una forma di solidarietà verso gli alunni delle elementari, resta forte il sentore propagandistico di tutta questa vicenda.
Allora con chi ce l’hanno davvero gli occupanti, che sempre secondo i giornali, “come un bollettino di guerra” estendono la loro protesta in ogni angolo universitario d’Italia? Non è dai giornalisti che viene un indizio, nonostante il fatto che i quotidiani sono pieni, in questi giorni,  di pagine e pagine che scavano ogni dettaglio del fenomeno studentesco. Nelle interviste in tivvù invece qualche ragazzo ha timidamente suggerito che la protesta punta contro la legge 133. Si tratta della legge approvata all’inizio d’agosto denominata  "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria". E’ in sostanza la cosiddetta “pre-finanziaria”, delineata e poi approvata ormai quattro mesi fa.
Viene intanto da chiedersi perché si protesta a fine ottobre per un decreto presentato a fine giugno, e qui si potrebbe fare un po’ di dietrologia, considerando le necessità dell’opposizione di riconquistare la scena alla vigilia della manifestazione del 25 ottobre e quella dei giornali di complemento di inscenare in qualche modo la ribellione contro il governo Berlusconi. Ma qui per ora tralasciamo di approfondire.
Vediamo piuttosto se i contenuti della 133 giustificano l’impeto della protesta. Torniamo per un momento all’elegia dell’occupazione composta oggi da Maltese. Nell’attacco si fa parlare uno studente che secondo l’autore dovrebbe essere rappresentativo delle ragioni profonde della “rabbia dei ragazzi miti” conto il governo. Dice dunque lo studente: “Ho 22 anni e vivo ogni giorno sotto ricatto. Ho paura di non farcela a riscattare tutti i crediti, del contratto di precario che scade, di non poter pagare l’affitto, di non trovare lavoro dopo la laurea, della crisi mondiale, dell’aumento delle bollette”. Sono obiettivamente tutti buoni motivi per aver paura, ma hanno qualcosa a che fare con la legge 133 e con le occupazioni di questi giorni? Molto poco.
La legge 133, come detto, si occupa di tutta la pubblica amministrazione e dedica all’Università il capo V, composto a sua volta da tre articoli, il 15, il 16 e il 17 (gli articoli sono in tutto 85). Vi si tratta di costo dei libri scolastici, della facoltà di trasformazione delle Università in fondazioni e dei progetti di ricerca di eccellenza. Niente che possa suscitare più che un noioso dibattito televisivo. C’è poi l’allegato dove si parla di tagli per il ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e per tutti gli altri ministeri. Sono tagli generalizzati, legati alle esigenze di bilancio di cui ci si può certamente lamentare, ma non si può dire che l’Università sia stata colpita con particolare durezza: 107 milioni di euro nel 2009, 114 nel 2010 e 197 nel 2011. Si potrebbe anche supporre che si tratti di tagli mirati ad eliminare sprechi e privilegi, ma non vogliamo essere così ottimisti: ci limitiamo a dire che non sembrano destinati a “tagliare il domani” dei nostri ragazzi.
C’è anche bisogna dirlo, come per tutti i comparti della p.a., il blocco del turn-over per tre ani: i dipendenti che vanno in pensione non saranno sostituiti. Molti potranno dispiacersene, vedendo aspettative di carriera deluse, ma visto il numero stratosferico di docenti nel comparto istruzione non ci sentiamo di dolercene più di tanto e comunque non sembra una misura destinata ad infiammare gli animi degli studenti.
Viene dunque da chiedersi quali sono, se ci sono, i veri motivi della protesta e se essa sia davvero così dilagante e unanime come i giornali e le tivvù la descrivono. In altri articoli dedicati a questa vicenda abbiamo raccolto storie e testimonianze di molti studenti che da un lato ridimensionano la portata della rivolta e la circoscrivono alla parte più politicizzata degli studenti (centro sociali, ecc..), dall’altro denunciano minacce e violenze contro la maggioranza di quelli che vorrebbero continuare a studiare in pace. C’è poi un altro elemento che viene fuori dalle cronache: i più vocianti in questa stagione di proteste non sembrano essere gli studenti, bensì professori e rettori, loro sì preoccupati che lo status quo in cui prosperano, tra familismi e baronie, possa prima o poi essere alterato. Anche qui sono sempre gli stessi: il solito Maltese ad esempio fa parlare Fernando Ferroni, professore di Fisica, uno dei promotori della protesta contro la lectio magistralis del Papa e oggi in prima linea nelle occupazioni. Per non parlare di uno come Luigi Frati, Rettore della Sapienza, che organizza la protesta, ma è lo stesso che usò l’aula magna della Facoltà per il ricevimento di matrimonio della figlia.
Da altre facoltà ci raccontano di professori che danno dei vigliacchi agli studenti che restano in classe a studiare, di rettori che incoraggiano la sospensione delle lezioni e altri paradossi del genere.
Insomma, una minoranza confusa e vociante di studenti e docenti domina la scena grazie al potere magnificante dell’informazione, mentre scompare dalla vista e dal bilancio delle ragioni la maggioranza silenziosa di studenti che continuano a stare in classe e studiare.
Al di là dell’epica dominante, che assegna ai ribelli il ruolo da protagonisti, ne scandaglia sogni e passioni e ne canta le gesta eroiche contro il maligno Cavaliere, c’è una narrazione più ordinaria ma più vera che parla di un altro tipo di eroi.
L’Università è al disastro sotto ogni punto di vista, da molti più anni di quanti ne abbia il ministro Gelmini e da molto prima dell’entrata in scena di Berlusconi. Semmai è l’indiscussa egemonia della sinistra sugli atenei italiani a essere coeva con la loro crisi.
Che ci siano ancora centinaia di migliaia di studenti silenziosi che puntano le loro carte e il loro futuro su questa Università, ci stupisce e ci meraviglia molto di più delle tribù dei sacchi a pelo – du’ amici, ‘na chitarra e ‘no spinello – che pensano di passare alla storia salvando il mondo dalla Gelmini.

Fonte: Fonte non disponibile, 24 Ottobre 2008

3 - LA COSTITUZIONE ITALIANA, UN MINESTRONE CHE IGNORA DIO
La Carta del 1948 compie sessant'anni. Fu il prodotto del compromesso fra cultura cattolica, partiti marxisti e forze laiche. E porta con se una colpa originale: non parla di Dio
Autore: Mario Palmaro - Fonte: Il Timone, settembre 2008 (n.76)

La Costituzione della Repubblica italiana compie 60 anni. Era il primo gennaio del 1948 quando il testo fondamentale del nostro ordinamento entrava formalmente in vigore. La Costituzione era stata approvata pochi giorni prima, il 22 dicembre del '47, con una maggioranza schiacciante, che sfiorava l'unanimità: 453 i voti favorevoli tra i membri dell'Assemblea costituente, soltanto 62 i contrari. Un risultato sorprendente, se si considera quale fosse la composizione di quell'organismo, eletto dagli italiani il 2 giugno del 1946.

UN COMPROMESSO STORICO
Nella Costituente, 207 seggi erano andati alla Democrazia cristiana (35,2%), 115 seggi al Partito socialista di unità proletaria (20,7%) e 104 al Partito comunista italiano (19,9%). Seguivano liberali e demolaburisti con 41 seggi, il Fronte dell'Uomo qualunque con 30 rappresentanti, i Repubblicani con 23 seggi, i Monarchici con 16 seggi, il Partito d'Azione con 7. Si può subito notare che comunisti e socialisti insieme contavano su un numero di voti superiore a quello del partito di maggioranza relativa, la Dc. L'influsso della componente marxista e materialista sarebbe quindi stato determinante per la stesura della carta costituzionale. Non solo: dopo la caduta del regime guidato da Benito Mussolini, il 25 luglio 1943, i cosiddetti partiti antifascisti avevano inaugurato una stagione di stretta collaborazione, dando vita a una serie di governi composti da democristiani, comunisti, socialisti, liberali e azionisti. Era pur vero che il rapporto fra socialcomunisti e il resto dei partiti si era poi progressivamente deteriorato. Ma nell'Assemblea costituente fu chiaro fin dall'inizio che si sarebbe lavorato alla stesura di un testo di compromesso, in grado di mettere d'accordo anime così diverse. Palmiro Togliatti descrisse in questi termini il lavoro della Costituente: «Abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse».

UNA COSTITUZIONE SENZA DIO
Le parole di Togliatti fotografano con molta onestà il risultato fissato sulla Carta nel testo che ancora oggi è alla base della Repubblica italiana. La mediazione fra cattolici e marxisti produsse una prima vittima illustre fin dalle prime righe: nella Costituzione italiana non c'è alcuna traccia di Dio. Il deputato democristiano Giorgio La Pira, prendendo la parola alla vigilia del voto finale, il 22 dicembre del 1947, propose di far precedere agli articoli già votati un breve preambolo, in cui si facesse esplicito riferimento a Dio come ispiratore della nuova Costituzione. La proposta non piacque ai laici - anche se Giuseppe Saragat si dichiarò favorevole - e suscitò perplessità nella stessa Democrazia cristiana perché, come riferisce uno storico cattolico, «il nome di Dio rischiava di essere un ulteriore elemento di divisione e di vanificare il vastissimo accordo che andava profilandosi». Alla fine, lo stesso La Pira fu indotto suo malgrado a ritirare la proposta.
Si dirà che quel richiamo a un Dio generico non avrebbe modificato le sorti del nostro Paese. Può darsi. Ma è pur vero che si trattò di un segnale politico e culturale molto forte, anche all'interno dello stesso mondo cattolico: mentre da una parte Pio XII riteneva giustamente prioritario "ricristianizzare l'Italia", la dirigenza democristiana riteneva che la sua missione storica consistesse nel laicizzare e democratizzare il Paese, per agganciarlo alla modernità.
II risultato è una Costituzione repubblicana materialista e apertamente atea, che sul tema della religione e del rapporto fra l'uomo e Dio consuma uno strappo radicale rispetto al precedente Statuto Albertino, promulgato nel 1848.

IL LAVORO COME VALORE SUPREMO
L'esito paradossale della "abolizione costituzionale di Dio" è che la Carta si apre all'articolo 1 con una infelicissima formulazione, che rimanda vagamente ai Paesi del blocco sovietico e al Capitale di Marx: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Dove si coglie immediatamente tutto peso dell'antropologia socialcomunista, che pone addirittura al vertice dell'architettura statuale il lavoro umano, inteso come "forza lavoro". E dove si nota l'elevazione a valore assoluto di due concetti - repubblica e democrazia - che sono invece ambivalenti, ambigui, e relativi ai contenuti che intendono promuovere. Ci sono cioè democrazie buone e democrazie cattive. A queste critiche si può obiettare che la Carta del 1948 contiene in grande quantità principi e valori di diretta derivazione cristiana.
Effettivamente, il contributo della cultura cattolica in molti snodi della Costituzione è ancora oggi del tutto evidente. Basti citare, ad esempio, il fatto che i diritti inviolabili dell'uomo sono "riconosciuti" dalla Repubblica (articolo 2) con una implicita allusione al fatto che questi diritti preesistono allo Stato e hanno un fondamento meta-giuridico, e che quindi non sono inventati o creati dal legislatore. Oppure si pensi all'articolo 29, dove la famiglia è definita come «società naturale fondata sul matrimonio», e dove "l'unità familiare" è riconosciuta come preminente sui pur legittimi interessi dei coniugi. Articoli di evidente impronta giusnaturalistica, che tuttavia manifestano il loro tallone d'Achille proprio nella mancanza di una fondazione metafisica. Non è infatti chiaro - né la Carta si sforza di spiegarlo - quali siano le radici degli spesso evocati "valori costituzionali". L'assenza di ogni riferimento al Creatore autorizza a pensare che tutte le norme, anche le supreme e fondative dell'ordinamento, siano soltanto il prodotto della volontà arbitraria degli uomini, che si proclamano "autolegislatori" e fonte ultima ed esclusiva del diritto vigente. Per cui i contenuti della Costituzione vengono relativizzati e sottomessi al mutevole capriccio delle mode e delle generazioni che si susseguono nel tempo.
Dire infatti - come fa pomposamente l'articolo 1 - che «la sovranità appartiene al popolo», e dirlo senza evocare la divinità, significa riaffermare prometeicamente che non esiste alcuna autorità alla quale l'uomo deve rendere conto. Significa, insomma, trasformare il principio di maggioranza in un assoluto etico e giuridico.

LA COSTITUZIONE COME MOLOC INTOCCABILE
Non vogliamo certo negare i molti contenuti positivi che la Costituzione del 1948 ha consegnato alla nostra cultura giuridica. Valori e modelli già presenti nella poderosa e insuperata tradizione romanistica, affinati dalla giurisprudenza classica italiana, e solennizzati in numerosi articoli della nostra Carta costituzionale. Tuttavia, la storia della repubblica è costellata di svolte legislative che hanno rivelato la debolezza sostanziale della nostra Costituzione. Pensiamo alla legalizzazione del divorzio, vulnus gravissimo alla natura intrinseca del matrimonio; o all'approvazione della legge sull'aborto, che contrasta proprio con l'articolo 2 della Costituzione. Queste leggi ingiuste, approvate con la "benedizione" della Corte Costituzione, confermano l'esistenza di una radice malata nell'intero impianto costituzionale, una sorta di debolezza congenita che consentirà, purtroppo, ulteriori derive nei prossimi anni. Ad esempio sul terreno dell'eutanasia e delle cosiddette coppie di fatto. Ragioni più che valide per abbandonare una certa visione idolatrica della Costituzione, diffusa anche in alcuni settori del mondo cattolico italiano. Quasi che la Costituzione del '48 sia una sorta di appendice alle tavole della legge che Mosè ricevette da Dio sul monte Sinai.
Si tratta, molto più prosaicamente, di una legge fatta da uomini, mortali e fallibili. Molti dei quali, per giunta, affascinati da ideologie false e bugiarde.

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Fonte: Il Timone, settembre 2008 (n.76)

4 - I CITTADINI PIÙ DISCRIMINATI
Se si sospendono le cure ai neonati prematuri
Autore: Carlo Bellieni - Fonte: Fonte non disponibile, 29/10/2008

Una recente rassegna sulla prestigiosa rivista Archives of Disease in Childhood sintetizza le linee-guida sulla rianimazione neonatale in auge in molti Paesi, un tema che ora è molto dibattuto. Lo studio è dovizioso in particolari e mostra un fenomeno tipicamente postmoderno in cui il diritto alla vita cede il passo alla sua "qualità": a un aumento delle nascite di bambini prematuri corrisponde una costante spinta a non rianimare i più gravi tra loro, nonostante essi abbiano delle possibilità di sopravvivere.
È un fenomeno allarmante, perché non solo finisce col privare di una chance chi potrebbe averla – uno studio svedese di Stellån Hakansson e altri (Pediatrics, giugno 2004) mostra infatti che le unità di rianimazione che non fanno una selezione alla nascita su chi curare, finiscono con avere in percentuale meno bambini disabili delle altre - ma soprattutto perché rischia di porre la futura disabilità o "l'interesse di terzi" (così Michael L. Gross in Bioethics, giugno 2002) come criterio per rianimare.
Probabilmente questi non sono i principi di tutti i protocolli, ma in molti Paesi occidentali la nascita sotto le 25 settimane di gestazione è considerata una "zona grigia" in cui le cure dovrebbero avvenire eccezionalmente, secondo alcuni solo con l'accordo dei genitori, nonostante che sin dalla ventiduesima settimana sia possibile in misura sempre maggiore la sopravvivenza. Si dice che rianimare bambini che hanno il 10 per cento di possibilità di sopravvivere è "accanimento terapeutico": fortuna che nessuno la pensava così negli anni Sessanta del Novecento quando se un bambino pesava meno di un chilo aveva appunto il 10 per cento di possibilità di farcela, mentre oggi – non avendo smesso di curare i piccoli sotto il chilo – le possibilità sono del 90 per cento.
Ma la non rianimazione del piccolo paziente genera problemi anche a livello scientifico. In primo luogo, perché al momento della nascita non si può avere certezza sulla prognosi. Dunque quando si propone di non assistere i bambini di una certa età gestazionale, lo si fa su base probabilistica e non sul singolo caso, sapendo oltretutto che l'età esatta dal concepimento è spesso per lo meno discutibile.
In secondo luogo, allo stato attuale delle cose sopravvive circa l'8 per cento dei bambini nati dopo 22 settimane dal concepimento, una percentuale pari a quella degli adulti sopravvissuti ad arresto cardiaco, che nessuno – per il momento – propone di non assistere. Già a 23 settimane ne sopravvive il 25 per cento e a 24 settimane il 50. Ma addirittura le conseguenze neurologiche, pur essendoci in molti casi dei gravi handicap come conseguenza della nascita prematura, non sono sempre disastrose, come mostra uno studio di Neil Marlow (New England Journal of Medicine, 2005), secondo cui il 22 per cento dei sopravvissuti sotto le 25 settimane avrà una disabilità grave, il 24 una disabilità media e il 34 una disabilità lieve. Uno studio tedesco di Jochen Steinmacher (Journal of Pediatrics, 2008) mostra che il 57 per cento dei sopravvissuti tra i nati a 23-25 settimane va a scuola regolarmente. Sono dati molto migliori della prognosi di un adulto colpito da ictus cerebrale che il medico ha l'obbligo – e non l'opzione – di curare.
In terzo luogo, molti propongono che i genitori partecipino con un peso determinante alla decisione sulla vita del bambino. Evidentemente chi sostiene questa tesi non sa che i parti sono molto spesso precipitosi:  la donna è in preda alle doglie e il padre è ovviamente sconvolto, tanto da non lasciare a nessuno dei due la serenità per pensare. Ma soprattutto, molti invocano che la decisione sulla rianimazione tenga conto anche dei desideri dei genitori, cosa che non sarebbe mai pensabile se il paziente fosse un adulto:  in questo caso, la decisione sulla sospensione delle cure riguarderebbe solo la loro inutilità, non il peso che il paziente costituirebbe per i familiari.
Insomma, su molte riviste mediche ci si sta domandando perché il modo di trattare i neonati sia diverso da quello degli altri pazienti, quasi che i primi abbiano uno status differente. Infatti nessun adulto si vedrebbe sospendere le cure se la prognosi non fosse certa, e nessuno penserebbe di non provare ad assisterlo se le possibilità di successo fossero le stesse dei bambini prematuri. Nessuno infine penserebbe di non rianimare un adulto per "alleggerire" il peso ai familiari. Almeno per ora.
Ma l'analisi degli studi scientifici mostra qualcosa di più. Infatti emerge chiaro che dietro un apparente razionale criterio di sospensione delle cure nel "miglior interesse del paziente" ci possano essere le paure e le ansie del medico stesso, piuttosto che un quadro distaccato e clinicamente oggettivo. Uno studio australiano del 2004 ha mostrato come i neonatologi che rianimano di meno sono quelli che più hanno paura di ammalarsi e di morire. E molti altri studi mostrano che l'età del medico, il sesso, l'etnia, la presenza di disabili in famiglia influiscono in maniera fortissima sulle decisioni di vita o morte che il medico prenderà. Uno studio francese di Annie Janvier e collaboratori (Acta Pediatrica, marzo 2008) mostra il livello di questo pregiudizio: domandando a un gruppo di medici se rianimerebbero un neonato di 24 settimane, solo il 21 per cento risponde affermativamente; alla domanda se rianimerebbero un paziente col 50 per cento di rischio di morte e il 25 per cento di rischio di handicap, la percentuale sale al 51 per cento, pur essendo il secondo quadro esattamente equivalente alla prognosi dei bimbi nati a 24 settimane.
Insomma, si tratta di scegliere se trattare i neonati come cittadini oppure subordinare il loro trattamento alle nostre ansie o al mito della "qualità della vita", facendo bene attenzione a un fatto: le ansie sono spesso irrazionali, ma il mito della "qualità della vita" finisce per diventare un alibi per la politica, che invece dovrebbe favorire il benessere dei disabili e delle loro famiglie.

Fonte: Fonte non disponibile, 29/10/2008

5 - IL RACCONTO AGGHIACCIANTE DEL SACERDOTE CHE È STATO ACCANTO A TERRI SCHIAVO NELLE ULTIME 14 ORE

Autore: Padre Frank Pavone - Fonte: Fonte non disponibile, 31 agosto 2008

Molti ricorderanno il caso di Terri Schiavo, una donna cerebrolesa morta di fame e di sete per decisione dei giudici della Florida, che hanno lasciato il diritto di vita o di morte nelle mani di suo marito. Un caso diverso da quello di Eluana ma da un punto di vista medico una situazione simile: come Eluana, Terri non era malata ma disabile. Respirava da sola, il cuore batteva da solo, reagiva agli stimoli, sorrideva, baciava. Questa è una sintesi, tradotta da Alessandra Nucci, della testimonianza del sacerdote che l'ha assistita nelle ultime ore di vita.
Ero al capezzale di Terri Schiavo durante le ultime 14 ore della sua vita terrena, fino a cinque minuti prima della sua morte. Le ho detto tante volte che aveva tanti amici nel mondo e molti pregavano per lei ed erano dalla sua parte. Le avevo detto le stesse cose durante le mie visite nei mesi prima che le fosse tolto il sondino dell'alimentazione, e sono convinto che abbia capito.
Conoscevo la famiglia di Terri da circa sei anni e mi hanno messo sull'elenco dei visitatori. Terri era in un ospizio ma fuori dalla porta c'erano dei poliziotti. Se non fossi stato sulla lista non avrei potuto oltrepassare quelle guardie armate perché l'elenco veniva tenuto molto breve e molto molto controllato. Perché? Perché i fautori dell'eutanasia dovevano riuscire a dire che Terri era una persona che non rispondeva ed era in una specie di stato vegetativo, coma o altra terminologia che vogliono usare per suggerire che non aveva alcuna reazione affatto. L'unico modo di provare che invece rispondeva era di vederla con i propri occhi.
Sono andato da lei nel settembre 2004 e poi ancora nel febbraio 2005. Quando la mamma mi presentò, lei mi fissò intensamente. Concentrò lo sguardo. Puntava gli occhi su chiunque le stesse parlando. Se qualcuno le parlava dall'altra parte della stanza girava la testa e gli occhi verso la persona che le stava parlando.
Sapete cosa hanno avuto il coraggio di dire certi dottori a questo riguardo? "Sono solo delle reazioni inconsapevoli, dei riflessi". Curioso: è esattamente la stessa cosa che dicono del bambino non nato del video "L'urlo silenzioso", quando il bambino apre la bocca e cerca di allontanarsi dallo strumento che sta per distruggerlo.
Io ho detto a Terri che c'erano molte persone nel Paese e nel mondo che le vogliono bene e pregano per lei. Mi ha guardato con attenzione. Le ho detto "Adesso Terri, preghiamo insieme, voglio darti una benedizione, diciamo delle preghiere." E allora ho messo la mano sulla sua testa. Lei ha chiuso gli occhi. Io ho detto la preghiera. lei ha riaperto gli occhi alla fine della preghiera. Suo padre si è chinato su di lei e ha detto, "OK Terri, ecco il solletico," perché lui ha i baffi. Lei rideva e sorrideva e poi vedevo che contraccambiava il bacio. La sua mamma a un certo punto le ha fatto una domanda e io ho sentito la voce di Terri. Cercava di rispondere. Faceva dei suoni in risposta alla domanda della mamma, non a caso in momenti insignificanti. L'ho sentita cercare di dire qualcosa ma non riuscire, a causa della sua disabilità, a formulare le parole. Quindi reagiva.
Ora, la sera prima di morire ero nella stanza probabilmente per un totale di 3-4 ore, e poi per un'altra ora la mattina dopo - la sua ultima ora.
Descrivere il suo aspetto come "sereno" significa distorcere completamente quello che ho visto io. Qui c'era una persona che da tredici giorni non aveva né cibo né acqua. Era, come potete immaginare, di aspetto molto tirato rispetto a quando l'avevo vista prima. Aveva gli occhi aperti ma andavano da una parte all'altra, oscillavano costantemente avanti e indietro, avanti e indietro. Lo sguardo (l'ho fissata per tre ore e mezzo) lo posso descrivere solo come un misto di paura e tristezza... una combinazione di tremenda paura e tristezza.
Aveva la bocca sempre aperta. Sembrava congelata. Ansimava a boccate rapide. Non era "serena" in alcun senso. Ansimava come se avesse appena corso cento miglia. Ma era un respiro superficiale. Suo fratello Bobby era seduto dirimpetto a me, dall'altra parte del letto. La testa di Terri era in mezzo a noi e sua sorella Suzanne era alla mia sinistra. Siamo stati lì per un po’ di tempo in preghiera intensa. E abbiamo parlato con Terri, esortandola ad affidarsi completamente al Salvatore. Le ho assicurato continuamente che aveva l'amore e le preghiere di tanta gente.
Ma insieme a Bobby e a sua sorella e Terri stessa, sapete chi altro c'era nella stanza con noi? Un poliziotto. Sempre. Almeno uno. A volte due. A volte tre poliziotti armati erano nella stanza. Sapete perché erano lì? Per assicurarsi che non facessimo nulla di proibito, come darle la comunione o magari un bicchier d'acqua. Quando a volte Bobby, seduto dall'altra parte del letto, si alzava di tanto in tanto per chinarsi su sua sorella, il poliziotto si spostava. Andava verso il fondo del letto per vedere quello che stava facendo. La mattina della sua morte siamo entrati piuttosto presto e dovevo uscire per un'intervista.
Per essere puntuale tenevo in mano un piccolo orologio e all'inizio della visita me lo sono messo nella mano sinistra, poi mi sono chinato sopra Terri e ho allungato la mano destra per benedirla. Cominciando a pregare ho chiuso gli occhi e mi sono sentito picchiettare sulla mano sinistra. Era il poliziotto che voleva sapere "Padre, cos'ha nella mano?" Io ho risposto, "E' solo un orologio." E lui: "Dovrò tenerlo io mentre lei è qui." Non potevamo tenere in mano niente. Non sapeva neanche cosa fosse. Magari stavo cercando di darle la comunione. Magari avrei cercato di inumidirle le labbra. Chissà quale terribile cosa stavo per fare? Sapete qual era il colmo? Nella stanza c'era un comodino. Potevo mettere una mano sul comodino e sulla testa di Terri senza spostarmi. Sapete cosa c'era sul comodino? Un vaso di fiori pieno d'acqua. Guardavo i fiori. Erano bellissimi. E ce n'era un altro dall'altra parte della stanza ai piedi del letto. Due bellissimi mazzi di fiori pieni d'acqua. Nutriti, vivi, bellissimi. Quei fiori venivano trattati meglio di Terri.
Coloro che hanno ucciso Terri si sono molto arrabbiati che la notte prima che morisse io abbia dichiarato che suo marito Michael, il suo avvocato, Felos, e il giudice Greer erano assassini. Ho anche sottolineato, quella sera e la mattina dopo, che contrariamente alla descrizione di Felos, la morte di Terri non è stata affatto dolce e bella. E' stata orribile. In tutti i miei sedici anni di sacerdozio non avevo mai visto nulla di simile.

Fonte: Fonte non disponibile, 31 agosto 2008

6 - LA STRATEGIA DEL CASO PIETOSO
Il bimbo spagnolo selezionato per curare il fratello
Autore: Lucetta Scaraffia - Fonte: Fonte non disponibile, 16 ottobre 2008

In Spagna - in questi anni all'avanguardia di tutte le decisioni più discusse di tipo bioetico - è nato Javier, quasi tre chili e mezzo alla nascita, il primo bambino selezionato per poter curare il fratello, colpito da una rara malattia ereditaria, la beta talassemia maior. Secondo i medici, il sangue del suo cordone ombelicale servirà a realizzare un trapianto di midollo osseo al fratello, in modo che il bimbo cominci a produrre globuli rossi sani. "Le possibilità di guarigione del piccolo dopo il trapianto sono molto alte", dicono gli stessi medici.
Javier è stato selezionato, quindi, nella speranza di poter dare a suo fratello Andrés la possibilità di continuare a vivere, ha annunciato il Servizio sanitario spagnolo in una nota. Commettendo un errore, o almeno un'esagerazione:  la malattia da cui è affetto Andrés non è infatti mortale, ma lo costringe a una vita molto difficile, perché dovrebbe cambiare il sangue con una trasfusione ogni quindici o trenta giorni. Ma, dicendo che si tratta della vita, il caso assume un aspetto più drammatico e diventa sempre più difficile criticare la selezione eugenetica che ha garantito la nascita di un fratellino sano, cioè non affetto dalla stessa malattia genetica di Andrés.
Javier infatti è frutto di una diagnosi genetica pre-impianto:  una tecnica che consente di verificare se un embrione è sano o meno dal punto di vista genetico, prima che sia trasferito nell'utero materno. Per questo tipo di diagnosi - che in Italia è vietata - l'embrione ottenuto con la fecondazione in vitro viene esaminato geneticamente per verificare che non sia portatore di alcuna malattia. Il metodo ha consentito di concepire un bebè sano, ma anche un donatore idoneo perché il fratello venga curato mediante un trapianto di midollo, che ha un identico profilo di compatibilità. L'intero processo, che è il primo in Spagna, è avvenuto tutto all'interno della struttura pubblica, dalla diagnosi pre-impianto fino al trapianto.
Il termine esatto per definire la selezione che ha portato alla nascita di Javier è eugenetica, come sempre quando si seleziona chi deve nascere secondo caratteristiche predeterminate. Dal momento però che la selezione non è stata fatta per il bambino che doveva nascere né per rispondere a un particolare desiderio dei genitori, ma piuttosto per curare un fratello già nato, molti la considerano eticamente accettabile. Come se fosse un'opera buona, un atto di altruismo per salvare una vita.
Non è chiaro tuttavia chi sia l'autore di questo atto di bontà:  non certo il bambino che nasce, che non ha chiesto di nascere né tanto meno di essere selezionato, e neppure gli embrioni che sono stati scartati perché non servivano a curare il fratello. Nessuno di loro al momento della scelta  era  dotato  di  autonomia  morale.
Ovviamente, non sono autori della buona azione neppure i genitori, che hanno sacrificato altri possibili figli per guarirne uno già esistente:  non si può considerare un atto di bontà una scelta che di fatto si fa pagare ad altri. Né tanto meno i medici, i quali non fanno che applicare una tecnica conosciuta per rispondere alla richiesta dei genitori e ai bisogni di un bambino già nato.
Non si tratta quindi di un'azione altruista, ma, né più né meno, di un atto eugenetico, e dunque, in quanto tale, condannabile. E di un tipo di scelta eugenetica particolarmente grave, perché in questo modo un bambino viene considerato un mezzo - Javier è stato fatto nascere per guarire il fratello - e non un fine, come deve invece essere considerato ogni essere umano.
Operare scelte eugenetiche cominciando da casi come questo, in cui un bambino viene messo al mondo per aiutare il fratello a vivere, potrebbe nascondere l'intenzione di far accettare le pratiche di selezione degli embrioni anche per scopi meno nobili della salute di un figlio, fino ad arrivare alla scelta di sesso, qualità fisiche e intellettuali. Questo nuovo episodio fa dunque parte della strategia del caso pietoso, messa in atto sistematicamente per far passare pratiche di tipo eugenetico, come quando si intervistano genitori affetti da anemia mediterranea, sottolineando il loro calvario di malati che desiderano un figlio sano.
Sono tutti tentativi di allontanare dalla pratica eugenetica le nere ombre che ha lasciato su di essa il nazismo; in sostanza si tratta di operazioni che vorrebbero capovolgere il significato di un atto in sé egoistico - indipendentemente da chi lo compie, lo Stato o un privato - e che per di più implica l'esclusione dalla vita di altri esseri umani. È un modo di fare confusione sulle reali intenzioni di tali scelte e per far passare presso l'opinione pubblica l'idea che la selezione eugenetica è una pratica buona e accettabile, spingendo alla commozione per la guarigione di esseri umani inconsapevoli e innocenti.

Fonte: Fonte non disponibile, 16 ottobre 2008

7 - CRESCONO DELL’1,4 PER CENTO I CATTOLICI NEL MONDO

Fonte Fonte non disponibile

I cattolici nel mondo sono 16 milioni in più rispetto all’anno precedente, complessivamente un miliardo e 131 milioni, quasi un quinto della popolazione mondiale. La metà dei fedeli vive nel continente americano, mentre in Europa la presenza cattolica si attesta al 25%, in Asia al 10.
 Cresce, inoltre, di poco più di 350 unità il numero dei vescovi. Tale tendenza è più accentuata in America e in Asia, mentre si presenta un po’ al di sotto della media generale in Africa, Europa e Oceania.
 Passano poi da poco più di 405 mila a oltre 407 mila i sacerdoti, con una variazione complessiva dello 0,51%. La loro presenza nel mondo è andata progressivamente salendo a partire dal 2000, con un ridimensionamento in Europa e in America a vantaggio di Africa e Asia.
 In aumento dello 0,9% anche i seminaristi, complessivamente oltre 115 mila, la maggioranza dei quali vive nelle Americhe, seguiti dall’Africa e dall’Asia. Solo quarta l’Europa.
 In aumento anche le religiose, soprattutto in Africa e in Asia, sono circa il doppio dei sacerdoti, e 14 volte il numero dei religiosi non ordinati.

Fonte: Fonte non disponibile

8 - PROGETTO DI LEGGE BIPARTISAN
Potrebbe rischiare il carcere chi critica gli omosessuali
Autore: Fabio Bernabei - Fonte: Fonte non disponibile, 31 ottobre 2008

La Commissione Giustizia della Camera ha posto in discussione una proposta di legge, prima firmataria la deputata del Pd Anna Concia, per punire con la reclusione da sei mesi a quattro anni, l'autore di un discorso, uno scritto o un atteggiamento a cui venga attribuito un valore "discriminatorio" verso la pratica omosessuale e altri, non meglio precisati, "orientamenti sessuali".
Il Presidente della Commissione, l'on. avv. Giulia Bongiorno, ha inoltre affidato l'incarico di relatore della proposta di legge alla stessa on. Concia. 'Il gesto della collega Bongiorno - ha rilevato la parlamentare del Partito democratico - esprime una fiducia politica che mettero' al lavoro''.
Nessun componente della commissione giustizia ha sollevato critiche alla via preferenziale data a questo progetto di legge, nè all'attribuzione di relatore ad un membro dell'opposizione e nemmeno al suo confuso contenuto, con la sola eccezione dei deputati Nicola Molteni e Luca Rodolfo Paolini (Lega Nord).
Se approvata, questa legge di un solo articolo aprirebbe di fatto le porte del carcere per chiunque, laico o religioso, osasse ricordare pubblicamente i principi solenni della morale cattolica o le immutabili condanne della Sacra Scrittura, dell'Apostolo Paolo o di S. Tommaso.
Questa proposta di legge avrebbe come principale conseguenza quella di censurare la libertà di espressione, e quindi di critica, dei cattolici.
Gli atti di violenza o l'incitamento alla stessa, verso chiunque, sono infatti già opportunamente sanzionati dal nostro Codice.

Fonte: Fonte non disponibile, 31 ottobre 2008

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