BastaBugie n�185 del 25 marzo 2011

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1 IN LIBIA LA RETORICA DI OBAMA FA RIDERE I POLLI QUANDO DICE: ''L'OCCIDENTE NON PUO' RESTARE INDIFFERENTE QUANDO UN TIRANNO SPARA SUI CITTADINI''
Il giorno dell'attacco alla Libia, il tiranno che regna sullo Yemen ha fatto settantuno morti sparando sui dimostranti: ecco tre spiegazioni per cui, invece, Gheddafi è Gheddafi
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana
2 LA COMPLESSA SITUAZIONE IN LIBIA: RIDURLA A UNO SCONTRO TRA DEMOCRAZIA E DITTATURA, O FRA BUONI E CATTIVI, E' RIDICOLO
A chiunque si entusiasmi per le avventure militari in Libia occorre chiedere se sa veramente quale governo alternativo a Gheddafi sta andando ad aiutare a imporsi
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana
3 L'ENERGIA NUCLEARE, ANCHE DOPO FUKUSHIMA, E' LA PIU' SICURA: ECCO INVECE COME GIORNALI E TELEVISIONI CI INONDANO IL CERVELLO CON UN'ISTERIA IRRAGIONEVOLE (ATTRAVERSO LA SELEZIONE DELLE NOTIZIE)
La prova? In Giappone il cedimento di una diga ha cancellato un paese intero con migliaia di vittime, eppure nessuno ha chiesto uno stop alla costruzione di centrali idroelettriche (eppure ci furono oltre 2.000 vittime nel Vajont contro 56 a Chernobyl)
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: La Bussola Quotidiana
4 LA RECENTE CATASTROFE IN GIAPPONE RIPROPONE ALCUNE IMPORTANTI QUESTIONI
L'uomo di oggi è disperato perché pensa che l'unica possibilità di gioia sia su questa terra
Autore: Corrado Gnerre - Fonte: Corrispondenza Romana
5 LA CORTE EUROPEA ROVESCIA LA SENTENZA DI PRIMO GRADO E DA' RAGIONE ALL'ITALIA: IL CROCIFISSO NELLE SCUOLE NON SI TOCCA!
Si trasforma in un clamoroso autogol il ricorso promosso da una italo-finlandese e dall'Uaar (Unione Atei Agnostici Razionalisti)
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana
6 LE PERICOLOSE, CONTROPRODUCENTI, ILLOGICHE AFFERMAZIONI DI CARLO CASINI, PRESIDENTE DEL MOVIMENTO PER LA VITA, IN MERITO ALLA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO IN DISCUSSIONE ALLA CAMERA
Sono invece ineccepibili le argomentazioni di Gnocchi, Palmaro e dell'on. Mantovano contro questo progetto di legge (e la sovversiva idea che ci sia un ''vuoto normativo'' e non invece leggi da rispettare)
Autore: Lector quidam - Fonte: Il Foglio
7 CON LE QUOTE ROSA AI POSTI DI COMANDO DI SOCIETA' MOLTO IMPORTANTI PER L'ECONOMIA ITALIANA NON CI SARANNO GLI INDIVIDUI MIGLIORI E PIU' PREPARATI (DISCRIMINATI A CAUSA DEL SESSO MASCHILE)
In realtà l'introduzione sempre più massiccia delle donne nel mondo del lavoro fa parte di una strategia ben più ampia tesa a minare sempre di più la famiglia
Fonte: Corrispondenza Romana
8 MESSAGGIO DEL PAPA PER I 150 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA: LA NAZIONE ITALIANA C'ERA GIA' NEL MEDIOEVO
La Chiesa Cattolica ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione nei secoli dell'identità italiana
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana
9 CHI SMETTE DI CREDERE IN DIO, INIZIA A CREDERE A TUTTO: AD ESEMPIO MAZZINI CREDEVA DI ESSERE LA REINCARNAZIONE DI UN EXTRATERRESTRE E GARIBALDI...
L'eroe dei due mondi (che definiva Pio IX ''un metro cubo di letame'', che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione) si fece iniziare alla magia ''egiziana'' e scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante
Fonte: I tre sentieri
10 PER I 200 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA FINALMENTE SI CHIEDERA' SCUSA AL BEATO PIO IX?
Chi conosce i fatti del Risorgimento sopporta a fatica la retorica ancora ripiegata sui padri della patria ''maestri incorrotti'' che viene insegnata nelle scuole, sui giornali e in televisione
Autore: Marco Invernizzi - Fonte: La Bussola Quotidiana
11 OMELIA PER LA III DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO A - (Gv 4,5-42)
Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno
Fonte: Il settimanale di Padre Pio

1 - IN LIBIA LA RETORICA DI OBAMA FA RIDERE I POLLI QUANDO DICE: ''L'OCCIDENTE NON PUO' RESTARE INDIFFERENTE QUANDO UN TIRANNO SPARA SUI CITTADINI''
Il giorno dell'attacco alla Libia, il tiranno che regna sullo Yemen ha fatto settantuno morti sparando sui dimostranti: ecco tre spiegazioni per cui, invece, Gheddafi è Gheddafi
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana, 21-03-2011

Il colonnello Muhammar Gheddafi è un vecchio terrorista. Dalla strage di Lockerbie del 1988 - l'esplosione di un aereo passeggeri sopra una cittadina scozzese, con 270 morti - a un'intera stagione di attacchi alla Francia, alcuni sventati all'ultimo minuto, non si contano gli attentati dietro a cui si è sospettata, e talora anche documentata, la presenza della mano di Gheddafi.
Il colonnello, però, non è solo un vecchio terrorista. È un terrorista vecchio. Si devono infatti distinguere nel mondo arabo un vecchio terrorismo che mescolava islam, anticolonialismo e marxismo e il nuovo terrorismo il cui tipo è al-Qa'ida, la cui logica obbedisce a un progetto preciso che fa riferimento esclusivamente all'ultrafondamentalismo islamico e al sogno di un nuovo califfato.
Del vecchio terrorismo Gheddafi è stato il punto di riferimento. Del nuovo - che alla fine aspira a rovesciare i regimi come il suo, considerati non abbastanza islamici e di oggettivo ostacolo al califfato - non si è mai fidato, e dopo l'11 settembre 2001 - certo anche per ragioni di convenienza - si è presentato come il suo nemico per eccellenza nel Nordafrica.
Le guerre in Afghanistan e in Iraq, qualunque cosa si pensi della loro gestione, avevano e hanno lo scopo di colpire basi o alleati del nuovo terrorismo. Le uniche prove davvero emerse contro Saddam Hussein riguardano precisamente i suoi rapporti con segmenti di al-Qa'ida. La guerra in Libia colpisce in Gheddafi un residuo del vecchio terrorismo diventato nemico di al-Qa'ida. Perché dunque lo si attacca oggi, quando non mancherebbero basi del nuovo terrorismo da colpire, dall'Iran alle regioni del Libano controllate dagli Hezbollah?
La spiegazione del presidente Obama - "L'Occidente non può restare indifferente quando un tiranno spara sui cittadini del suo Paese" - ovviamente ha un mero valore retorico. Nello stesso giorno dell'attacco alla Libia il tiranno che regna sullo Yemen, il presidente Ali Abdullah Saleh, ha fatto settantuno morti sparando sui dimostranti. Purtroppo, di tiranni che opprimono e massacrano i loro cittadini è pieno il mondo. Rispetto a quanto qualche libro coraggioso comincia a svelarci della Corea del Nord, la Libia sembra un villaggio vacanze.
Perché, dunque, Gheddafi? Per rispondere a questa domanda ci vogliono come al solito pazienza, studio e un po' di memoria storica. Propongo tre risposte, senza escludere che ve ne siano altre.
PRIMA RISPOSTA: alcuni Paesi pensano che sia arrivata l'occasione di saldare con Gheddafi conti sanguinosi che risalgono all'epoca del vecchio terrorismo. Occorre ricordare che il vecchio terrorismo colpì soprattutto la Francia e la Gran Bretagna, e attaccò dove poteva gli interessi degli Stati Uniti. Gli studi di Magdi Allam e di altri hanno messo bene in luce come i governi guidati da Giulio Andreotti e Bettino Craxi (1934-2000) non interruppero mai le linee di collegamento con Gheddafi, come con altri sponsor del vecchio terrorismo, tra cui Yasser Arafat (1929-2004). Fecero molte concessioni, forse troppe: ma ne ottennero in cambio una scelta che escluse l'Italia dagli obiettivi principali e strategici di quel terrorismo.
Non sempre i conti con i vecchi nemici sono saldati. Ma, quando se ne presenta l'occasione, è difficile resistere alla tentazione. Questa è una prima spiegazione del perché Francia e Gran Bretagna hanno preso l'iniziativa di attaccare Gheddafi, e gli Stati Uniti l'hanno - ma in seconda battuta rispetto ai primi due Paesi - appoggiata. A molti generali e dirigenti dei servizi segreti francesi e britannici non è mai andato giù che il colonnello, ispiratore di vecchi e sanguinosi attentati nei loro Paesi, sia sempre rimasto impunito. Agli Stati Uniti neppure, anche se oggi hanno altre priorità e per questo le loro gerarchie militari non erano entusiaste dell'attacco.
SECONDA SPIEGAZIONE: Francia e Gran Bretagna sono da anni potenze minori nel grande gioco della politica internazionale, dominato da Stati Uniti, Cina e Russia. L'opinione pubblica dei loro Paesi, che soffre di questa situazione a fronte di glorie passate, accusa pure la classe dirigente di avere sostenuto nelle ex-colonie personaggi impresentabili. Il presidente francese Sarkozy, in particolare, è in grande imbarazzo per avere appoggiato fino all'ultimo il dittatore ora deposto della Tunisia, che il suo partito ha sempre chiamato "notre ami Ben Ali". in Francia si va verso le elezioni presidenziali, e negli ultimi sondaggi Sarkozy era superato non solo da vari ipotetici concorrenti socialisti ma anche dalla candidata di destra Marine Le Pen. Negli Stati Uniti, da quando è scoppiata la crisi del mondo islamico, il presidente Obama è stato deriso non solo dai Repubblicani ma persino dagli umoristi per la sua indecisione e irrilevanza.
La Libia, un Paese che non è una ex-colonia né per i francesi né per gli inglesi, e dove gli americani non hanno alcun interesse che potrebbe essere messo a rischio, sembra offrire un'occasione ideale per rivendicare una perduta "grandeur" o fornire certificati di esistenza in vita a politiche estere latitanti come quelle di Obama. I rischi dell'operazione sul piano militare sembrano, almeno a prima vista, modesti. Si tratta dunque di ottenere benefici sul piano dell'immagine e del prestigio con costi relativamente limitati.
LA TERZA SPIEGAZIONE rimane a livello d'ipotesi. A tutt'oggi, nessuno specialista internazionale di cose nordafricane è stato in grado di tracciare una mappa credibile del mondo degli oppositori di Gheddafi e delle stesse forze che animano la lotta di Bengasi contro il colonnello. Si conoscono però alcuni nomi di capi di origine tribale che sembrano in posizione di forza nel cosiddetto governo provvisorio di Bengasi, il Consiglio Nazionale Libico. Si sa per esempio che il suo segretario è  Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, che fino al 21 febbraio era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica, per il trattamento riservato agli oppositori nelle carceri libiche di cui si era personalmente occupato. Un altro uomo forte della rivolta è il generale Abdul Fatah Younis, già Ministro dell'Interno e secondo alcuni numero due del regime di Gheddafi, e in precedenza capo della famigerata polizia politica del regime. Sono circolate voci confuse di sue trattative per rientrare nei ranghi dei lealisti fedeli a Gheddafi, ma dopo la risoluzione dell'ONU ha confermato la disponibilità a guidare le truppe dei rivoltosi.
Personaggi come questi non sono i "sinceri democratici" dei discorsi di Obama. Sono alcuni tra i peggiori arnesi del regime di Gheddafi, che aspirano a cacciare il colonnello per mettersi al suo posto. Non sono neppure fondamentalisti islamici, senza escludere affatto che una componente fondamentalista a Bengasi ci sia davvero. Ancora una volta, nessuno conosce davvero i movimenti degli ultimi mesi all'interno della nomenklatura del regime libico. Si sa però che alcuni avrebbero voluto un riavvicinamento alla Francia e ai Paesi filo-francesi dell'area in campo economico e politico, criticando la politica di Gheddafi che trattava quasi esclusivamente con l'Italia. Considerato il notevole attivismo dei servizi segreti francesi in Nordafrica, non è forse irragionevole ipotizzare che ministri come Al Jeleil e Younis avessero avuto qualche contatto con loro. La Francia è l'unico Paese che ha riconosciuto il loro governo provvisorio, ed è stato il motore dell'operazione che ha portato all'attacco a Gheddafi.
Com'è evidente, nessuno di questi tre motivi coinvolge in modo particolare l'Italia. L'opinione pubblica italiana non pensa di avere conti da saldare con la Libia, non rimprovera nella sua maggioranza al governo uno scarso attivismo in politica estera né sogna un'improbabile "grandeur" militare o neo-coloniale. Nei rapporti economici e politici con la Libia aveva un filo diretto con Gheddafi senza bisogno di rivolgersi a ministri ribelli. Questo filo diretto con un personaggio sgradevole ha portato talora ad atteggiamenti discutibili, ma ha anche garantito vantaggi sul piano economico e su quello fondamentale del controllo dell'immigrazione. Da questo punto di vista, personalmente ritengo che le perplessità della Lega e quelle esposte in una bella intervista al "Corriere della Sera" del 20 marzo dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano siano ampiamente giustificate.
Questo tipo di situazioni, tuttavia, evolve rapidamente. Messa agli atti la perplessità, si devono però segnalare anche tre aspetti ulteriori.
IL PRIMO è che un vecchio terrorista ferito può facilmente trasformarsi per rabbia o per vendetta in un nuovo terrorista, così che oggi - ma, appunto, la situazione cambia ogni giorno - la permanenza di Gheddafi al potere appare pericolosa anche per noi.
IL SECONDO è che l'asse della politica estera dell'Italia repubblicana è comunque da sempre l'alleanza con gli Stati Uniti. Per quanto oggi la guida incerta e debole di Obama ci metta tutti in pericolo, una volta che della coalizione hanno preso la guida gli Stati Uniti a questa alleanza l'Italia non poteva immaginare di sottrarsi.
IL TERZO aspetto da sottolineare è che - per quanto altri probabilmente mentano quando affermano d'intervenire per ragioni umanitarie e a sostegno delle popolazioni civili - l'Italia, da Nasiriyya all'Afghanistan, ha dimostrato che operare per la difesa di chi le guerre non le vuole ma le subisce - anche pagando un tributo di sangue - fa parte del suo DNA, e delle ragioni che spingono molto italiani a stringersi intorno alle Forze Armate in un patriottismo, questo sì, genuino e condiviso.
L'Italia utilizzi dunque la sua partecipazione più o meno obbligata e convinta alla coalizione per operare subito per una soluzione pacifica e negoziata, dove le armi tacciano quanto prima possibile e gli interessi della popolazione civile siano sempre e davvero al primo posto. È quanto ha chiesto il Papa all'Angelus di domenica 20 marzo. Prego, ha detto Benedetto XVI, "per coloro che sono coinvolti nella drammatica situazione di quel Paese [la Libia] e rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l'incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l'accesso ai soccorsi umanitari. Alla popolazione desidero assicurare la mia commossa vicinanza, mentre chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull'intera regione nord africana".

Fonte: La Bussola Quotidiana, 21-03-2011

2 - LA COMPLESSA SITUAZIONE IN LIBIA: RIDURLA A UNO SCONTRO TRA DEMOCRAZIA E DITTATURA, O FRA BUONI E CATTIVI, E' RIDICOLO
A chiunque si entusiasmi per le avventure militari in Libia occorre chiedere se sa veramente quale governo alternativo a Gheddafi sta andando ad aiutare a imporsi
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana, 22-03-2011

Chi sono i "ribelli" che l'Occidente è andato a sostenere in Libia? Il rischio è che non lo sappia nessuno. La versione corrente è che il Consiglio Nazionale Libico, che ha sede nella città orientale Bengasi, controllata dai ribelli – e che la Francia ha riconosciuto come governo provvisorio, seguita per ora solo dal Portogallo – rappresenti l'opposizione "democratica" al regime dittatoriale del colonnello Muhammar Gheddafi. Ma le cose sono molto più complicate.
Per farsi un'idea occorre dare uno sguardo alla composizione etnica della Libia. Il nome Libia viene da Libu, una tribù berbera di antichissima origine nota ai Greci, che qualche volta usavano "Libya" come sinonimo di quella che noi oggi chiamiamo Africa. Con l'invasione araba del Nordafrica nel secolo VII il termine fu quasi dimenticato. Fu risuscitato agli inizi del XX secolo dal geografo italiano – di famiglia cattolica ma d'idee garibaldine – Federico Minutilli (1846-1906), i cui lavori influirono sulla decisione del primo ministro italiano Giovanni Giolitti (1842-1928) di chiamare nel 1911 "Libia" le due province ottomane, Tripolitania e Cirenaica, che l'Italia aveva conquistato in una delle sue poche imprese coloniali. Nel 1927 il fascismo divise la colonia in due secondo la vecchia partizione ottomana – Tripolitania e Cirenaica – ma nel 1934 si tornò a una sola Libia, divisa in tre province la terza delle quali era il Fezzan, il deserto del Sud abitato dai tuareg. Dalla Libia colonia italiana si passò poi nel 1951 alla Libia indipendente.
Com'è spesso avvenuto nella storia del colonialismo, la Libia è dunque stata inventata a tavolino, in questo caso da Giolitti e dai suoi geografi, mettendo insieme due province ottomane di cultura diversa e che non erano mai state unite, e una vasta zona desertica meridionale dai confini piuttosto incerti e porosi – il che spiega perché sia sempre stata facilmente "infiltrata" da popolazioni africane provenienti da Sud, che oggi cercano di raggiungere le coste per emigrare illegalmente in Europa. Gli abitanti originari della Libia – prima dell'invasione araba – sono i berberi, che oggi rappresentano circa il 17% della popolazione e sono quasi tutti musulmani. I tuareg del deserto, sia pure con caratteristiche proprie, sono affini per caratteristiche etniche e linguistiche ai berberi, e sono in gran parte nomadi.
Gli arabi – che si sono talora mescolati con berberi arabizzati – costituiscono la maggioranza della popolazione, ma sono divisi in centoquaranta tribù, distinte in tre gruppi: tripolitane, cirenaiche e centrali. In Tripolitania la più grande tribù – un milione di persone – è quella Warfallah, che risulta dalla grande immigrazione araba promossa nell'XI secolo dai califfi Fatimidi – i quali volevano assicurare agli arabi la maggioranza demografica rispetto ai berberi –, ed è oggi divisa in cinquantadue sottotribù. Le tribù della Cirenaica risultano anch'esse in parte dal flusso migratorio dell'XI secolo. Benché gli etnologi non siano d'accordo fra loro né sulla sostanza né sulla terminologia, si parla di una confederazione Harabi che tiene insieme, non senza difficoltà, le tribù cirenaiche in una sorta di alleanza precaria. Un ruolo centrale in questa confederazione ha la tribù Obeidat, divisa in quindici sottotribù.
La Libia Centrale è un'area prevalentemente desertica che sta tra la Tripolitania e la Cirenaica e a rigore non appartiene a nessuna delle due regioni. Le sue tribù hanno spesso giocato un ruolo di ago della bilancia nei conflitti tribali regionali, ottenendo posizioni di potere sproporzionate ai loro numeri. I due gruppi principali sono la Magariha e la Qaddhafa. Da quest'ultima viene il cognome Qaddhafi o Gheddafi, il quale più che l'appartenenza a una famiglia indica dunque quella a una tribù.
Per una serie di ragioni, l'adesione all'islam almeno negli ultimi due secoli si è dimostrata più fervente in Cirenaica. Qui ha messo radici il movimento Senussi, insieme confraternita e movimento di risveglio islamico, fondato nel 1835 alla Mecca dall'algerino Sayyid Muhammad ibn Ali as-Senussi (1787–1860). I Senussi della Cirenaica furono l'anima della resistenza al colonialismo italiano e il quarto capo della confraternita, Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi (1889-1983) divenne, con l'appoggio inglese, prima Emiro della Cirenaica nel 1949, quindi re Idris I della Libia nel 1951. Fu deposto da Gheddafi nel 1969. È probabile che alcuni studiosi abbiano esagerato i legami dei Senussi con il tradizionalismo saudita e con il fondamentalismo islamico del XX secolo, ma questi legami esistono e si sono fatti più forti negli ultimi anni. Avversato da Gheddafi, il movimento Senussi continua a riunire un terzo dei libici e la maggioranza degli abitanti della Cirenaica, delle cui tribù Harabi costituisce l'autentico collante.
Il colpo di Stato di Gheddafi nel 1969 ha costituito una rivolta contro il potere in mano alle tribù della Cirenaica e ai Senussi, che esprimevano la classe dirigente della monarchia, delle tribù della Tripolitania, guidate dalla Warfallah, e della Libia centrale, cioè la Magariha e la Qaddhafa. Queste ultime, com'era avvenuto anche in passato, sono riuscite a far pesare il loro ruolo decisivo – con chi si schierano le tribù centrali è determinante per l'esito del conflitto fra Est e Ovest – e a diventare egemoniche.
Gheddafi, della tribù centrale Qaddhafa, divenne il padrone della Libia. Un esponente dell'altra principale tribù centrale, la Magariha, gradito però anche alla tribù occidentale Warfallah, Abdessalam Jalloud, diventò il numero due del regime e il primo ministro. Le tribù libiche, peraltro, non si fidano mai veramente le une delle altre, e Gheddafi si assicurò che solo i Qaddhafa controllassero l'aviazione. Questo gli permise più tardi, nel 1993, di reprimere il tentativo di colpo di Stato organizzato dalla Warfallah e dalla Magariha, che erano diventate insofferenti dell'egemonia sproporzionata di una tribù relativamente piccola come i Qaddhafa. Dopo l'episodio del 1993 Jalloud fu arrestato, e in seguito confinato per molti anni agli arresti domiciliari.
Negli anni 2000 la Magariha ha chiesto a Gheddafi d'intervenire per ottenere il rilascio di Abdelbaset Mohmed Ali al-Megrahi, un importante leader della tribù condannato all'ergastolo in Gran Bretagna per l'attentato terroristico di Lockerbie del 1988, l'esplosione a bordo di un aereo in volo tra Londra e New York che fece 270 morti. Nel 2009 Gheddafi ha ottenuto il rilascio di al-Megrahi – il cui "cognome" indica ancora una volta la tribù, la Magariha –, il che ha portato a una sorta di riconciliazione anche con Jalloud, che nel 2010 è ricomparso al fianco del colonnello.
In seguito al tentativo di colpo di Stato contro di lui del 1993, Gheddafi ha cercato contatti con  i vecchi nemici della Cirenaica per bilanciare il potere delle tribù occidentali. Ha così via via incluso nel governo esponenti della confederazione Harabi, tra cui il ministro della Giustizia Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil – secondo alcune fonti, membro della confraternita Senussi – e il ministro dell'Interno generale Abdul Fatah Younis, che appartiene all'importante tribù orientale Obeidat. I due si sono distinti nella feroce repressione degli oppositori del regime, ma la loro lealtà a Gheddafi – formalmente ribadita fino al febbraio 2011 – è sempre stata messa in dubbio, tanto profondo e antico è l'odio delle tribù orientali legate ai Senussi contro il colonnello e contro l'egemonia delle tribù occidentali e centrali.
Non sappiamo tutto del Consiglio Nazionale Libico di Bengasi che ha preso la guida della rivolta contro Gheddafi. Ma sappiamo che è principalmente espressione delle tribù orientali della Cirenaica, quelle legate al movimento Senussi e alla monarchia che ne era espressione, e più vicine anche al fondamentalismo islamico. Al Jeleil è il segretario del Consiglio Nazionale e Younis è il comandante militare. Per presentarsi come "nazionale" e non semplicemente espressione della Cirenaica il Consiglio di Bengasi ha reclutato qualche esponente della Warfallah – e tra i dimostranti contro Gheddafi si sono visti anche giovani della Magariha –, ma rimane dominato dalle tribù orientali della confederazione Harabi.
Poco si sa dell'orientamento delle minoranze berbere e tuareg, anche se negli ultimi giorni circolano voci del distacco di queste ultime – che si muovono da nomadi nel Sud della Libia, senza rispettare i confini nazionali, e hanno antichi legami con i servizi francesi – da Gheddafi, cui in passato si erano mostrate in maggioranza leali. Benché il colonnello abbia sangue berbero, i berberi non lo hanno mai amato perché ha sempre cercato di reprimere l'eredità e la cultura berbera a profitto di quella araba. Non tutti i membri delle tribù orientali Harabi – e a rigore neppure tutti i Senussi – sono fondamentalisti. Ma, per la loro storia, si tratta delle realtà più vicine al fondamentalismo islamico, così che chi teme derive in questo senso della rivolta contro Gheddafi non ha torto. L'intrico tribale libico è comunque molto complesso. Ridurlo a uno scontro tra democrazia e dittatura, o fra buoni e cattivi, è ridicolo. A chiunque si entusiasmi per avventure militari in Libia occorre chiedere se sa veramente quale governo alternativo a Gheddafi sta andando ad aiutare a imporsi.

Fonte: La Bussola Quotidiana, 22-03-2011

3 - L'ENERGIA NUCLEARE, ANCHE DOPO FUKUSHIMA, E' LA PIU' SICURA: ECCO INVECE COME GIORNALI E TELEVISIONI CI INONDANO IL CERVELLO CON UN'ISTERIA IRRAGIONEVOLE (ATTRAVERSO LA SELEZIONE DELLE NOTIZIE)
La prova? In Giappone il cedimento di una diga ha cancellato un paese intero con migliaia di vittime, eppure nessuno ha chiesto uno stop alla costruzione di centrali idroelettriche (eppure ci furono oltre 2.000 vittime nel Vajont contro 56 a Chernobyl)
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: La Bussola Quotidiana, 16-03-2011

"Incubo nucleare", "Catastrofe nucleare", "Terrore radioattivo": i titoli di giornali e tg in questi giorni non vanno tanto per il sottile. E visto il disastro provocato dal terremoto e, soprattutto, dal successivo tsunami con diecimila tra morti e dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di energia elettrica e cibo che comincia a scarseggiare, la cosa appare decisamente irrispettosa e cinica, visto che quanto al nucleare per ora si parla di rischi e potenziali pericoli. Tanto più che si ha la netta impressione che i problemi alla centrale di Fukushima Daiichi siano enormemente amplificati non per l'interesse ai giapponesi che ne sarebbero vittime, ma per motivi ideologici legati alle scelte energetiche di casa nostra.
Non a caso si è subito messa in moto la macchina propagandistica del "mai più il nucleare", tanto più che in Italia ci attende un referendum sul tema tra pochi mesi. Ed è molto alto il rischio che si ripeta il drammatico errore del 1987 quando, pochi mesi dopo la tragedia di Chernobyl, un referendum combattuto sull'onda dell'emotività, condannò l'Italia a privarsi dell'energia nucleare.
La sensazione è rafforzata dalla constatazione del modo in cui si è fatta in questi giorno una selezione delle notizie. Nello stesso distretto di Fukushima, infatti, il terremoto ha provocato l'11 marzo il cedimento di una diga e l'ondata d'acqua che ne è seguita ha cancellato un paese intero, portandosi via centinaia di abitazioni e provocando un numero imprecisato di vittime. Su questo episodio, solo pochi lanci di agenzia e nessuno che abbia chiesto uno stop alla costruzione di centrali idroelettriche. Del resto anche in Italia, abbiamo vissuto nel 1963 la tragedia del Vajont, con oltre 2mila vittime e nessuno si è mai sognato di chiudere tutte le centrali idroelettriche.
Si dirà che l'energia nucleare è potenzialmente più pericolosa di altre fonti di energia. Ma appunto, lo è "potenzialmente". La realtà, anche dopo Chernobyl, invece ci dice che è la più sicura e basta confrontare le vittime legate all'uso delle diverse fonti energetiche - è un lavoro che svolge il Paul Scherrer Institute – per rendersene conto. Una precisazione va poi ripetuta sul caso Chernobyl, per chi non ricordasse cosa successe allora: l'esplosione del reattore nucleare fu soprattutto una tragedia del comunismo, perché a capo della centrale non c'era un ingegnere esperto ma un burocrate del partito che, ignorando i consigli dei tecnici, prese decisioni che provocarono quell'incidente. Non solo, la maggior parte delle vittime fu dovuta alla mancanza di informazioni da parte del regime (il presidente era allora Gorbaciov) che non mise in atto nessun sistema di sicurezza e per giorni nascose anche la notizia ai paesi confinanti.
Detto questo, non si vuole certo fare finta che a Fukushima non sia successo nulla, anzi non si possono escludere al momento anche conseguenze gravi. Ma in ogni caso resta che i fatti vanno guardati considerando tutti i fattori e senza isterismi ideologici. Su alcune questioni riguardante l'incidente in sé abbiamo già scritto.
Qualche parola bisogna però spendere sulle decisioni che dovranno essere prese in materia di politica energetica dal nostro paese. Se l'energia nucleare presenta dei rischi, non è che le altre strade ne siano esenti, anzi.
Oggi dipendiamo soprattutto dai combustibili fossili, petrolio e gas anzitutto, e da questa dipendenza stiamo giustamente cercando di svincolarci, almeno parzialmente visto che comunque per gli anni a venire tali combustibili continueranno a fare la parte del leone in tutti i paesi sviluppati. Il petrolio sappiamo che è inquinante, ma non solo: sappiamo anche che tutti i combustibili fossili, prima o dopo, sono destinati ad esaurirsi e quindi, andando in quella direzione, anche i costi tenderanno ad aumentare. Inoltre, la dipendenza da petrolio e gas significa dipendenza da paesi la cui affidabilità è molto a rischio. Per chi l'avesse dimenticato il nostro maggior fornitore di petrolio e gas è la Libia, e non sappiamo cosa potrà succedere nei prossimi mesi. Ritrovarsi a subire i ricatti di un Gheddafi che riconquista il paese, non è uno scenario allettante.
Al di fuori di queste fonti ci sono il nucleare e le fonti rinnovabili. Queste ultime non hanno certamente la potenzialità di soddisfare il fabbisogno nazionale, e oltretutto sono già molto costose come ha dimostrato l'ultima relazione dell'Authority sull'energia. Mentre è importante continuare il lavoro di ricerca anche su queste fonti per migliorarne la resa, rimane il nucleare come alternativa per diminuire la dipendenza dai combustibili fossili. Con tutte le cautele del caso, certamente. Ma bloccare lo sviluppo di questa fonte significa condannarsi a scenari ben peggiori che non il rischio potenziale di un incidente nucleare.

Fonte: La Bussola Quotidiana, 16-03-2011

4 - LA RECENTE CATASTROFE IN GIAPPONE RIPROPONE ALCUNE IMPORTANTI QUESTIONI
L'uomo di oggi è disperato perché pensa che l'unica possibilità di gioia sia su questa terra
Autore: Corrado Gnerre - Fonte: Corrispondenza Romana, 19/3/2011

La recente catastrofe in Giappone ripropone alcune importanti questioni. Prima di tutto quella relativa ad alcune reazioni che vengono in conseguenza di simili eventi. Non tanto per il terremoto giapponese (le cui proporzioni non permettono alcuna spiegazione umana), ma quando succede qualcosa di tragico si cerca sempre di trovare una spiegazione e d'individuarne gli eventuali colpevoli.
Dietro questo atteggiamento per cui ogni cosa che succede deve necessariamente avere una spiegazione ed un colpevole, vi è un malessere esistenziale che attanaglia l'uomo contemporaneo. Paradossalmente dietro la ricerca spasmodica di una spiegazione per ogni cosa che accade, c'è il rifiuto di cercare e d'incontrare la Spiegazione con la "S" maiuscola.
L'uomo di oggi vive come se Dio non esistesse (ateismo pratico) e quindi è portato ad osservare e a ritenere la vita in cui agisce come un palcoscenico in cui egli è tanto attore quanto autore della trama. Forse l'uomo contemporaneo sa bene che non tutto ciò che avverrà potrà essere evitato, ma cerca di convincersi che quello che è già avvenuto poteva certamente essere evitato. È un "rifugio" di ordine psicologico, ma anche di ordine filosofico. Si tratta di un rifiuto dell'imponderabilità intesa come imprevedibilità. Può esserci qualcosa che sfugga alla capacità umana di ordinare e programmare?
Questa eventualità è rifiutata dall'uomo contemporaneo che ama leggere la realtà con una prospettiva utopica, nella convinzione che nella forza dell'uomo e del suo pensiero il mondo possa essere totalmente trasformato, eliminando da esso ogni imperfezione e ogni incidente. La conseguenza di questo errore è però una duplice contraddizione.
La prima di carattere culturale: da una parte, l'uomo può risolvere tutto; dall'altra, lo stesso uomo può errare, se è vero che poi si va alla ricerca ossessiva del colpevole. E ancora: la tecnica può redimere l'uomo, ma la stessa tecnica può fallire, se è vero che si ricerca sempre il cosiddetto "errore tecnico".
La seconda contraddizione è di carattere antropologico: nella prospettiva utopica di onnipotenza umana non c'è spazio per un dio che giudica, che esige e che condanna gli errori umani; eppure il perfezionismo utopico non tollera gli erranti, condannandoli a mo' di capri espiatori da sacrificare a beneficio dell'ideologia della nessuna-imprevedibilità-sulla-faccia-della-terra.
Ma – dicevamo – le catastrofi naturali richiamano anche un'altra questione. Una questione che tocca i cristiani. Dinanzi a simili eventi molti credenti restano interdetti e non sanno dare risposte a se stessi e a maggior ragione agli altri. Elenchiamo tre possibili risposte. La prima è errata. La seconda è insufficiente. La terza è corretta. Iniziamo dalla prima.
1. LA SOFFERENZA È SEMPRE FRUTTO DEGLI ERRORI UMANI. Una simile affermazione è sbagliata. Se è vero che la sofferenza è entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale, è pur vero che non si può assolutizzare questa convinzione per le singole sofferenze. Così come non si può escludere Dio dalle origini delle singole sofferenze. Bisogna infatti tener presente che se è vero che tutto ciò che accade non necessariamente è voluto da Dio, è pur vero che tutto ciò che accade è necessariamente permesso da Dio. All'indomani dello tsunami del 2005, in televisione, un anziano cardinale, alla domanda se quella immane tragedia fosse potuta essere un castigo divino, rispose categoricamente di "no", ma che tutto doveva essere spiegato con i movimenti tipici della Terra. Ora, oltre al fatto che Dio può anche castigare, va detto che Dio stesso non era certo "distratto" nel momento in cui accadeva quell'immane tragedia.
2. DINANZI ALLA SOFFERENZA È POSSIBILE SOLO IL SILENZIO. Spesso si afferma che dinanzi alla sofferenza non bisogna parlare, non bisogna spiegare, ma solo fare silenzio: piangere con chi piange. Certamente la sofferenza si configura come un mistero. Ma attenzione: si configura come un mistero in merito alle singole risposte, non certo alla Risposta. Più semplicemente: quando accade una tragedia, sfugge certamente il singolo significato, ma non il Significato con la "S" maiuscola, ovvero il fatto che comunque quella sofferenza trova un senso in Dio e nella sua permissione.
3. CONTEMPLARE E RISPONDERE: la dimensione dell'eterno. La posizione giusta è invece un'altra. È prima di tutto quella di contemplare il Crocifisso: capire quanto, nel Cristianesimo, Dio non si limita a consolare sulla sofferenza, ma Egli stesso ne fa vera esperienza. Dio poteva scegliere un'altra strada, ma ha scelto la sofferenza. E l'ha scelta non solo per le sue creature, ma anche per Sé. Egli stesso si è messo a capo e ha preso la Croce: «Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso (via purgativa), prenda la sua croce (via illuminativa) e mi segua (via unitiva)» (Matteo 16, 24). Attenzione però: questo contemplare deve essere accompagnato anche da una spiegazione.
L'intelligenza esige argomenti, e fin dove è possibile non si può trascurare questa esigenza. Non basta dire: dinanzi alla sofferenza si può solo far silenzio. Qui entra in gioco la cosiddetta Teologia della Croce e – diciamolo francamente – viene chiamato in causa anche il fallimento dell'annuncio cristiano che si è imposto negli ultimi tempi. Bisogna infatti recuperare la prospettiva dell'eternità come prospettiva dominante, ovvero il fatto che il cristiano deve convincersi che questa vita è solo un passaggio ed una "preparazione" per ciò che sarà davvero la vera vita, quella del Paradiso che consisterà nel "possesso" di Dio. Insomma, guardare le cose sub specie aeternitatis, cioè nella prospettiva dell'eternità. Dio permette la sofferenza degli innocenti perché sa che quella sofferenza non solo è un'occasione per la salvezza propria e degli altri, ma è anche un "nulla" rispetto all'immensa gioia del Paradiso. Ciò che invece si è fatto strada negli ultimi tempi è una "paganizzazione" dell'annuncio cristiano, laddove le reali preoccupazioni sembrano essere quelle terrene e sociali... quasi a convincersi che, tutto sommato, l'unica nostra possibilità di gioia è su questa terra.
Ma va tenuto presente che un annuncio cristiano che dimentichi la tensione verso l'eternità, per evitare di dare un'immagine di Dio troppo severa, finisce poi, paradossalmente, con l'ammettere davvero una possibile "cattiveria" di Dio. Se infatti il messaggio che implicitamente si trasmette è quello per cui la vera felicità è su questa terra, verrebbe allora da chiedersi: perché Dio permette che muoia un bambino e che rimanga in vita un delinquente? Leggiamo questo passo del Vangelo: «(...) quei diciotto, sopra i quali rovinò la Torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Luca 13, 4-5). Gesù dice chiaramente che chi è vittima di una disgrazia non necessariamente è più peccatore degli altri; ma è come se aggiungesse: «voi, adesso vi preoccupate di stabilire se coloro che sono morti nel crollo della Torre di Siloe fossero o meno peccatori, ma non pensate al fatto che esiste una morte molto peggiore di questa, che è – appunto – la morte eterna».

Fonte: Corrispondenza Romana, 19/3/2011

5 - LA CORTE EUROPEA ROVESCIA LA SENTENZA DI PRIMO GRADO E DA' RAGIONE ALL'ITALIA: IL CROCIFISSO NELLE SCUOLE NON SI TOCCA!
Si trasforma in un clamoroso autogol il ricorso promosso da una italo-finlandese e dall'Uaar (Unione Atei Agnostici Razionalisti)
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana, 18-03-2011

La notizia che arriva da Strasburgo, dove la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha deciso in sede di ricorso e con sentenza definitiva che l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane non viola la libertà religiosa dei non cristiani e degli atei, fa del 18 marzo 2011 una bella giornata per la libertà religiosa.
È la prima volta che una sentenza di primo grado resa all'unanimità (sette giudici a zero) è rovesciata dalla Grande Camera della Corte Europea in sede di ricorso, il che mostra come la Corte abbia compreso il rischio insito nella precedente decisione del 3 novembre 2009, che rovesciava la precedente giurisprudenza dello stesso tribunale europeo con argomenti ideologici e fumosi. Si deve essere grati all'attuale governo italiano – pubblicamente ringraziato dal Papa in diverse occasioni, tra cui quella dell'importante discorso del 10 gennaio 2011 al Corpo diplomatico – per avere perseguito con ostinazione il ricorso, e ai governi di Armenia, Bulgaria, Cipro, Russia, Grecia, Lituania, Malta, Monaco, Romania e Repubblica di San Marino per avere voluto aggiungere i loro nomi a quello dell'Italia nella procedura di ricorso.
Per converso, brillano naturalmente per la loro assenza tutti gli altri Stati europei: non stupisce la Spagna di Zapatero, un po' di più la Germania e la Francia, pure su altre questioni più sensibili ai diritti dei cristiani. La storia giudiziaria della causa include anche il fatto che alla decisione di primo grado abbia partecipato il giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky – noto campione del laicismo più ideologico – il cui mandato alla Corte Europea è terminato, felicemente per i sostenitori del crocefisso, nel gennaio 2010.
Lo studio delle motivazioni della sentenza, già disponibili in lingua inglese ovvero in lingua francese, è molto istruttivo. È vero che la sentenza della Grande Camera è stata raggiunta ad ampia maggioranza - quindici giudici contro due - ma all'interno della maggioranza si sono manifestate opinioni diverse. Vale la pena di leggere anche le motivazioni di chi ha votato contro: il giudice svizzero Giorgio Malinverni e quella bulgara Zdravka Kalaydjieva. Il loro testo, redatto da Malinverni, ribadisce l'argomento laicista secondo cui il crocefisso nelle scuole ha un effetto «incomparabile» sugli studenti e impone con una sorta di violenza la religione a giovani «spiriti che mancano ancora di capacità critica» grazie alla «forza coercitiva dello Stato». Questo laicismo estremo, per fortuna, è rimasto del tutto minoritario nella Grande Camera.
La maggioranza dei giudici ha assunto un atteggiamento di buon senso, ma che per altri versi si potrebbe definire minimalista. Dopo avere ricordato che nell'Europa allargata della Corte di Giustizia - che, va ricordato, non è collegata all'Unione Europea ed è emanazione di tutti i Paesi situati geograficamente in Europa e non solo di quelli UE - solo tre Stati vietano la presenza del crocefisso nelle scuole pubbliche - la Macedonia, la Georgia e la Francia (con l'eccezione dell'Alsazia e della Mosella, cui dopo la Prima guerra mondiale è rimasto uno statuto speciale) -, la Grande Camera non ha coltivato l'argomento «culturale» né, forse giustamente, ha seguito chi affermava che il crocefisso andava mantenuto nelle scuole perché è un simbolo culturale e nazionale piuttosto che religioso.
La Grande Camera ha ritenuto il crocefisso un simbolo anzitutto religioso - pure ammettendo che in Italia possa avere assunto anche significati secondari di carattere culturale - ma lo ha definito un «simbolo passivo». Non essendo accompagnato nelle aule scolastiche italiane da un indottrinamento religioso obbligatorio - la Corte ha più volte ritenuto in passato che un insegnamento della religione non obbligatorio non viola la libertà delle minoranze - né da preghiere ugualmente obbligatorie in classe, il crocefisso non ha quegli effetti proselitistici rispetto ai non cattolici denunciati dalla ricorrente nella causa originaria, la signora Soile Lautsi, e dai due giudici della Grande Camera dissenzienti.
La sentenza nota anche che il crocefisso è esposto in un contesto come quello italiano dove la libertà religiosa delle minoranze è garantita, e dove - l'esempio è esplicitamente sottolineato - nessuno vieta alle alunne musulmane di presentarsi a scuola con il velo (che copre solo il capo ed è, naturalmente, cosa diversa dal burqa). Nella sostanza si tratta secondo la Grande Camera di materia su cui spetta ai singoli Stati regolarsi come credono.
Probabilmente solo su un'argomentazione come questa - giuridicamente ineccepibile, ma culturalmente debole - si poteva ottenere l'ampia maggioranza che ha portato alla storica vittoria. Tre giudici hanno però voluto aggiungere alla sentenza le loro opinioni personali, favorevoli al dispositivo ma integrative nelle motivazioni. La giudice irlandese Ann Power e quello greco Christos Rozakis hanno introdotto l'elemento culturale del significato identitario del crocefisso nella storia dell'Italia e dell'Europa, sia pure con molta cautela.
Esemplare è la motivazione del giudice maltese Giovanni Bonello, il quale definisce l'avversione al crocefisso «una forma di Alzheimer storico», attacca l'«intolleranza degli agnostici e dei laicisti» e scrive senza infingimenti che «una Corte europea non può mandare alla rovina secoli di tradizione europea». Bonello ha anche sottolineato come la stessa Corte che aveva vietato il crocefisso aveva non solo consentita, ma dichiarata obbligatoria contro un divieto che il governo turco aveva cercato d'imporre, la diffusione presso i giovani e nelle scuole del romanzo Le undicimila vergini di Guillaume Apollinaire (1880-1918), opera certo di un letterato noto ma che inneggia «al sadismo e alla pedofilia». «Sarebbe stato molto strano, secondo me – conclude Bonello – che la Corte avesse difeso e protetto questo ammasso abbastanza mediocre di oscenità nauseanti, che a lungo ha circolato clandestinamente, fondandosi su una sua vaga appartenenza al 'patrimonio europeo' e nello stesso tempo avesse negato il valore di patrimonio europeo a un emblema che milioni di Europei hanno riconosciuto lungo tanti secoli come un simbolo senza tempo di redenzione attraverso l'amore universale».

Fonte: La Bussola Quotidiana, 18-03-2011

6 - LE PERICOLOSE, CONTROPRODUCENTI, ILLOGICHE AFFERMAZIONI DI CARLO CASINI, PRESIDENTE DEL MOVIMENTO PER LA VITA, IN MERITO ALLA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO IN DISCUSSIONE ALLA CAMERA
Sono invece ineccepibili le argomentazioni di Gnocchi, Palmaro e dell'on. Mantovano contro questo progetto di legge (e la sovversiva idea che ci sia un ''vuoto normativo'' e non invece leggi da rispettare)
Autore: Lector quidam - Fonte: Il Foglio, 16-03-2011

Leggo con un senso di profondo stupore la replica del presidente del Movimento per la Vita alle ineccepibili argomentazioni di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, cui vanno aggiunte le preoccupanti ed altrettanto stringenti informazioni e considerazioni dell'on. Mantovano, sulla proposta di legge in materia di fine vita e i relativi emendamenti.
Quella replica fa sorgere in me alcune pressanti domande.
La prima è la seguente: non si rende conto l'on. Casini di quanto pericolosa, controproducente, illogica, e per di più sovversiva dell'ordinamento costituzionale vigente, sia la sua affermazione secondo cui "i giuristi sanno che l'ordinamento effettivo non è quello che sembra (e sottolineo questo "sembra") a qualcuno di loro, ma quello che risulta dall'interpretazione giurisprudenziale"?
A me, viceversa, i professori che ho avuto all'università avevano sempre insegnato - così come peraltro ho sempre ritenuto - che l'operatore del diritto - e tale è prima di ogni altro il giudice - deve rapportarsi con un contesto normativo oggettivo che lo precede e lo trascende.
Determinare tale contesto, e dunque stabilire "l'ordinamento (giuridico) effettivo", è compito del potere politico-legislativo, e cioè del Parlamento, e non di quello giudiziario.
Il dovere e la funzione del giudice, invece, consistono nell'individuare e nell'applicare con la maggior possibile precisione - in base a criteri che sarebbe qui fuor di luogo illustrare, ma sempre di natura logico-conoscitiva, mai volitiva, e dunque arbitraria - la disciplina prevista dall'ordinamento giuridico ai singoli casi concreti.
Con quest'opera euristica, e cioè di ricerca della soluzione esatta, e quindi giusta, sia pur solo nel ristretto senso di conforme al diritto vigente, una magistratura che non debordi dalle sue funzioni contribuisce anche a garantire quel bene inestimabile che è la certezza del diritto.
Questo, e precisamente questo, vuol dire la Costituzione quando all'articolo 101 stabilisce che "i giudici sono soggetti alla legge". Ed è soltanto nel presupposto di questa soggezione che la stessa Carta fondamentale all'articolo 101 garantisce all'ordine giudiziario l'autonomia e l'indipendenza da ogni altro potere e agli articoli 104 e 105 istituisce, con compiti ben precisi e ristretti, il Consiglio superiore della magistratura.
Preso invece come l'intende il presidente del Movimento per la Vita, il vocabolo "interpretazione" perde il suo sin qui pacifico significato per assumere quello, addirittura contrario, di arbitraria (e insisto su questo aggettivo) espressione di volontà da parte di un sedicente interprete, che in realtà esorbita dalle sue competenze ed invade il campo del legislatore, usurpandone le funzioni.
Mi domando ancora: posta questa sua concezione di quello che egli chiama "l'ordinamento giuridico effettivo", implicitamente ma chiaramente riconoscendone la legittimità, come può l'on. Casini non rendersi conto degli esiti del proprio pensiero?
Se e quando verrà varata la nuova legge, ed i giudici, molto probabilmente, la "interpreteranno" giungendo ai medesimi mortiferi risultanti cui abbiamo assistito nel caso di Eluana - con uno strappo normativo che per i motivi nitidamente illustrati da Gnocchi, Palmaro e Mantovano, sarebbe meno grave e vistoso - egli, per un minimo di coerenza logica, dovrà rispettosamente chinare il capo e riconoscere che quella sentenza e con essa le altre che verosimilmente la accompagneranno e la seguiranno - magari previo qualche ricorso alla Corte costituzionale, agevolato da innegabili fessure che caratterizzano il progetto in questione - costituiranno appunto "l'ordinamento (giuridico) effettivo".
Il rischio è tanto maggiore ove si consideri che le citate fessure, se passeranno le modifiche segnalate dall'on. Mantovano nella sua lettera apparsa su "Il Foglio" del 25 febbraio 2011, si trasformeranno in enormi, irreparabili squarci.
La verità è che non si può non condividere l'affermazione di Gnocchi e Palmaro secondo cui gli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione o aiuto al suicidio) e 593 (omissione di soccorso) del codice penale costituiscono un inequivocabile complesso normativo, catafratto a tutela della intangibilità e sacralità della vita umana, quale presupposto di ogni altro diritto. Un complesso che non può essere scavalcato se non sulla base di una ferma e determinata volontà disapplicativa.
Altrochè l'asserito vuoto normativo, strumentalmente invocato dalla Cassazione nella sentenza sul caso Englaro per arrogarsi una competenza che esplicitamente essa stessa riconosce rientrare nell'ambito delle attribuzioni del legislatore, per giunta nella più delicata delle materie: quella della vita!
Ne è prova il fatto che nella citata sentenza, la numero 21748 del 2007, il diritto penale italiano non è neppur menzionato, quasi appartenesse ad un altro pianeta, o quasi che tra esso e il diritto civile vi fosse una assoluta incomunicabilità.
In compenso vi sono menzionate, fra l'altro, una sentenza dell'House of Lords, una della Corte Suprema del New Jersey e una relativa allo stato del Missouri, tutte citazioni molto trendy in clima di diffusa anglofonia, ma che ad un povero giurista di provincia non sembrano sufficienti a giustificare la totale dimenticanza del codice penale italiano, e proprio in articoli fondamentali.
Dalle due domande sin qui rivolte all'on. Casini ne scaturisce una terza, peraltro in esse già implicita: non si rende egli conto che la sua identificazione fra "interpretazione giurisprudenziale" e "ordinamento (giuridico) effettivo" sovverte il nostro sistema costituzionale, fondato sulla divisione dei poteri (dove per giunta la magistratura non è un potere vero e proprio ma un "ordine") e, al limite, svuota completamente le prerogative del Parlamento, cancellando di riflesso la sovranità popolare per sostituirvi l'arbitrio, e dunque la tirannia, dei giudici?
Al punto in cui siamo giunti non si può più sottacere la cruda verità: ci troviamo di fronte ad una magistratura che deborda sistematicamente dalle proprie competenze, giungendo a teorizzare ripetutamente, al suo massimo livello, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che "la figura dell'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzione riservata al legislatore è di rilievo meramente teorico" perché "secondo le più recenti e accreditate teorie" l' "attività interpretativa", e cioè quella del giudice "non ha una funzione meramente euristica" (vale a dire, come si diceva, di ricerca del significato del precetto), "ma si sostanzia in opera creativa della volontà di legge nel caso concreto" (ex plurimis, Cass. Sez. Un. 14.7.2005 nr. 14811).
Per dirla alla buona: poiché il giudice ha l'ultima parola su tutti i casi concreti, se "in base alle più recenti e accreditate teorie" fatte proprie dalla Cassazione, il suo ruolo interpretativo è da intendersi come "creativo", se ne desume che la "volontà di legge" è sempre la sua.
Se ne desume, magari un po' brutalmente, che i parlamentari possono andare tranquillamente a scaldarsi al sole dei tropici. In questo ordine di idee sempre le Sezioni Unite (sentenza n. 27335 del 2008), sia pure in un contesto penosamente contraddittorio, hanno enunciato lo stesso concetto, valorizzando "recenti teorie post illuministiche". Dove per teorie post illuministiche si allude con tutta evidenza a teorie che escludono la dottrina della separazione dei poteri formulata da Montesquieu.
Peccato però che, a prescindere da ogni giudizio di valore, lo schema costituzionale di Montesquieu sia quello su cui è costruita la nostra Carta costituzionale, che senza di esso verrebbe praticamente abrogata, dato che il Parlamento, titolare del potere legislativo, è il luogo e il mezzo attraverso cui, in linea primaria, si esprime la sovranità popolare.
L'on. Casini, con la sua concezione del diritto, legittima ed avvalora, per il passato e per il futuro, le infrazioni dell'ordine costituzionale di cui la magistratura si è resa responsabile in questi ultimi anni, e di cui, date le citate premesse dottrinali, con ogni probabilità si renderà responsabile anche in avvenire.
E ciò con l'aggravamento che forse la più flagrante di tali violazioni dovrebbe averlo particolarmente colpito quale presidente del Movimento per la Vita.
Alludo all'assalto permanente cui viene sottoposta la famosa "legge 40" sulla procreazione medicalmente assistita. Un assalto più volte accoratamente denunciato dal quotidiano cattolico "Avvenire" che, ad esempio, nel supplemento "E' vita" del 10 febbraio 2011, parla di una vera e propria "catena di smontaggio" e si domanda "quale strategia alberga dietro questi interventi demolitori di una legge che ... si vuole rendere radicalmente iniqua".
La particolare gravità istituzionale di questi assalti consiste nel fatto che la detta legge non solo fu approvata dopo annosa discussione e con sofferta decisione del Parlamento, ma venne anche implicitamente, eppur inequivocabilmente, confermata dal popolo con clamorosissimo "flop" del relativo referendum abrogativo.
Lo sfregio alla sovranità popolare legittimato in nome della vittoria di un concorso appare qui più che altrove in chiarissima luce.
Del resto, tornando al caso Englaro, val la pena di ricordare che, commentando l'esito della procedura che portò alla morte una giovane donna, l'on. Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato e proveniente dalle file della magistratura, a quanto riferì il Corriere della Sera del 10 luglio 2008, così testualmente si espresse: "Non possono essere i giudici a prendere decisioni così importanti. Serve una legge sul testamento biologico". E in realtà il protagonismo della magistratura svuota e condanna all'irrilevanza, insieme con l'opera del Parlamento, anche le battaglie dell'opposizione, ridotta a un ruolo di supporto e subalterno rispetto a un vero e proprio partito dei giudici.
Il commento dell'on. Finocchiaro comporta in via logica un'ulteriore deduzione: posto che la morte per abbandono di Eluana è innegabilmente in inscindibile nesso causale con la sentenza della Corte di Cassazione e col decreto della Corte di Appello di Milano che decisero il suo caso, se, come sostiene quella senatrice, tali pronunce furono emanate in difetto di una legge che le autorizzasse, e dunque contra legem, che si dovrà dire dei giudici che la emanarono?
Altroché l'immunità parlamentare, tanto esecrata specialmente dai giudici.
In realtà non si riesce a capire per quale misterioso principio giuridico qualunque decisione di P.M. o di giudice, anche se presa in evidente e sfacciata mala fede - poniamo una condanna all'ergastolo - sol perché riveste la forma di provvedimento giudiziario vada sostanzialmente sempre e comunque esente da pena.
La verità è che la proposta di legge sul fine vita rischia di giustificare i mortiferi provvedimenti che la hanno motivata, lasciando, almeno in qualche misura, intendere che il difetto era nella legge e non nei giudici che l'hanno violata.
Il problema principale infatti non è nella legislazione, ma nella magistratura.
Una nuova magistratura animata da nefasto protagonismo, che, a partire dai tempi di "Mani pulite", con lenta erosione e fornendosi reciproci sostegni, paradossalmente appellandosi - anche con indecorose sceneggiate - alla Costituzione, ne ha gradualmente stravolto l'ordinamento snaturandone viepiù le istituzioni, fin quasi a sovvertirle.
Una magistratura siffatta va ricondotta con estrema urgenza nei suoi argini, con misure ben più appropriate e decise di quelle messe in cantiere - tra i suoi incostituzionali schiamazzi - dall'attuale governo.
Va peraltro detto che già la possibilità accordata al medico dall'art. 3 del progetto base di sospendere l'idratazione e l'alimentazione, apre al medesimo la via di una valutazione discrezionale, difficilissima da contestare.
E chi poi effettuerebbe contestazioni se fossero gli stessi congiunti ad insistere per l'abbandono terapeutico?
Senza contare, a tacer d'altro, che il testamento biologico introdotto sotto nuova sigla schiude vastissimi spazi di intervento ad una Corte Costituzionale di cui sono ben note le propensioni.
Il tutto con il risultato di ridurre la legge ad una mera cortina fumogena.
Per quanto concerne specificamente il fine vita, a mio avviso, in attesa delle auspicate riforme, l'unica soluzione è metterci una temporanea pezza con un articolo unico che, in caso di incoscienza o incapacità del paziente, vieti sempre e comunque con congrua pena, salvo altra maggiore nel caso che il fatto costituisca più grave reato, la sospensione di alimentazione ed idratazione, anche artificiali.
 
Nota di BastaBugie: quando abbiamo pubblicato questo articolo, l'avevamo erroneamente attribuito a un altro autore. Ce ne scusiamo con lui e con i lettori.

Fonte: Il Foglio, 16-03-2011

7 - CON LE QUOTE ROSA AI POSTI DI COMANDO DI SOCIETA' MOLTO IMPORTANTI PER L'ECONOMIA ITALIANA NON CI SARANNO GLI INDIVIDUI MIGLIORI E PIU' PREPARATI (DISCRIMINATI A CAUSA DEL SESSO MASCHILE)
In realtà l'introduzione sempre più massiccia delle donne nel mondo del lavoro fa parte di una strategia ben più ampia tesa a minare sempre di più la famiglia
Fonte Corrispondenza Romana, 19/3/2011

Il governo italiano ha varato il provvedimento in base al quale i consigli d'amministrazione e gli organi di controllo delle società quotate in Borsa dovranno essere composti almeno dal 20% di donne a partire dal 2012, fino ad arrivare ad un terzo dal 2015 in poi. La notizia ha suscitato le scontate reazioni positive da parte di tutto il mondo politico tanto che il ministro Prestigiacomo ha definito quello del 9 marzo «un voto di civiltà» ("Avvenire", 10 marzo 2011).
Eppure, l'introduzione di un meccanismo evidentemente illiberale e non meritocratico dovrebbe suscitare molte perplessità, soprattutto in coloro i quali sbandierano ad ogni piè sospinto la necessità di assicurare pari diritti a tutti. Tale norma, infatti, è senza alcun dubbio discriminatoria in quanto stabilisce per legge un tetto massimo di persone di sesso maschile che possono essere eletti nei consigli d'amministrazione e negli organi di controllo delle società quotate in borsa, a prescindere dai loro meriti e dalle loro capacità.
Viceversa, le persone di sesso femminile non solo non hanno tale limitazione ma hanno addirittura assicurati dei posti, di nuovo a prescindere dalle loro capacità e dai loro meriti. Il risultato ovvio delle quote rosa sarà che ai posti di comando di società molto importanti per l'economia del Paese non ci saranno gli individui migliori e più preparati. Non è un caso che in diversi Paesi soprattutto del nord Europa, dove il processo di secolarizzazione della società è in stato molto avanzato, tali norme strutturalmente anti democratiche sono già state introdotte da tempo (la Norvegia, la Francia e la Spagna di Zapatero).
In realtà l'introduzione sempre più massiccia delle donne nel mondo del lavoro fa parte di una strategia ben più ampia tesa a minare sempre di più la famiglia tradizionale con a capo il padre di famiglia. L'obiettivo finale è esautorare completamente l'uomo dalla sua funzione principale che è quella di provvedere al sostentamento del nucleo familiare e parimenti allontanare sempre più la donna dal suo compito più importante, ossia educare cristianamente la prole e badare alle cose della famiglia. Quello che maggiormente stupisce non è la reazione positiva alle quote rosa da parte del mondo politico e laico ma da gran parte del mondo cattolico, ormai talmente colluso colla mentalità del mondo da preferire le idee malsane ma accattivanti al Vangelo.

Fonte: Corrispondenza Romana, 19/3/2011

8 - MESSAGGIO DEL PAPA PER I 150 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA: LA NAZIONE ITALIANA C'ERA GIA' NEL MEDIOEVO
La Chiesa Cattolica ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione nei secoli dell'identità italiana
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: La Bussola Quotidiana, 16-03-2011

Il 16 marzo Benedetto XVI ha inviato un Messaggio al Presidente della Repubblica Italiana, On. Giorgio Napolitano, in occasione dei 150 anni dell'Unità politica d'Italia. Questo denso messaggio ripercorre tutta la storia d'Italia e - nel clima di conciliazione che dovrebbe caratterizzare la ricorrenza - cerca di valorizzare tutti gli apporti cattolici alla formazione dell'identità nazionale, compresi quelli dei cattolici liberali che a loro tempo si trovarono in difficoltà con la Chiesa, di alcuni dei quali non si può però mettere in dubbio la sincerità della fede.
Il Papa ha anzitutto ricordato che le radici dell'unità d'Italia, sul piano culturale e religioso, risalgono a ben prima del 1861. L'unità politica "costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell'età medievale".
Né è pensabile, ha detto il Papa parlare di unità culturale dell'Italia prescindendo dal cristianesimo. In effetti, "il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell'identità italiana attraverso l'opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l'architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell'identità italiana".
Non è neppure corretto affermare, continua il Papa, che l'unità religiosa dell'Italia fosse un puro elemento culturale senza valenza politica. Al contrario, "le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell'Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l'esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano".
Continuando nella sua analisi storica, il Papa ha criticato quanti pensano che dopo il Medioevo in un'Italia asservita allo straniero il processo mediante il quale la religione ha dato unità agli italiani si sia interrotto. Non è così. "L'apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell'identità nazionale continua nell'età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé".
Alla fine, se l'unità politica ha potuto realizzarsi è proprio perché esisteva già una "identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale".
E tuttavia occorre dire anche che su questa storia molto antica "il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale.". Ma in questo "passaggio" neppure "si può sottacere l'apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario". Il Papa ha citato cattolici liberali come Vincenzo Gioberti e Massimo d'Azeglio ma ha sottolineato soprattutto che dal punto di vista "filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana". Ne mancano letterati cattolici come Alessandro Manzoni, definito "fedele interprete della fede e della morale cattolica", o "Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell'amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l'appartenenza all'istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: 'cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa'".
E tuttavia il processo unitario "in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall'appartenenza ecclesiale dall'altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di 'Questione Romana' suscitando di conseguenza l'aspettativa di una formale 'Conciliazione', nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L'identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto". Si tratta di un punto fondamentale del Messaggio. Se ci fu conflitto fra la Chiesa e le istituzioni italiane, mai ci fu un conflitto fra la Chiesa e il popolo italiano.
La Chiesa, poi, non smise mai di operare per il bene comune attraverso la sua attività sociale. "Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all'unità del Paese. L'astensione dalla vita politica, seguente il 'non expedit' rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa".
Ma che dire della questione romana? Il Papa non offre giudizi sommari. "La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d'Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l'Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D'altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell'ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della 'Questione Romana' attraverso imposizioni dall'esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l'11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: 'Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell'irradiazione sul mondo, come prima non mai'".
Risolta istituzionalmente la questione romana, il successivo "apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c'è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all'interno dell'Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema 'Costituzione e Costituente'. Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell'attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l'Italia in proiezione europea".
Un cenno il Papa ha riservato anche agli "anni di piombo". "Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell'On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet?".
Ma anche negli anni più difficili, la Chiesa ha proseguito la sua missione."Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella 'grande preghiera per l'Italia' indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994".Benedetto XVI ha anche ribadito il suo giudizio positivo sulla revisione del Concordato del 1984' che "ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia", "chiaramente avvertito" dal venerabile Giovanni Paolo II.
Lontana da ogni clericalismo, oggi "la Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II".  "Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all'auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata".

Fonte: La Bussola Quotidiana, 16-03-2011

9 - CHI SMETTE DI CREDERE IN DIO, INIZIA A CREDERE A TUTTO: AD ESEMPIO MAZZINI CREDEVA DI ESSERE LA REINCARNAZIONE DI UN EXTRATERRESTRE E GARIBALDI...
L'eroe dei due mondi (che definiva Pio IX ''un metro cubo di letame'', che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione) si fece iniziare alla magia ''egiziana'' e scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante
Fonte I tre sentieri, marzo 2011

Il Risorgimento subì molto il fascino della magia. Non a caso.
Ogni qual volta si vuole propagandare il razionalismo, l'esito è sempre lo stesso: il dilagare dell'irrazionalismo.
E' tempo di celebrazioni per ricordare l'unificazione dell'Italia. Finanche nella kermesse sanremiana un noto comico ha dedicato il suo show a questo argomento, scadendo in una sorta di descrizione oleografica su modello sussidiario di scuola elementare anni '30.
Ovviamente siamo d'accordo sul fatto che l'Italia debba essere unita, piuttosto molto andrebbe detto su come si è realizzato questo processo. Potremmo dire: unificazione sì, Risorgimento no. E ciò perché alla base del Risorgimento vi fu una ben precisa filosofia che lo rese la traduzione italiana di quell'evento che è all'apice della modernità: la Rivoluzione francese. Il Risorgimento mirava ad una sorta di decattolicizzazione dell'Italia... e in parte è riuscito in questo intento. Ma, per approfondire questi argomenti, rimandiamo ad ottimi testi che trattano bene questa questione. In particolar modo consigliamo i lavori di storici come Massimo Viglione e Angela Pellicciari.
Vogliamo invece dedicare questa circolare ad una caratteristica del Risorgimento italiano che solitamente è poco conosciuta, ovvero l'influenza di tematiche esoteriche ed occultistiche in coloro che sono stati definiti "padri della patria".
La conoscenza di questa caratteristica è importante da un punto di vista religioso perché ci fornisce un'altra conferma di ciò di cui siamo ampiamente convinti; ovvero che quando ci si allontana dalla vera e ragionevole religiosità si finisce non con l'essere scettici, agnostici o perfino atei... ma irrazionalisti e affascinati dalla magia. Proprio come ebbe a dire il grande Chesterthon: Quando l'uomo cessa di credere in Dio, inizia a credere in tutto.
Ciò ha una spiegazione antropologica e filosofica.
La spiegazione antropologica verte sul fatto che l'uomo ha sempre bisogno di una risposta al mistero della sua vita; per cui, quando si rifiuta di trovare questa risposta all'interno della ragionevole dimensione religiosa, finisce col trovarla all'interno dell'irragionevole dimensione magica.
La spiegazione filosofica verte invece sul fatto che il razionalismo, essendo il tentativo di includere il reale in un'illusoria capacità onnicomprensiva della ragione umana, poggia su una pretesa di rendere l'uomo artefice del reale stesso: esiste solo ciò che la ragione umana può conoscere completamente. Da qui la "simpatia" del razionalismo per la magia, essendo quest'ultima la pretesa di porre l'uomo al di sopra del sacro e del divino e quindi di renderlo fondamento immanente di tutto.
Ma veniamo ai fatti.
Il Risorgimento, per porsi come inizio di una nuova società e di una nuova era, aveva bisogno di una mitologia su cui fondarsi. Bisogno questo non nuovo nel corso della storia. Era già toccato alla Rivoluzione francese. Ancor prima alla Guerra dei Trent'anni, laddove il mito dei Rosa-Croce fu ideato a tavolino per dare alla Lega protestante un fondamento para-religioso. Ebbene, nel Risorgimento la fa da padrone il concetto mitico di segretezza. Segretezza che accomuna tanto la Massoneria, quanto la Carboneria e la stessa Giovine Italia. Tentativo di eludere il controllo poliziesco? Non solo. Le associazioni segrete avevano un proprio rituale, puntigliosamente elaborato e rispettato, che andava ben al di là di esigenze puramente di azione. Il filosofo tedesco Georg Simmel affermava, quasi in contemporanea al Risorgimento italiano, che il segreto era una delle più grandi conquiste dell'umanità. Ed un altro tedesco, Reinhart Koselleck, celebre storico dei concetti, ha sottolineato quanto l'idea di segreto sia servita alla realizzazione della modernità come categoria storica e filosofica. Segreto viene dal latino "secernere", che vuol dire "separare", "distinguere". Da qui l'agire segretamente per una trasformazione radicale, per la realizzazione di qualcosa che sia totalmente nuova, che sia separata e distinta da ciò che la precede. L'agire nel segreto come agire mitico per la costruzione di qualcosa che sia altrettanto mitica.
Ma questo tipo d'irrazionalismo può interessare fino ad un certo punto. Nel Risorgimento vi fu anche un irrazionalismo di carattere individuale.
Quanto spiritismo in Casa Savoia! E quanto spiritismo nella Torino sabauda! Massimo D'Azeglio perderà del suo tempo dietro ai "tavoli ballerini". Cavour stesso si farà protettore di molti spiritisti, fra cui Vincenzo Scarpa, suo celebre collaboratore. Quest'ultimo diventerà direttore di un periodico molto diffuso nella Torino del tempo, dal significativo titolo: "Gli annali dello spiritismo". Incarico prestigioso che non costituì ostacolo, anzi!...per una futura pluridecorazione da parte dello stesso Vittorio Emanuele II.
Per non parlare di Giuseppe Garibaldi. Il Nizzardo, che definiva Pio IX "un metro cubo di letame", che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione, si fece iniziare alla magia "egiziana", diventò "Grande gerofante" massonico e – dulcis in fundo - praticò la medianità nell' isola di Caprera. Nel suo scritto, Sull'arida terra di Caprera, scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante, e che si stava sforzando di fare lo stesso per le anime delle farfalle...
C'è da perdere la stima un po' di tutti. Giuseppe Mazzini credeva fermamente di essere la reincarnazione di un extraterrestre. Anche lui riteneva che il Cattolicesimo fosse una stupida superstizione per ignoranti; e tutto questo non per un atteggiamento ateistico o scettico, ma per credere nella reincarnazione. Ma che reincarnazione! Egli diceva che non si potessero ricordare le vite precedenti perché ancora non si era giunti a vivere sul pianeta più in alto. Sarà solo allora che, potendo guardare in basso, così come si può fare da un ultimo piano di un palazzo, si potranno ricordare le vite precedenti. Scrisse testualmente: "Il viaggio dall'una all'altra esistenza si fa come intorno ad un'enorme piramide di modo che, pervenuti ad una certa altezza cominciamo a discernere il cammino percorso. Saliti al culmine, poi, lo si vede intero. Qui nella terra siamo in continuazione di viaggio provenienti da altri astri o pianeti. Non ce ne ricordiamo perché siamo ancora troppo in basso. Arrivati più in su, ad altre stelle, ci si scoprirà la spirale corsa e, gettandovi su l'occhio, ricorderemo il passato."
Ma questi due tipi di irrazionalismi si sono uniti per dare origine a quella società post-cristiana per la cui nascita anche – ma non solo - il Risorgimento ha dato il suo triste contributo. Un esempio? Si leggano queste parole che il giornalista-editore Ferdinando Martini scriverà a Giosuè Carducci. Sono parole al di sopra di ogni sospetto. E' un massone che scrive ad un altro massone, un risorgimentale ad un altro risorgimentale. "Dopo il male - scrive il Martini - che noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto siamo in grado di provvedere ai rimedi? A chi predichiamo noi? Noi, borghesia volterriana, siamo noi che abbiamo fatto i miscredenti; ora alle plebi (...) ritorneremo a parlare di un Dio che ieri abbiamo negato? Non ci presterebbero fede; parlo delle plebi delle città e dei borghi, le quali di un Dio senza chiese, senza riti, senza preti non sanno che farsene. A tutto il male che noi - non tu ed io: noi come ceto - abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombe sono troppo scarso compenso. La scuola doveva, nelle chiacchiere dei pedagoghi, sostituire la Chiesa. Bella sostituzione! Te la raccomando! (...)".
Dunque, il Risorgimento - così com'è avvenuto - ha dato un contributo alla sostituzione della tradizione del popolo italiano (radicata nel Cattolicesimo) con valori posticci, insoddisfacenti sul piano esistenziale e fallimentari su quello sociale.

Fonte: I tre sentieri, marzo 2011

10 - PER I 200 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA FINALMENTE SI CHIEDERA' SCUSA AL BEATO PIO IX?
Chi conosce i fatti del Risorgimento sopporta a fatica la retorica ancora ripiegata sui padri della patria ''maestri incorrotti'' che viene insegnata nelle scuole, sui giornali e in televisione
Autore: Marco Invernizzi - Fonte: La Bussola Quotidiana, 17-03-2011

«17 marzo 2061. Il Presidente della Repubblica va in visita ufficiale a Senigallia, nella casa nativa di papa Pio IX, da pochi anni canonizzato dalla Chiesa, non per chiedere scusa ma per completare un processo di pacificazione fra l'Italia cattolica e quella dello Stato nato appunto il 17 marzo 1861». Un sogno, una "cosa che non sta da nessuna parte", una inutile provocazione oppure una speranza legittima dopo la preghiera recitata per i caduti dal segretario di Stato vaticano a Porta Pia il 20 settembre 2010 e le celebrazioni liturgiche officiate dalla Gerarchia ecclesiastica per i primi 150 anni di unità del Paese? Una speranza, cioè, che si riconosca al "grande vinto" di allora, il Papa nel frattempo diventato san Pio IX, e a tutti coloro che hanno combattuto per lui e per la Chiesa la dignità di italiani, a tutti gli effetti.
Vedranno coloro che ci saranno fra cinquant'anni.
Intanto a noi tocca tentare un primo bilancio, arrivati al 17 marzo del 150° anniversario della formazione del Regno d'Italia. Una prima constatazione, comune a chi ha tenuto un certo numero di conferenze e convegni sul tema nei mesi passati, è l'enorme distanza esistente fra le celebrazioni ufficiali e il comune sentire della gente, almeno di quella parte della popolazione che si interessa dell'identità nazionale. Quest'ultima sopporta a fatica la retorica risorgimentalista ancora ripiegata sui padri della patria "maestri incorrotti" che da un secolo e mezzo viene insegnata nelle scuole e che ancora viene trasmessa, come testimoniano i disegni dei bravi ragazzi delle elementari che di solito servono per addobbare le sale dove si tengono le conferenze cui ho appena accennato. E male sopportano questa retorica non perché non si sentano italiani o perché abbiano nostalgie pre-unitarie, ma perché percepiscono che la retorica del Risorgimento è ideologica e falsa e che l'unificazione nazionale ha provocato alcune ferite di cui per decenni non si è volutamente parlato.
Centinaia di opere, apostrofate come revisioniste dalla classe intellettuale (con qualche meritoria eccezione), sono invece state stampate in questi ultimi anni e soprattutto comprate e lette da decine di migliaia di lettori. Sono opere di diverso valore e di diversa ispirazione culturale, ma il loro successo commerciale è la testimonianza di un disagio reale fra la popolazione. Mi è capitato spesso, in questi ultimi mesi, di ricevere inviti da parte di Comuni a trattare il tema Risorgimento, e mentre quasi sempre i membri dell'amministrazione mi invitavano a trattare il tema con moderazione, in sala poi trovavo un pubblico molto critico, a volte esageratamente, contro il Risorgimento.
Ora questo malessere esiste e va affrontato prima che diventi una ostilità cronica verso le istituzioni, qualunque orientamento esse abbiano. E' una ferita, come le altre che hanno accompagnato la storia italiana dall'Unità in poi. Una ferita simile a quella della forma centralista dello Stato, che sta cercando di curare il nostro Parlamento con la riforma federalista, simile a quella provocata dalla guerra civile durata dieci anni nel Sud d'Italia (1860-1870) e simile anche alla ferita che ha provocato la questione cattolica, che è molto più vasta, perché culturale, della "questione romana", chiusa con il Concordato e con il Trattato del 1929.
Una ferita che, se non verrà riconosciuta e medicata, potrebbe allontanare definitivamente gli italiani dalle loro istituzioni.

Fonte: La Bussola Quotidiana, 17-03-2011

11 - OMELIA PER LA III DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO A - (Gv 4,5-42)
Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno
Fonte Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 27 marzo 2011)

Il brano evangelico della terza Domenica di Quaresima ci presenta l'episodio di Gesù che incontra una donna samaritana al pozzo di Giacobbe della città samaritana di Sicar. L'episodio è molto significativo per due motivi. Prima di tutto perché si tratta di una città samaritana; e, subito dopo, per il fatto che Gesù parla ad una donna. La Samaria era una regione posta tra la Giudea e la Galilea. Essa era il risultato di una mescolanza di diverse popolazioni. Nel 721 a.C., infatti, gli assiri avevano deportato il meglio della popolazione samaritana, sostituendola con coloni babilonesi ed aramei che portarono con sé i loro culti pagani. Col tempo ne risultò una popolazione mista, sia di razza che di religione, al punto che i giudei non vollero mai considerare i samaritani come fratelli di sangue e di fede. Questo episodio ci insegna che Gesù è venuto per la salvezza di tutti e che il Vangelo deve essere predicato fino agli estremi confini della terra.
Gesù parla ad una donna. Questo stupì non poco i suoi Discepoli. Secondo la mentalità degli ebrei dell'epoca, un uomo non doveva perdere il suo tempo a parlare con una donna della Legge mosaica. Il fatto che Gesù si fermi a parlare con la samaritana al pozzo di Sicar ci insegna la pari dignità che vi è tra l'uomo e la donna.
All'inizio del suo ministero pubblico, andando dalla Giudea verso la Galilea, Gesù prese la via che, attraverso la montagna, passa per la Samaria. Gesù si fermò nei pressi di un pozzo e lì vide una donna che andava ad attingere dell'acqua. Assetato per il lungo cammino, il Maestro divino domanda un po' da bere a quella donna. A nessuno si poteva negare un bicchiere d'acqua; ma, per la parlata di Gesù, quella donna si accorse subito che colui che gli domandava da bere era un ebreo e non un samaritano. Ella si meravigliò che un ebreo si degnasse di fare una simile domanda. Iniziò allora un dialogo.
In cambio di quella poca acqua necessaria per dissetarsi, Gesù promette "l'acqua viva". L'acqua viva è l'acqua di sorgente, l'acqua che zampilla, a differenza di quella di pozzo che è ferma. L'acqua viva simboleggia molto bene la grazia che scaturisce dal Cuore trafitto di Gesù. Di quest'acqua ha parlato la prima lettura di oggi; Dio disse a Mosè: «Tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà» (Es 17,6). Quella roccia simboleggiava Cristo Crocifisso, dal cui Costato trafitto uscì sangue e acqua, simbolo di grazia e di salvezza. Di quest'acqua ha parlato anche la seconda lettura di oggi, quando dice che «l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
L'acqua è simbolo di grazia e purificazione, ed è importante notare come Gesù parlò di quest'acqua viva e parlò anche della situazione di peccato nella quale si trovava la donna samaritana, la quale conviveva con un uomo che non era suo marito. Un po' per volta, Gesù volle portare quella donna alla conversione, e volle farle comprendere che ella aveva bisogno di una profonda purificazione. La donna si convertì al punto che corse nel villaggio per portare tutti a Gesù. In più occasioni Gesù aveva presentato i samaritani, a differenza dei farisei, come i più sensibili alla sua predicazione. Pensiamo ad esempio alla bella parabola del Buon Samaritano: essa doveva risuonare come un severo rimprovero per i maestri della Legge.
Come quella donna, anche noi abbiamo avuto bisogno della grazia purificatrice. Questa grazia l'abbiamo ricevuta nel giorno del nostro Battesimo, con il quale ci è stato tolto il peccato originale. Il Battesimo si riceve una sola volta nella vita, mentre noi pecchiamo ogni giorno, e ogni giorno abbiamo bisogno di perdono e purificazione.
Dopo il Battesimo, la grazia del perdono e della purificazione ci è offerta dal sacramento della Confessione. Questo Sacramento si può ricevere molte volte. La Chiesa ci fa obbligo di riceverlo perlomeno una volta all'anno. Si capisce però che ci è fortemente raccomandato di confessare i nostri peccati molto più spesso, ogni mese, o anche ogni settimana se ci è possibile. Facendo così, l'acqua della grazia ci purificherà continuamente e la nostra anima sarà più bianca della neve.

Fonte: Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 27 marzo 2011)

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