BastaBugie n�457 del 08 giugno 2016

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1 E' MORTO MOHAMMED ALI, UNA LEGGENDA, MA DI CERTO NON IL PIU' GRANDE (COME SI ERA AUTOPROCLAMATO)
Nero, islamico, pacifista, dotato fisicamente, famoso per aver incarnato un simbolo... ma con una scarsa tecnica pugilistica
Autore: Roberto Marchesini - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
2 QUATTRO BUONE RAGIONI A FAVORE DELLA MONARCHIA
Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà non è né ''repubblicana'' né ''democratica'', ma inevitabilmente ''monarchica''
Autore: Corrado Gnerre - Fonte: Civiltà Cristiana
3 TRUMP VI SEMBRA ECCESSIVO? E' PERCHE' NON CONOSCETE IL NEO ELETTO PRESIDENTE DELLE FILIPPINE
Da sindaco ha trasformato la sua città di due milioni di abitanti, da una delle più pericolose delle Filippine per il crimine e la droga, a una delle 10 città più sicure al mondo, ma...
Autore: Leone Grotti - Fonte: Tempi
4 LA GRAZIA DI AVERE UN FIGLIO DOWN
Lo struggente racconto di una madre innamorata di suo figlio, della vita e, in ultima analisi, del Dio buono e onnipotente
Autore: Maria Angela Masino - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
5 TEST IN VISTA DEI FESTEGGIAMENTI PER LUTERO: LA MIA PARROCCHIA E' CATTOLICA O PROTESTANTE?
Brevissimo riassunto della dottrina cattolica e di quella luterana per capire da che parte stanno la mia parrocchia, il mio parroco, il mio gruppo parrocchiale (ed in ultima analisi... io stesso)
Autore: Matteo Carletti - Fonte: Libertà & Persona
6 TRANS-GENDER SORPASSATO, E' DI MODA IL TRANS-SPECIES
Maschi omosessuali si travestono da uomini-cane e come tali si comportano (ognuno ha il proprio padrone a cui ubbidire)
Autore: Rodolfo de Mattei - Fonte: Osservatorio Gender
7 REDDITO DI CITTADINANZA? IN SVIZZERA IL 77% DICE NO
Il cavallo di battaglia dei 5 stelle in Italia è stato bocciato al referendum in Svizzera in quanto utopia collettivista e immorale
Autore: Stefano Magni - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
8 LETTERE ALLA REDAZIONE: NELLA MIA PARROCCHIA SI INSEGNA LA DOTTRINA COME DIO COMANDA
E con il ''campionato di catechismo'' si stimolano i bambini a imparare a mente le nozioni che gli rimarranno per tutta la vita
Autore: Giano Colli - Fonte: Redazione di BastaBugie
9 OMELIA XI DOMENICA T. ORD. – ANNO C (Lc 7,36-8,3)
Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato
Fonte: Il settimanale di Padre Pio

1 - E' MORTO MOHAMMED ALI, UNA LEGGENDA, MA DI CERTO NON IL PIU' GRANDE (COME SI ERA AUTOPROCLAMATO)
Nero, islamico, pacifista, dotato fisicamente, famoso per aver incarnato un simbolo... ma con una scarsa tecnica pugilistica
Autore: Roberto Marchesini - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 05/06/2016

A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande».
Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone - proibiti dal regolamento - che solo un profano può scambiare per dei ganci. [...]

E QUI LA FACCENDA SI FA INTERESSANTE
Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto?
Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì.
E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive - non senza una punta di involontario razzismo - il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice.
È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo.

CAMPIONE DEL MONDO
Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»).
Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna.
Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro.
Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...

IL DECLINO DI UN SIMBOLO
Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo).
Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta.
Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.

Nota di BastaBugie: Roberto Marchesini nell'articolo sottostante dal titolo "Cassius Clay è ancora sul ring" racconta altri interessanti particolari della vita e delle frasi pronunciate dal pugile appena deceduto così esaltato dai media (anche se in realtà il più grande pugile di tutti i tempi in realtà fu probabilmente l'italo-americano Rocky Marciano).
Ecco dunque le parti più interessanti dell'articolo su Muhammed Alì pubblicato su La nuova Bussola Quotidiana il 21-01-2012:
Alì danzava, letteralmente, attorno all'avversario, con quel tipico passo che fu imitato persino da Bruce Lee nell'elaborazione del suo Jeet Kune Do. Con quella danza, e con una bocca che sputava frasi irritanti per tutta la durata dell'incontro, ogni match diventava per l'avversario una tortura psicologica. Non possedeva, in realtà, una grande potenza, né una grande varietà di colpi: usava in continuazione il jab che colpiva senza tregua il volto dell'avversario senza che questo riuscisse ad organizzare una vera azione. Utilizzava anche dei trucchetti di dirty boxing: ad esempio, i suoi ganci erano in realtà sberloni, e ogni volta che l'avversario riusciva ad "entrare" gli afferrava la testa e le braccia impedendogli di boxare. In questo modo gli incontri si trasformavano in una tortura (anche psicologica) da parte di pugili anche ben dotati che non riuscivano ad essere efficaci, mentre lui li punzecchiava (anche psicologicamente) per tutto l'incontro.
Le sue provocazioni, le sue smargiassate, i suoi proclami, che hanno contribuito a far nascere la leggenda del "migliore", hanno senz'altro aiutato a creare il "personaggio" e a spettacolarizzare il pugilato, rendendolo molto popolare: "Io sono il più grande, l'ho detto prima di sapere di esserlo"; "È difficile essere umile se sei grande come lo sono io"; "Sono talmente veloce che la scorsa notte ho spento l'interruttore della luce nella mia stanza di hotel ed ero nel letto prima che la stanza fosse buia"; "È la mancanza di fede che rende le persone paurose di accettare una sfida, e io ho sempre avuto fede: infatti, credo in me"; "Sono affascinante, veloce, praticamente imbattibile"; "Joe Frazier è troppo brutto per essere campione. Joe Frazier è troppo stupido per essere campione. Il campione dei massimi deve essere intelligente e grazioso come me"; "Quest'uomo [Sonny Liston] è talmente brutto che quando suda il sudore gli va in dietro sulla testa, per non vedere la sua faccia"; "la mano non può colpire quello che l'occhio non può vedere. Vola come una farfalla e pungi come un'ape. Combatti, ragazzo, combatti!". Come ho scritto, Alì ha cambiato tecnicamente il pugilato e l'ha trasformato in uno sport presentabile in società, in grado di appassionare il grande pubblico; l'ha fatto uscire da antri fumosi e mal frequentati, trasformando gli incontri di punta in avvenimenti mediatici planetari (complice, va riconosciuto, il genio manageriale di Don King). Anche per questo, al di là dei meriti sportivi talvolta mitizzati, egli è il pugile più conosciuto ed ammirato dal grande pubblico ed è giusto, quindi, ricordare il suo settantesimo compleanno.
È giusto anche per il coraggio, tutto pugilistico, con il quale ha affrontato ed affronta la sua malattia, non nascondendosi né vergognandosi; continuando anzi ad affermare di essere il migliore non nonostante ma proprio grazie alla malattia, forse il suo avversario più temibile di sempre. Perché - ed è questo il grande insegnamento della boxe, metafora della vita - non importa se si vince o se si perde, ma importa combattere: affrontare gli ostacoli con coraggio, tenacia, sopportando il dolore e la fatica. Perché sul ring non si combatte contro un avversario, che comunque non è mai nemico, verso il quale non si prova odio, ma compassione e rispetto; che si abbraccia, alla fine dell'incontro, come un fratello, anzi: che è diventato fratello proprio grazie al combattimento. Non si combatte, dunque, contro l'avversario, ma contro se stessi: contro la paura, contro i limiti che ci siamo auto-imposti, contro il dolore.
Lo dimostra proprio un incontro minore combattuto nel 1975 da Alì contro Chuck Wepner, un pugile mediocre. L'incontro merita di essere ricordato non solo per la commuovente tenacia di Wepner (che mandò addirittura al tappeto Alì), ma anche perché questo incontro ispirò a Sylvester Stallone la sceneggiatura del più importante film sul pugilato, Rocky [leggi COME NACQUE ROCKY BALBOA, clicca qui, N.d.BB]. La saga di Rocky si è conclusa con il sesto film esattamente come era cominciata, ossia con una sconfitta del protagonista; che però viene acclamato dal pubblico. Il significato del pugilato sta proprio in questa apparente contraddizione. Lo esprime un dialogo, tratto dall'ultimo film della serie, tra Rocky Balboa e il figlio Robert: «Hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo. Sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole e l'hai trovato in un'ombra... Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente!».
La nostra società, vittima dell'utopia politicamente corretta, confonde la forza con la violenza, rifiuta lo scontro e la competizione. Persino se limitate da norme sportive e, in modo ancora più vincolante, da un codice d'onore. S'illude, in questo modo, di aver eliminato dal mondo il male, la violenza, la sofferenza; non accorgendosi di aver, al contrario, eliminato le regole e l'onore; di aver liberato i peggiori mostri dal sottosuolo nel quale erano stati rinchiusi da quelle regole e da quel codice d'onore. E quando, come è inevitabile, ha bisogno di uomini decisi, forti, risoluti, capaci di soffrire e di rischiare, di eroi, insomma, si accorge che non ce ne sono più; che i suoi figli sono bambini viziati, incapaci di sacrificarsi per gli altri, di alzarsi contro le ingiustizie, di lottare per il bene, di affrontare il male. No.
Noi abbiamo bisogno del pugilato. Che non è una esibizione di ferocia e forza bruta, come sostengono molti, bensì delle migliori doti umane. Per questo i francesi la chiamavano "la nobile arte"; e gli americani the sweet science, "la dolce scienza". Noi abbiamo bisogno di pugili. Abbiamo bisogno di uomini come Mohamed Alì. Ne abbiamo bisogno per sapere che agli uomini è possibile essere eroi. Il pugilato, ha detto un giorno George Foreman, è lo sport al quale ogni altro vorrebbe somigliare. Forse è per questo che san Paolo ha utilizzato una metafora pugilistica: «Faccio pugilato. Ma non come chi batte l'aria» (1 Cor 26). Come chi combatte veramente.


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Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 05/06/2016

2 - QUATTRO BUONE RAGIONI A FAVORE DELLA MONARCHIA
Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà non è né ''repubblicana'' né ''democratica'', ma inevitabilmente ''monarchica''
Autore: Corrado Gnerre - Fonte: Civiltà Cristiana, 01/06/2016

In occasione del 70° anniversario della Repubblica Italiana offro qualche riflessione in merito non alla Repubblica ma alla Monarchia, più specificamente alla Monarchia Cristiana. Prima però mi preme fare due premesse.
La prima è più specifica. Confesso (ma penso sia cosa abbastanza prevedibile) di non nutrire alcuna simpatia per Casa Savoia per una serie di motivazioni, prima fra tutte il fatto che essa ha svolto un ruolo decisivo in quel processo, cosiddetto "Risorgimento", che altro non è stato che una sorta di "piemontizzazione" dell'Italia.
La seconda premessa è più generale. La Dottrina Cattolica tradizionale (quindi non contaminata da derive modernistiche) accetta diverse forme di governo, sempre che non cadano in derive totalitarie. Ricordo che anche la democrazia, non intesa in senso classico, bensì come puro "democraticismo" (pretesa di poter tutto decidere con il criterio del numero anche cosa è oggettivamente bene e cosa è oggettivamente male) cade inevitabilmente nel totalitarismo, come è ben affermato da Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus Annus al punto 46: "Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia."
Fatte queste due premesse, vengo al dunque. Le buone ragioni della Monarchia sono quattro. La prima è "sociale", la seconda "antropologica", la terza "religiosa" e la quarta "filosofica". Ho utilizzato le virgolette perché il significato di queste aggettivazioni è in senso ampio.
 
1) RAGIONE SOCIALE
Una delle più precise definizioni di Monarchia è "governo di una famiglia su tante famiglie". Infatti, la Monarchia altro non è che la "centralità politica" della Famiglia. Qui ovviamente il riferimento è alla concezione tradizionale e vera della società. Secondo questa concezione la società non può che avere una dimensione comunitaria. Essa non è un insieme di individui ma di famiglie: è una "famiglia di famiglie". La concezione individualistica della società è invece un prodotto tipicamente "moderno". Ed è proprio la forma repubblicana ad esprimere chiaramente l'impostazione individualistica, cioè il governo di uno su tanti, di un individuo su tanti individui.
Relativamente a questo discorso va detto che la concezione vera della Monarchia -o meglio: la concezione della Monarchia vera- si espresse non a caso nel medioevo cristiano, che fu un periodo tutto all'insegna della dimensione comunitaria e "familiare". Le stesse corporazioni erano strutturate sul modello familiare.
In merito alla famiglia bisogna fare un'altra considerazione. A differenza di altre forme di governo, nella Monarchia Cristiana il Re è tenuto, anche se indirettamente, a render conto di come gestisce la propria famiglia che è parte integrante della sua rappresentatività politica; il tutto nella convinzione che non si può pretendere di governare uno Stato se non si è capaci di saper governare la propria famiglia.

2) RAGIONE ANTROPOLOGICA
Passiamo adesso ad un'altra buona ragione della Monarchia, che possiamo definire "antropologica". Dico subito che qui il discorso si fa molto più "delicato", non solo nel senso che va ben capito, ma anche perché sembrerebbe offrire argomenti un po' troppo "sottili". Ma si tratta ugualmente di una questione importante.
Governare è qualcosa di impegnativo: è un'arte che è difficile improvvisare. Ebbene, nella Monarchia vige il riconoscimento del principio secondo cui sin da piccoli bisogna prepararsi a governare. Può sembrare una sciocchezza, ma non lo è. Lasciamo stare la misteriosa incompetenza di molti politici dei nostri giorni, "misteriosa" perché assume proporzioni tali da sembrare voluta. Spesso mi viene la tentazione di pensare che coloro che ci comandano formalmente siano volutamente scelti per la loro pochezza da coloro che ci comandano sostanzialmente (che stanno dietro le quinte) affinché possano essere più facilmente gestibili. Ma, lasciando stare questo discorso che porterebbe molto lontano, resta il fatto che l'arte del governo è anche l'esito di un apprendimento, di una scuola, di un'educazione. San Luigi IX (che a detta del famoso medievista di formazione laica, Jacques le Goff, è stato il più il più grande Re di Francia) così scrive al figlio che dovrà ereditare il Regno: "Caro Figlio, la prima cosa che ti raccomando è che tu metta tutto il tuo cuore nell'amare Dio. Se Dio ti manda delle avversità, sopportale pazientemente. Confessati spesso e scegli confessori prudenti. Mantieni i buoni costumi del regno e combatti quelli cattivi. Prendi cura di avere in tua compagnia tutti uomini prudenti, sia religiosi, sia secolari. Non sopportare che si dica davanti a te nessun oltraggio verso Dio, né ai Santi. Rendi sovente grazie a Dio di tutti i doni che Egli ti ha fatto, affinché tu sia degno di averne ancora. Le tue genti vivano in pace e in rettitudine sotto te, anche i religiosi e tutte le persone della Santa Chiesa. Dona i benefici di Santa Chiesa. Pacificati piuttosto che porre guerre, sia coi tuoi, sia coi tuoi sudditi, come faceva San Martino. Sii diligente di avere buoni preposti e buoni podestà e buoni inquisitori. Sforzati di impedire il peccato e cattivi giuramenti; fa distruggere le eresie contro il tuo potere. Fa in modo che le spese del tuo palazzo siano ragionevoli. Infine, caro figlio, io ti do tutte le benedizioni che un buon padre pietoso può dare a suo figlio, e che sia benedetta la Santissima Trinità e tutti i Santi ti guardino e ti difendano da ogni male; e che Dio ti dia la Grazia di fare sempre la sua volontà, in modo che Egli sia sempre onorato da te".
 
3) RAGIONE RELIGIOSA
Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà è gerarchica; e per logica tutto deve essere riconducibile alla sovranità di Colui che è il Re di tutto: il Re dei Re. Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà non è né "repubblicana" né "democratica", ma inevitabilmente "monarchica".
Qui c'è da aggiungere una cosa interessante. Prima abbiamo detto che simbolicamente la Monarchia rappresenta la centralità politica e sociale della Famiglia; ebbene il Cristianesimo parla di un Dio che è Unico ma anche Comunione, in quanto Trinitario. Dunque, è proprio nel Cristianesimo, più di ogni altra religione, che la Monarchia, come centralità politica della Famiglia, trova il suo fondamento teologico. Possiamo in un certo qual modo dire che il Cristianesimo è strutturalmente monarchico e che la Monarchia è strutturalmente cristiana.
 
4) RAGIONE FILOSOFICA
La Monarchia esprime anche un'altra conformazione, ed è quella alla realtà. Ecco la ragione "filosofica" che è legata al "realismo filosofico", unico criterio per una corretta speculazione razionale.
La dimensione gerarchica è nell'ordine naturale delle cose; tant'è che anche negli ambienti che ne teorizzano l'illegittimità e l'innaturalità, questa, cacciata dalla porta, rientra in un certo qual modo dalla finestra. Provare per credere: finanche negli ambienti anarchici il leader finisce sempre con l'emergere.
E' nella natura delle cose riconoscere che chi comanda può comandare per sempre, che sui talenti che il Signore dona non c'è data di scadenza. Se la politica diventa un bene di consumo, allora sì che esiste il rischio che vada a male; ma se la politica è promozione e difesa del bene comune (tradizionalmente e metafisicamente inteso) allora non c'è rischio né che vada a male né che possa passare di moda.

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Fonte: Civiltà Cristiana, 01/06/2016

3 - TRUMP VI SEMBRA ECCESSIVO? E' PERCHE' NON CONOSCETE IL NEO ELETTO PRESIDENTE DELLE FILIPPINE
Da sindaco ha trasformato la sua città di due milioni di abitanti, da una delle più pericolose delle Filippine per il crimine e la droga, a una delle 10 città più sicure al mondo, ma...
Autore: Leone Grotti - Fonte: Tempi, 03/06/2016

Prima l'hanno snobbato, chiamandolo «clown», poi l'hanno denigrato, paragonandolo a Donald Trump, poi hanno lanciato l'allarme, definendolo «un pazzo», e ora gli si rivolgono con il suo nuovo titolo: signor presidente. Ma come abbiano fatto le Filippine, paese a stragrande maggioranza cattolica (oltre il 90 per cento), a eleggere un capo di Stato che ha definito papa Francesco «figlio di p.» (sì, la parola è quella) solo per aver complicato il traffico durante la sua visita del 2015 nella capitale Manila, è una domanda più che legittima.
Rodrigo Duterte, 71 anni, ha vinto le elezioni presidenziali il 9 maggio ma i risultati ufficiali sono arrivati solo pochi giorni fa: il "giustiziere", come lo chiamano molti suoi sostenitori, ha preso quasi il 40 per cento dei voti, superando il principale rivale di 6,6 milioni di voti.

ALTRO CHE TRUMP
Tutto ciò che è vietato dire, anche solo per decenza, Duterte lo grida nei comizi, lo ribadisce nelle interviste e lo sottolinea nelle conferenze stampa. Le sue folli uscite sono ormai diventate celebri e sono così eccessive da far sembrare Trump un campione del politicamente corretto. Quando sembra che abbia raggiunto il limite, riesce a superarlo con una nuova trovata e se qualcuno gli domanda se intenda scusarsi, rincara la dose.
Qualche esempio. Parlando della missionaria laica che nel 1989 durante una sommossa dei detenuti è stata stuprata in gruppo e uccisa in un carcere di Davao, dove Duterte era sindaco, ha commentato a un comizio: «Hanno stuprato tutte le donne... c'era questa missionaria laica... e tutti quei bastardi l'hanno stuprata, mettendosi in fila. Lei era così bella, che ho pensato: il sindaco avrebbe dovuto avere la precedenza». Il suo rapporto con le donne è stato peggiorato anche da altre confessioni, come quella di essere un «donnaiolo che fa uso di Viagra».
La sua volgarità è forse seconda solo alla violenza del suo atteggiamento. Duterte ha puntato tutta la sua campagna elettorale sul tema della sicurezza, promettendo di sradicare la criminalità in sei mesi. A modo suo. Ha giurato di «uccidere 100 mila criminali» e di «darli in pasto ai pesci della Baia di Manila». Più precisamente: «Un leader deve terrorizzare i pochi malvagi per proteggere la vita e il benessere dei tanti buoni. Se diventerò presidente, consiglio alla gente di aprire molte imprese di pompe funebri. Perché saranno piene. I cadaveri li procurerò io».
A Davao sanno che Duterte ha davvero il pugno di ferro e fa sul serio. È anche per questo che l'hanno rieletto per 23 anni di fila, dal 1988 al 2010 e dal 2013 al 2016, eccezion fatta per tre anni passati «ad annoiarsi» in Parlamento. Da sindaco ha trasformato la metropoli di due milioni di abitanti da una delle città più pericolose delle Filippine, a causa del crimine e della droga, a una delle 10 città più sicure al mondo.

PATTUGLIE IN MOTO
Per tutti questi anni, due sere a settimana, Duterte ha pattugliato personalmente la città a bordo della sua Harley-Davidson. Conduceva ispezioni a sorpresa tra i reparti della polizia mentre erano in servizio e faceva personalmente regali ai poliziotti per spegnere in loro la voglia di ricevere tangenti da altri. Ad alcuni trafficanti di droga ha offerto una pensione mensile da 2.000 pesos a patto che cambiassero vita. Chi non si arrendeva, però, "spariva" dalla circolazione.
Duterte è stato accusato di aver causato l'uccisione extragiudiziale di almeno mille persone, chiudendo un occhio sull'operato degli Squadroni della morte di Davao, gruppi di vigilanti che uccidevano i criminali per le strade. Una madre ha denunciato questa politica pubblicamente: «I miei due figli avevano problemi con la giustizia, ma sono stati uccisi per strada solo per essersi rifiutati di andarsene da un quartiere».
Il nuovo presidente delle Filippine è anche un vero populista. Per il modo in cui ha amministrato la città di Davao, ha ricevuto molti premi ma non è mai andato a ritirarli perché «io non lo faccio per la gloria, ma per il popolo». Avvocato di professione, nonostante il suo linguaggio, è considerato un gentiluomo che fa quello che dice e che non riserva un trattamento di favore a nessuno. Solo nell'ultima settimana, ha definito «figli di p.», oltre ai criminali e al Papa, anche i «vescovi e i giornalisti». Questi ultimi, ha aggiunto, «se sono corrotti meritano di essere uccisi».
 "Duterte Harry", così soprannominato per la sua somiglianza con il protagonista di Dirty Harry (ispettore impersonato da Clint Eastwood), ha incredibilmente goduto del favore di parte dell'opinione pubblica mondiale per il suo insolito sostegno alle politiche progressiste in un paese cosiddetto retrogrado. È favorevole ai diritti Lgbt, ai matrimoni omosessuali («ognuno deve avere il diritto di essere felice»), all'aborto e alla pianificazione familiare, ambito nel quale ha proposto di applicare una legge del figlio unico con caratteristiche filippine: massimo tre figli a coppia.

SALVATORE DELLA PATRIA
Il suo rapporto con la Chiesa di Roma è quanto meno tormentato. A gennaio ha confermato di essere battezzato cattolico, nonostante il suo gruppo di riferimento sia protestante, ma ha aggiunto che il suo ruolo di politico è inconciliabile con quello di fedele. Per questo ha messo «temporaneamente tra parentesi» la sua fede. Sostiene di essere stato abusato sessualmente «come tutti gli altri» da un prete durante l'università a l'Ateneo de Davao University, amministrato dai gesuiti. Ha definito la Chiesa cattolica «l'istituzione più ipocrita al mondo» e ha insultato i vescovi col solito epiteto, per averlo criticato sulle sue offese al Papa, istigandoli così: «Avete fatto campagna contro di me e guardate, siete forse riusciti a fermarmi? In compenso, mi siete venuti a chiedere mille favori».
In un paese piagato da criminalità, povertà e spaccio di droga, attraversato da movimenti separatisti e minacciato dalla presenza di Abu Sayyaf, gruppo terrorista affiliato allo Stato islamico, molti filippini vedono in Duterte un possibile salvatore della patria e nessuno fa caso a chi lo accusa di essersi arricchito enormemente, passando in meno di dieci anni da un reddito di 18 mila a uno di 450 mila euro.
C'è però chi teme che Duterte non sia l'uomo giusto in un momento storico, diplomaticamente così delicato, in cui le Filippine sono in conflitto con la Cina per le isole contese nel Mar cinese. La contesa tocca il sentimento nazionalista del popolo e la soluzione offerta da Duterte è più muscolare che politica: «Prenderò un jet, volerò sulle isole contese e pianterò una bandiera delle Filippine». Anche Superman, a confronto, è un dilettante.

Fonte: Tempi, 03/06/2016

4 - LA GRAZIA DI AVERE UN FIGLIO DOWN
Lo struggente racconto di una madre innamorata di suo figlio, della vita e, in ultima analisi, del Dio buono e onnipotente
Autore: Maria Angela Masino - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 29/05/2016

Stefano Maria, 19 anni ama sciare, nuotare, leggere, scrivere, dipingere soprattutto ad acquerello, servire a tavola con lo stile sobrio ed elegante dei camerieri cinque stelle. Stefano ama pregare con la sua mamma, andare a Messa la domenica, ma anche visitare il Louvres o una mostra di Picasso. Stefano ha la sindrome di Down, ma non ha alcuna delle patologie connesse alla Trisomia 21, neppure un soffio al cuore.
«Quando l'ho preso fra le braccia dopo il parto era bellissimo, aveva perfino gli occhi blu, come la sua nonna; anche l'indice di Apgard che valuta l'efficienza delle funzioni vitali era perfetto. Ma, già il secondo giorno dopo la nascita, la profonda gioia che mi aveva travolto era "minacciata" da un primo sospetto clinico: la manina sinistra del mio bambino aveva una linea con una direzione diversa, molto simile a quella presente nella Trisomia 21 e la cute della nuca presentava una certa lassità, "forse" fuori dai parametri. Occorreva verificare con l'esame Cariotipo se c'era la presenza del terzo cromosoma», racconta Laura Maiocchi, professoressa di Lettere all'Istituto Santa Gemma di Milano e mamma di Stefano.

COMUNQUE AVREI SCELTO PER LA VITA
«In quel momento», continua, «mi sono resa conto che la frase che mi era stata detta "Signora, complimenti, tutto bene: è un bel bambino!", stava dando alla mia vita un aspetto diverso. Mesi prima, all'inizio della gravidanza il ginecologo aveva avvertito delle irregolarità negli esiti dei primi esami che mi avevano "costretta" a pensare a una eventuale malattia del mio bambino. A quella ipotesi avevo reagito dicendomi che, comunque, avrei scelto per la vita e per la mia maternità. Poi in realtà si era trattato di un duplice errore di laboratorio. Incredibile. Ricordo perfettamente di aver concepito Stefano dopo un fantastico viaggio nel West degli Stati Uniti: avevo ancora dentro di me la grinta di Las Vegas, il calore della Death Valley, le scenografie dei parchi del Colorado. Ma soprattutto non posso dimenticare la felicità che ho provato quando ho visto comparire le due barrette blu indice di gravidanza sul test. Questa gioia che si mescolava alle immagini del viaggio, alla gratificazione di aver finalmente realizzato il sogno, diventare mamma, era inimmaginabile!».
Una sonorità intensa ha accompagnato Laura per tutto il tempo della gestazione. Ora, però, quel dubbio clinico - che non si doveva divulgare perché non c'era ancora una reale diagnosi, e non bisognava etichettare il bambino qualora il sospetto fosse stato smentito - aveva rotto l'incantesimo. Stefano era sempre bellissimo, ma c'era anche un'angoscia che non era stata messa in conto. Per due volte il test del cariotipo, l'analisi dei cromosomi ha dato esito positivo. Il dubbio era stato sciolto, la vita, inutile negarlo, aveva preso una direzione diversa rispetto a quella sognata.

IL PIÙ BEL BAMBINO DEL MONDO
«Anche, se forse, i segni premonitori di una quotidianità non facile non erano mancati: la mia vita matrimoniale è sempre stata scandita dal limite: la malattia di mio suocero, la disabilità di mio cognato, la morte prematura della mamma di Fabio, mio marito. E io ho spesso dovuto mettere da parte un po' me stessa per fare gioco di squadra familiare». Ma, nonostante la diagnosi Stefano per Laura continuava a essere il più bel bambino del mondo. «Ero e sono infinitamente grata della mia maternità che mi ha permesso di conoscere un mondo "altro", quello di chi riesce a fare tante cose solo se accolto con un sorriso, quello di chi chiede regalando un bacio al suo interlocutore. Da mio figlio ho imparato a essere più paziente, ad avere maggior rispetto per i ritmi degli altri anche se meno accelerati, a entusiasmarmi per ogni piccolo traguardo raggiunto. Soprattutto ho imparato a guardare la realtà come a una presenza buona, anche se faticosa e che troppo spesso richiede forza per combattere contro un mondo che tende a far fuori la persona, soprattutto se "apparentemente diversa"», racconta Laura.
Certo è faticoso confrontarsi con un figlio che, a volte, fatica ad allacciarsi le scarpe, che al mattino impiega dieci minuti per lavarsi i denti, ma è anche sfidante riuscire a dar voce ai suoi talenti, alle sue potenzialità. «Una neuropsichiatra con tono piuttosto duro nel corso di una visita mi aveva chiesto se avevo guardato in faccia mio figlio, se avevo colto la sua diversità e quindi la sua incapacità di fare le cose che fanno gli altri. Certo, che ero consapevole». Ma essere diversi non significa lasciare inespresse le proprie inclinazioni, non provare a integrarsi, non misurarsi con la realtà. Stefano fin da piccolo di interessi ne aveva molti e ha sempre frequentato le scuole, già dall'asilo, con tanta gioia. Le difficoltà non sono mancate, ma anche le gratificazioni si sono moltiplicate nel corso degli anni.
«Ha più volte prestato servizio nelle cene a tema organizzate dalla scuola e lo ha fatto, mi dicono i suoi prof, con un'attenzione e un garbo che sono difficili da incontrare. Ovvio che a lui bisogna proporre un metodo di studio diverso dove i concetti vengono espressi attraverso metafore, immagini, canzoni». Con Stefano bisogna sempre avere a disposizione evidenziatori, matite, pennarelli, ma questa semplificazione è appassionante. «Attraverso mio figlio ho cambiato il mio atteggiamento nell'insegnare: uso maggiormente gli input emozionali, la drammatizzazione dei racconti, ricorro spesso a quei formidabili sussidi didattici che sono i colori e i suoni. Lui mi ha regalato una nuova visione del tempo, più connessa al presente e meno proiettata su futuro e passato».

L'ESSENZIALE DELLA VITA È IL VOLER BENE IN MODO GRATUITO
«Stefano non fa progetti, per lui esistono solo le cose che succedono qui e ora, non parla di filosofia, non conosce i passi importanti del catechismo, ma recita il Rosario e si commuove quando fa la Comunione e segue la mia preghiera dell'Angelus e se qualcuno sta male è il primo a stargli vicino. L'anno scorso durante un viaggio a Lourdes facendo il barelliere si è accorto che un anziano solo era spesso triste gli si è avvicinato e gli ha tenuto compagnia. I genitori dei miei allievi hanno tante aspettative per i loro figli; li capisco, ma capisco anche che diversa è la mia: io desidero solo che lui sia accettato e amato per quello che è; non lo immagino grande primario ospedaliero, mi auguro che stia bene e che sia contento».
Questo per Laura non ha significato scegliere la direzione del rinunciare o del perdere, ma stabilire nuove priorità, riorganizzare i valori. L'imperfezione molte volte è uno stimolo, traccia nuovi percorsi di gratificazione mentre capita anche che la perfezione, la normalità sottraggano slancio vitale. In questa maternità speciale Laura Maiocchi vede una grazia, quella di aver imparato a cogliere l'essenziale della vita che è il voler bene in modo gratuito. «Quando sono in difficoltà chiedo aiuto alla Madonna. Prima di aver partorito Stefano, ero molto cristocentrica. Anche dell'amore verso la mamma di Gesù devo dire grazie a mio figlio».

Nota di BastaBugie: due articoli imperdibili e un video da vedere e diffondere

PER DIVENTARE UNA SOCIETA' PERFETTA, LA DANIMARCA APPROVA IL PROGETTO DI ELIMINARE TUTTI I DOWN
Avanza il progetto choc di eliminazione dei nascituri ''difettosi'' che sarebbe piaciuto molto a Hitler
di Gianfranco Amato
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2136

PERCHE' UN BAMBINO DOWN DOVREBBE ESSERE INFELICE?
Cara futura mamma: ecco il video che spopola in internet
di Umberto Folena
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=3402


https://www.youtube.com/watch?v=v5tfxOBvWgo

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 29/05/2016

5 - TEST IN VISTA DEI FESTEGGIAMENTI PER LUTERO: LA MIA PARROCCHIA E' CATTOLICA O PROTESTANTE?
Brevissimo riassunto della dottrina cattolica e di quella luterana per capire da che parte stanno la mia parrocchia, il mio parroco, il mio gruppo parrocchiale (ed in ultima analisi... io stesso)
Autore: Matteo Carletti - Fonte: Libertà & Persona, 26/05/2016

Il cuore della liturgia cattolica è costituita dal Sacrificio della Croce di Cristo per la salvezza dell'uomo. Questo Sacrificio si rende sempre presente, allora come oggi, nella celebrazione Eucaristica ed è destinato a rimanere attraverso i secoli nel modo in cui Gesù stesso l'aveva istituito, contemporaneamente al sacerdozio. Nell'ultima Cena Egli, non solo ha istituito il sacerdozio, ma lo ha fatto in vista del proprio Sacrificio, poiché esso costituisce la sorgente di tutti i meriti, di tutte le grazie e di tutta la ricchezza della Chiesa. Quindi non si può comprendere il sacerdozio senza il Sacrificio, poiché il sacerdozio è fatto per il Sacrifico. In questo Gesù stesso è voluto essere anche la Vittima. Senza la reale presenza di Gesù non può esserci la Vittima e neanche il Sacrificio. Tutto è unito: presenza reale, Vittima e Sacrificio. Questa (in estrema sintesi!) la liturgia cattolica.

LUTERO
Veniamo a Lutero. Il monaco tedesco, volendo colpire il sacerdozio, diede un colpo definitivo anche a tutta la Chiesa. Egli sapeva bene che, venendo meno il sacerdote, sarebbe sparito anche il sacrificio e, conseguentemente, anche la vittima e quindi la fonte di tutte le grazie della Chiesa. Lutero era persuaso che non ci fosse differenza sostanziale fra i preti e i laici, ma che tutti costituissero un "sacerdozio universale". Questo era il primo di "tre muri" che circondavano la Chiesa e che, secondo Lutero, dovevano essere abbattuti. "Se un Papa o un vescovo - sosteneva Lutero - dà l'unzione, fa delle tonsure, consacra o dà un abito differente ai laici o ai preti, crea degli imbrogli". Tutti, di fatto, sono consacrati nel Battesimo e, dunque, non può esistere un sacramento speciale per i preti.
Il secondo muro da abbattere era la transustanziazione. Nella messa luterana viene rifiutata in toto l'idea di "sacrificio" e con essa di vittima e di presenza reale. Rimane la sola presenza spirituale, un ricordo, tanto che la Messa non può essere indicata più come un Sacrificio ma solamente con i termini di Comunione, Cena, Eucarestia. Secondo le parole del Vangelo "dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" si compie la vera e sola Messa. È per questo che Lutero rifiutò da subito la celebrazione di messe private perché mancanti della comunione col popolo. Per Lutero l'Eucarestia era "Sacramento del pane" e non più Sacrificio, considerato, ormai, come elemento di corruzione.
Il terzo ostacolo era rappresentato dal valore espiatorio del Sacrificio della Messa. Sempre secondo il monaco ribelle l'Eucarestia è un "Sacrificio di lode" ma non un "Sacrificio di espiazione". Quindi l'unico scopo della Messa diventa, per Lutero, solamente quello di rendere grazie a Dio. È dentro questa lettura che oggi alcuni protestanti parlano ancora di "Sacrificio", ma non come un Sacrifico che rimette i peccati, ma di semplice ringraziamento per l'opera di Dio.

CAMBIAMENTI NELLA FORMA
Questi cambiamenti di sostanza hanno generato modificazioni anche nella forma come l'orientamento (coram populo) del sacerdote durante la Consacrazione, l'introduzione della lingua volgare, la Comunione ricevuta sulla mano. Per non parlare anche delle conseguenze in campo artistico e architettonico. La chiesa concepita come Domus Dei, nella quale tutto (altare, pareti, affreschi, materiali, uso della luce, ecc...) deve parlare di Dio, lascia spazio, nel mondo protestante, ad edifici essenzialmente sobri, se non vuoti di decorazioni e raffigurazioni sacre. "Scompare - ricorda Francesco Agnoli - il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la posizione ad Oriente, l'abside, il coro, il ciborio. [...] Anche l'altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo". Un generale e diffuso sentimento iconoclasta si diffonderà nel mondo protestante, soprattutto verso le immagini della Vergine e dei Santi, un ripudio verso questi ultimi, è bene ricordarlo, "che nasce - sempre secondo Agnoli - dal terribile pessimismo antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso tra Satana e Dio".

Nota di BastaBugie: Angela Pellicciari nell'articolo sottostante dal titolo "Se Kasper ci vuole alla scuola di Lutero" fa notare che, in vista della commemorazione a Lund (Svezia) a cui parteciperà anche il Papa, il cardinal Kasper pubblica un libro in cui sostiene la bontà delle tesi luterane e un ecumenismo che superi tutte le Chiese. Eppure questo è l'esatto opposto di quanto da sempre insegnato dalla Chiesa cattolica.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 09-06-2016:
Il primo giugno è uscito un comunicato congiunto della Federazione luterana mondiale e il Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. Nella sostanza riprende le linee del comunicato della Sala stampa vaticana del 25 gennaio che annunciava il viaggio del papa a Lund, in Svezia, per "commemorare" i 500 anni della riforma. La novità di giugno - e non si tratta di un particolare di poco conto - è la specificazione che il papa resterà in Svezia un giorno in più per incontrare i cattolici e celebrare con loro un'Eucaristia.
Per capire in che senso la Chiesa cattolica commemori Martin Lutero con l'obiettivo di celebrare "i doni della Riforma" (così afferma il comunicato congiunto), è utile prendere le mosse da un piccolo libro su Lutero recentemente dato alle stampe dal cardinale Kasper (Martin Lutero - Una prospettiva ecumenica, Queriniana). Il libro di Kasper, efficace, chiaro, ben scritto, parte da una tesi di fondo: Lutero aveva ragione, la Chiesa romana torto. Personalità dal «fascino addirittura magnetico», che «per alcuni cattolici è già diventato quasi un padre comune della chiesa», Lutero, dopo aver tentato invano di convincere papa e vescovi ad attuare la riforma da lui stesso prefigurata, «dal momento che i vescovi si rifiutavano di procedere», «dovette accontentarsi di un ordinamento d'emergenza».
Ancora: «L'appello di Lutero alla penitenza» non è stato accolto e «anziché reagire con la disponibilità alla penitenza e con le necessarie riforme, si rispose con polemiche e condanne». Vale la pena di sottolineare ancora una volta il punto di vista di Kasper: «Roma e i vescovi non hanno accolto l'appello di Lutero alla penitenza e alla riforma», e quindi, pur non volendo, Lutero è stato in qualche modo costretto a divenire ciò che è stato: Lutero «divenne il Riformatore, pur non definendosi tale». Lutero dal canto suo «si poneva nella lunga tradizione dei rinnovatori cattolici che lo avevano preceduto. Si pensi soprattutto a Francesco d'Assisi, che con i suoi fratelli volle vivere semplicemente il vangelo e così predicarlo. Oggi si parlerebbe di nuova evangelizzazione».
Kasper ricorda come la vita del monaco agostiniano ruotasse intorno alla domanda: «Come posso trovare un Dio misericordioso? Questo era il problema esistenziale di Lutero». Riforma, penitenza, misericordia, collegamento con lo spirito francescano: Kasper usa queste definizioni per proporre un'azzardata analogia con papa Bergoglio che va a Lund a "commemorare" i cinquecento anni della Riforma, che si pone come riformatore, che sta tutto dalla parte della misericordia e che ha scelto di chiamarsi Francesco.
Devo a Kasper gratitudine perché, leggendo il suo libro, ho finalmente capito cosa significhi l'espressione ecumenismo. Parola che per me era finora rimasta nel limbo della vaghezza e, in fondo, dell'irrilevanza. Adesso invece so cosa significhi e quale progetto sottintenda, almeno per Kasper. Seguiamo il ragionamento del Cardinale: «Per ecumenismo si intende tutto il globo terrestre abitato, dunque universalità invece che particolarità. Si può anche dire: a differenza del cattolicesimo e del protestantesimo, limitati nel loro aspetto confessionale, ecumenismo significa la riscoperta della cattolicità originaria, non ristretta ad un punto di vista confessionale». Deduzione: dal momento che cattolicesimo e protestantesimo esistono uno affianco all'altro, nessuno dei due è universale. Per raggiungere l'universalità si tratta di uscire dalla confessionalità, cioè dalla particolarità delle Chiese, e conquistare l'ecumenicità, nuovo modo per indicare la caratteristica universale del messaggio cristiano. Le Chiese - che sono tutte sullo stesso piano perché tutte ugualmente confessionali, cioè particolari - «devono vivere l'una con l'altra e andare l'una incontro all'altra».
Kasper è convinto che la strada dell'ecumenismo così inteso sia ormai obbligata: un regresso al confessionalismo «sarebbe una catastrofe» perché così facendo non saremmo in grado di contrastare l'ecumenismo secolare «che vorrebbe estromettere il cristianesimo dalla sfera pubblica». Ancora: «Nell'ecumenismo cristiano, perciò, è in gioco l'unità della Chiesa, nel servizio all'unità e alla pace del mondo. Si tratta di un umanesimo universale, che è fondato in Gesù Cristo quale nuovo e ultimo Adamo». L'impianto del ragionamento di Kasper è chiarissimo quanto originale: la Chiesa di Roma non è cattolica perché non è universale. È confessionale. Per riconquistare la cattolicità bisogna che insieme alle altre Chiese dia vita ad una «diversità riconciliata».
Questo però è l'esatto opposto di quanto la Chiesa ha sempre insegnato in duemila anni. Nonostante tutte le eresie e tutti gli attacchi che le sono stati rivolti (da Lutero con estrema violenza) la Chiesa non ha mai perso la consapevolezza di essere cattolica, cioè universale. Chiesa cattolica, apostolica, romana. Non a caso romana: da tempo immemorabile Roma è il mondo (come la benedizione solenne urbi et orbi mostra) e Pietro e Paolo a Roma non fanno che portare a compimento la vocazione romana all'universalità (non c'è più né schiavo né libero, né uomo né donna, né giudeo né greco, scrive Paolo ai Colossesi e ai Galati). La Chiesa cattolica, apostolica, romana, non ha alcun bisogno di recuperare quell'universalità che da sempre la caratterizza e che da sempre è insidiata da altri centri di potere che desiderano imporre sulle ceneri dell'universalità romana un nuovo tipo di universalità.

Fonte: Libertà & Persona, 26/05/2016

6 - TRANS-GENDER SORPASSATO, E' DI MODA IL TRANS-SPECIES
Maschi omosessuali si travestono da uomini-cane e come tali si comportano (ognuno ha il proprio padrone a cui ubbidire)
Autore: Rodolfo de Mattei - Fonte: Osservatorio Gender, 02/06/2016

Mercoledì 25 maggio è andato in onda su Channel 4, canale televisivo del Regno Unito, un documentario intitolato "Secret Life of the Human Pups" i cui protagonisti sono i membri di una comunità molto particolare sorta negli ultimi anni in un certo ambiente della sottocultura britannica. "La Vita segreta dei cuccioli umani", come riporta il quotidiano The Guardian, ha raccontato infatti la storia della comunità degli "uomini-cane", un movimento, che oggi conta ben 10mila persone, sorto inizialmente all'interno dell'ambiente del sadomasochismo omosessuale e diffusosi rapidamente negli ultimi quindici anni attraverso la facilità di comunicazione resa possibile dall'avvento di internet.

MASCHI OMOSESSUALI SI TRASFORMANO IN... CANI
I membri di questa, a dir poco bizzarra e folle, comunità tendono ad essere di sesso maschile e omosessuali, amano vestirsi con costumi integrali di pelle che li facciano prendere le sembianze di cani, godono nell'assumere comportamenti e atteggiamenti "animaleschi", come farsi accarezzare a pancia in su, afferrare i giocattoli con la bocca, mangiare a quatto zampe nelle scodelle e hanno spesso una relazione sessuale con i loro "padroni" umani.
Nel documentario si vede Tom, aka "Spot", uno degli uomini-cane intervistati, affermare che per lui scegliere di trasformarsi in un animale significa semplicemente tornare a uno stadio primordiale e più libero: "Non devi preoccuparti dei soldi, del cibo o del lavoro. Ti godi semplicemente la compagnia di una persona", ovvero la compagnia del proprio padrone. In un'altra scena del filmato si vedono due cuccioli (umani) attraversare Londra fingendo di fare pipì su pali della luce per aumentare la consapevolezza della propria identità ed altri uomini-cane "zompettare", abbaiando e scodinzolando le loro code meccaniche.

GIOCO DA CUCCIOLO
Più avanti l'uomo-cane Tom precisa come la scoperta di questo "gioco da cucciolo" sia avvenuta in maniera graduale. Sapeva che gli piaceva dormire con un collare al collo e provava un sentimento feticista per l'abbigliamento aderente in gomma di Lycra, ma è stato l'acquisto su E-bay di un costume da cane dalmata ad aprirgli le porte di questo nuovo inesplorato mondo. L'episodio chiave è avvenuto in un locale sadomaso - racconta Tom - quando vestito con il suo costume da dalmata venne avvicinato da un uomo che gli sussurrò: "Oh, bene, quindi tu sei un cucciolo". Una dichiarazione che si è rivelata per lui "illuminante" e che lo ha portato in breve tempo a rompere i rapporti con la sua ex fidanzata Rachele e ad instaurare una relazione gay con Colin, il suo nuovo padrone.
Questa "è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso" - spiega Tom - "poi ho avuto un momento di panico, perché un cucciolo senza un collare è un randagio; non ha nessuno che si prenda cura di lui. Così ho iniziato a chiacchierare on-line con Colin che si è offerto di prendersi cura di me. E' una cosa triste da dire, ma non c'è amore dentro di me per Colin, ma quello che ho ottenuto è qualcuno che è lì per me e sono felice di questo".
Per David, uno scrittore che lavora nel mondo accademico, il "gioco da cucciolo" è una fuga dal mondo reale, rappresentando per lui una sorta di "seconda vita", lontano dalla monotonia e dalla normalità di tutti i giorni: "E' così totalmente non verbale (…) E' pre-razionale, pre-cosciente. Si tratta di uno spazio emotivo istintivo. Ma all'interno di ogni cucciolo c'è una persona. Questo fa parte della mia identità, ma è solo una parte. Ma poi c'è altro nella mia vita: sono anche vegetariano, suono il pianoforte, coltivo pomodori… Posso stare anche mesi senza giocare a fare il cane".

RAPPORTI TRA GLI UOMINI-CANE ED I LORO PADRONI
David spiega come l'attrazione e i rapporti tra gli uomini-cane ed i loro padroni rispecchino esattamente quelle che esistono nella realtà tra i cani e i loro padroni. Uomini-cane e padroni sono tra loro dei "fedeli compagni" e ogni uomo-cane è geloso e protettivo nei confronti del suo amato padrone: "Alcuni cuccioli sono soli, ovviamente, ma per me l'identità cucciolo si concentra sul legame tra me e Sidney, il mio padrone. Sono stato al suo collare per 10 anni. Se qualcuno gli si avvicina ringhio come un piccolo bull terrier".
Nonostante la pratica degli uomini-cane sia solitamente connotata sessualmente e relativa agli ambienti gay, una delle persone intervistate cerca di prendere le distanze da tale rappresentazione, sottolineando come al suo "branco", composto da ben nove cani, piaccia semplicemente giocare e stare insieme al proprio padrone: "La gente arriva automaticamente alla conclusione che si tratti di costumi che indossiamo per avere rapporti sessuali. Mi sono state rivolte domande terrificanti, come se mi piacesse fare sesso con i cani. Ma naturalmente non ha niente a vedere con tutto questo, e non è sempre qualcosa di sessuale. I membri del mio branco passano un sacco di tempo insieme a casa, semplicemente facendo i cani. Siamo nove, e il mio compagno è il nostro padrone. C'è un grande senso di famiglia e di appartenenza; siamo lì per prenderci cura l'uno dell'altro".

BASTA DISCRIMINAZIONI, VOGLIO ESSERE ACCETTATO COME CANE
In conclusione, Tom invita gli spettatori ad accettare e comprendere la loro identità come è stato già fatto con tanti altri modelli fuori dalla "norma" a cominciare dalla comunità LGBT: "Ci si sente come può sentirsi un gay, un etero, un bisex, un trans ed essere accettati. (…) Tutto quello che voglio è che la comunità dei cuccioli sia accettata nella stessa maniera. Non stiamo cercando di causare dolore al pubblico, o di causare dolore ai rapporti. Siamo proprio come qualsiasi altra persona sulla strada".
Il movimento degli "uomini-cane" rappresenta l'approdo logico e coerente del processo di abbattimento di ogni tipo di barriera in nome dell'illimitata libertà dell'individuo. Esso costituisce solamente, per cosi dire, un azzardato ed inedito "salto di specie". Se infatti la comunità LGBTQ teorizza e rivendica la transizione di genere attraverso il passaggio dal genere maschile al genere femminile, negando l'esistenza di una natura umana, la comunità degli uomini-cane teorizza e rivendica la transizione di specie, con il passaggio dall'uomo all'animale, negando, in una visione antispecista, l'esistenza di una specie umana distinta da quella animale.
Entrambe le comunità fondano il loro pensiero sulla negazione dell'esistenza di una specifica natura umana e sulla promozione di un nuovo rivoluzionario paradigma antropologico contro l'uomo stesso. Entrambe, in una visione evoluzionista, antigerarchica e ugualitaria, celebrano la devianza in ogni sua forma e proclamano la "liberazione dell'uomo", intesa come l'abolizione di ogni norma e limite sociale, dissolvendo la sessualità e la specie per tornare utopisticamente allo stato di caos originario. La prossima frontiera dei diritti umani sarà la "normalizzazione" sociale degli uomini-cane?

Fonte: Osservatorio Gender, 02/06/2016

7 - REDDITO DI CITTADINANZA? IN SVIZZERA IL 77% DICE NO
Il cavallo di battaglia dei 5 stelle in Italia è stato bocciato al referendum in Svizzera in quanto utopia collettivista e immorale
Autore: Stefano Magni - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 07/06/2016

Mentre in Italia si votava per le elezioni amministrative, i vicini svizzeri hanno respinto, con un referendum, la proposta di introdurre un reddito di cittadinanza. Promosso da un gruppo apolitico, appoggiato da Verdi e da alcune sezioni cantonali del Partito Socialista (fra cui quello del Canton Ticino, la Svizzera italofona), il referendum avrebbe voluto cambiare l'intero rapporto fra uomo e lavoro, realizzando un'utopia collettivista. In un dibattito pre-referendario, l'economista Sergio Rossi (uno degli ideatori del "reddito di base incondizionato") lo definiva una "utopia possibile". Gli svizzeri l'hanno respinta, per motivi morali più ancora che economici.

REDDITO DI CITTADINANZA: UTOPIA COLLETTIVISTA
Il reddito di base incondizionato, o reddito di cittadinanza, avrebbe regalato ad ogni cittadino, per il solo fatto di essere un cittadino, 2500 franchi al mese, pari a circa 2300 euro al cambio attuale. Ai minorenni sarebbero spettati 625 franchi al mese, circa 520 euro. E' anche difficile pensare alle ragioni di una misura simile. Da decenni, nei sistemi di welfare state occidentali, sono stati ideati e applicati altri tipi di sussidio: quello di disoccupazione, soprattutto, legato all'impiego, oppure aiuti ai meno abbienti. Mai è stato ideato un reddito di cittadinanza universale, completamente slegato sia dal lavoro che dal livello di benessere del beneficiario, ma solo al suo status di cittadino. I promotori del referendum lo hanno giustificato, principalmente, con tre argomenti. La nuova economia, basandosi sempre maggiormente sull'intelligenza artificiale (nella cittadina di Sion, nella Svizzera centrale, stanno sperimentando i primi bus senza conducente) è destinata ad emarginare fasce sempre più ampie di lavoratori divenuti "superflui". Secondo: con un reddito di base, una persona è in grado di spendere maggiormente i suoi soldi, alimentando il consumo e di conseguenza anche la produzione. Terzo: svincolandosi dalla necessità di lavorare di più per guadagnare il necessario, una persona può spendere più tempo per occuparsi della cosa pubblica e della famiglia (che verrebbe sostenuta anche grazie ai sussidi destinati ai minorenni). Claudia Crivelli Barella, gran-consigliera dei Verdi, una delle promotrici dell'iniziativa, essendo psicologa, ha spiegato come un reddito svincolato dal lavoro, possa anche liberare l'uomo dall'ansia della produttività. Cita Utopia di Tommaso Moro, quale sua fonte di ispirazione.
Gli argomenti dei promotori possono risultare affascinanti, soprattutto in linea con il pensiero economico più alla moda: la de-crescita che non misura più la crescita in base alla produttività, bensì alla felicità dell'uomo. La sua applicazione nella pratica avrebbe però provocato effetti collaterali che, fra gli svizzeri, hanno fatto pendere la bilancia a favore del No. Prima di tutto, come finanziare un sussidio simile? Secondo la stima dei suoi stessi promotori, avrebbe avuto un costo di 208 miliardi di franchi all'anno (circa 190 miliardi di euro). Chi paga? Ovviamente: chi lavora. La copertura era solamente parziale: 25 miliardi sarebbero mancati all'appello e per reperirli si sarebbe ricorsi ad una tassazione maggiore. Secondo problema: i calcoli sulla copertura sono stati effettuati sulla base della forza lavoro attuale. Ma se una persona riceve 2500 franchi al mese (sebbene siano commisurati a un costo della vita molto superiore a quello italiano), che incentivo ha di andare a lavorare tutte le mattine? Il rischio è quello di ritrovarsi, nel giro di meno di una generazione, con una minoranza di lavoratori costretta a lavorare per pagare sempre più tasse a favore di una maggioranza di nullafacenti. Meno lavoratori, vuol dire anche: meno produzione, meno servizi, minor stimolo all'innovazione e alla creatività.

UN CAVALLO DI BATTAGLIA DEL MOVIMENTO 5 STELLE
Nonostante la sconfitta, il reddito di cittadinanza è un progetto molto diffuso negli ambienti progressisti. In Italia una versione simile, anche se più ridotta nelle cifre e destinata ai soli meno abbienti, è un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Le idee della decrescita e la volontà di "cambiare il paradigma" dell'economia fanno presa soprattutto sulle élite. Persa questa battaglia, la "guerra" continuerà anche al di fuori dei confini elvetici.
La logica, non dichiarata, che si legge fra le righe degli argomenti a favore del Sì è quella dell'utopia comunista. L'uomo viene liberato dalla necessità del lavoro, la società intera si ri-fonda sul paradigma collettivista: "a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità". Ma chi redistribuisce? Il reddito di cittadinanza avrebbe violato uno dei principi cardine su cui si regge la Svizzera: quello della sussidiarietà. Per poter garantire a ciascuno il suo reddito di cittadino, lo Stato centrale avrebbe inevitabilmente preso il sopravvento sulle comunità locali. Ma soprattutto: chi produce la ricchezza che dovrebbe poi essere redistribuita? E qui subentra anche la questione morale. E' lecito che una persona si faccia mantenere? Che violi la fondamentale regola della reciprocità, in base alla quale percepisce un reddito in cambio del suo lavoro?

REDDITO DI CITTADINANZA? IN SVIZZERA IL 77% DICE NO
Benché un santo martire (Tommaso Moro) venga chiamato in causa e l'iniziativa possa piacere anche a non pochi cattolici, la Dottrina Sociale, in merito, parla chiaro. Da un punto di vista morale: "Nessun cristiano, per il fatto di appartenere ad una comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e di vivere a spese degli altri (cfr. 2 Ts 3,6-12); tutti, piuttosto, sono esortati dall'Apostolo Paolo a farsi «un punto di onore» nel lavorare con le proprie mani così da «non aver bisogno di nessuno» (1 Ts 4,11-12) e a praticare una solidarietà anche materiale, condividendo i frutti del lavoro con «chi si trova in necessità» (Ef 4,28). San Giacomo difende i diritti conculcati dei lavoratori: «Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti» (Gc 5,4). I credenti devono vivere il lavoro con lo stile di Cristo e renderlo occasione di testimonianza cristiana «di fronte agli estranei» (1 Ts 4,12) (264 Dottrina Sociale della Chiesa). Svincolare il reddito dal lavoro è non solo insostenibile, ma anche immorale. Anche per questo, il 77% ha seccamente respinto al mittente il reddito di cittadinanza.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 07/06/2016

8 - LETTERE ALLA REDAZIONE: NELLA MIA PARROCCHIA SI INSEGNA LA DOTTRINA COME DIO COMANDA
E con il ''campionato di catechismo'' si stimolano i bambini a imparare a mente le nozioni che gli rimarranno per tutta la vita
Autore: Giano Colli - Fonte: Redazione di BastaBugie, 07/06/2016

Gentile redazione,
ho letto l'articolo su BastaBugie n. 456 della settimana scorsa dal titolo "Ecco come mi sono vista costretta ad abbandonare l'insegnamento del catechismo che tanto amavo". Il titolo mi aveva molto incuriosita. Sono anche io catechista, di nuovo da qualche anno; lo sono diventata, orgogliosamente, tanto tempo fa, a quattordici anni, poi ho abbandonato dopo la prima figlia, anche io non riuscivo più a gestire lavoro, casa, famiglia. Mi sono resa conto, più tardi, che non era il Catechismo che dovevo lasciare, ma questa è un'altra storia e ve la racconterò un'altra volta!
Nostro Signore poi, come Sua abitudine, non si dimentica mai di noi, come io invece ahimè avevo fatto con Lui e nel 2013 sono stata ripescata da una rete amorevole, c'era bisogno di un aiuto per fare catechismo e ho ricominciato con una vecchia passione che mi ha totalmente cambiato la vita. Speravo in questo articolo di leggere di un'esperienza simile alla mia, e che questa, mi desse un'ulteriore spinta a non mollare, le difficoltà non mancano. Ma leggo di un'esperienza totalmente opposta alla mia. Vorrei con le mie parole, accendere una piccola scintilla di speranza in chi come noi, come me e come sicuramente la catechista che ha scritto l'articolo, vive nella continua ricerca del Signore.
Il ruolo del catechista, che magari spesso rimane in ombra, è un ruolo importante che Gesù stesso ci assegna ogni anno; sì perché nella mia piccola parrocchia, all'inizio dell'anno catechistico, il nostro sacerdote dà a tutti i catechisti il "mandato" per l'anno che sta per iniziare e lo fa presentandoci al popolo. Il catechista infatti non parla a nome proprio, ma insegna in nome della Chiesa e quindi non può autonominarsi catechista, né insegnare diversamente da quanto insegna la Chiesa da duemila anni.
Vorrei con questa lettera rispondere alla catechista che ha scritto l'articolo, per prima cosa, perché anche se la sua esperienza è molto diversa dalla mia, mi ha comunque dato la spinta per continuare, perché non possiamo chiudere gli occhi davanti a queste realtà che distruggono ogni sorta di tradizione e di spirito cristiano; e poi perché vorrei che chi legge questi articoli così illuminanti e ricchi di vita, sapesse che ci sono, anche se come piccole gocce nell'oceano, anche altre realtà dove l'insegnamento del catechismo viene vissuto, insegnato e tramandato come Dio comanda e la sua Santa Chiesa ci trasmette infallibilmente.
Nella mia parrocchia nel cuore della Toscana abbiamo un bel gruppo di catechisti e non mi vergogno a dire che io sono una delle più vecchie, nonostante abbia poco più di quarant'anni. Anche mia figlia, quasi 18enne lo insegna da quando ha ricevuto la cresima e l'altra mia figlia 13enne non vede l'ora di poter cominciare anche lei. Infatti, anche dopo la cresima si continua a vivere la parrocchia, frequentando i vari gruppi giovani esistenti. Un modo come l'altro per non far allontanare i nuovi "Soldati di Cristo" dal nostro "fortino". Si comincia avendo piccole-grandi mansioni, come essere di aiuto ai catechisti nelle varie feste per i ragazzi, poi affiancandoli nel catechismo come animatori; ogni catechista infatti ha a sua disposizione un giovane "soldato" come appoggio e supporto che sostenendolo impara anch'esso ad insegnare il catechismo. Voglio chiarire che tutto questo non è assolutamente un'autogestione, ma un lavoro di pazienza e supporto gestito dall'amorevole supervisione del parroco (anche lui abbastanza giovane). Ma la cosa più bella è che il nostro Sacerdote non ha creato gruppi solo per i giovani, c'è il "Gruppo Fidanzati" che dà un appoggio concreto a tutti quei ragazzi che vogliono vivere il loro amore come un cammino verso il matrimonio, e non è il corso prematrimoniale che poi è un'altra cosa, un passo successivo. Poi c'è il "Gruppo Sposi" dove siamo stati accolti da ormai un anno e mezzo anche io e mio marito, dove non solo riceviamo un sostegno a livello spirituale, ma dove abbiamo incontrato amici, famiglie che stanno facendo il nostro stesso "Viaggio" sempre con l'accompagnamento del sacerdote, esperto in umanità. Quante volte ho detto "Vi avessi incontrati prima!" ma se la Provvidenza ha deciso così ci deve essere sicuramente un ottimo motivo. Ecco, svelato l'arcano, come in tutte le famiglie che si rispettano, anche nella parrocchia il trucco sta tutto qui, abbiamo un padre che ci guida, che ci indica la via e che dirige l'orchestra, fa quello che deve fare il sacerdote, guida le anime e le aiuta nel cammino verso la santità.
Una delle attività a mio avviso più "geniali" della mia parrocchia è il Catechismo per Adulti: un'ora a settimana, un gruppo di persone di tutte le età e non necessariamente catechisti, il sacerdote e il Catechismo della Chiesa Cattolica da lui letto, spiegato e commentato. E quante cose non si sanno, si sono dimenticate o non ci sono chiare! Il catechismo non è roba da bambini, e soprattutto non si finisce mai di imparare! Per me, poi, che avevo abbandonato la pratica religiosa, si è dimostrato estremamente necessario anche per riprendere a fare la catechista. Infatti tutto quello che diciamo ai bambini rimane stampato nelle loro morbide menti e deve essere la Verità; parlare di Gesù, del Suo sacrificio per noi, della Sua morte in croce, della resurrezione e del fatto che Lui ha sconfitto per sempre la morte deve diventare per noi un linguaggio familiare e rassicurante, i bambini devono respirare la Verità, devono sentire nelle nostre parole l'emozione per un miracolo che si rinnova ogni volta, devono vedere nei nostri occhi rivolti verso la croce una dolcezza pari a quella della mamma che guarda la sua creatura, perché solo nella croce vive il vero amore e non c'è nessuna Verità più assoluta; il nostro Creatore si è fatto Uomo per morire di Amore per noi.
Il nostro parroco ha poi avuto la bella idea di far fare ai bambini che si preparano alla prima comunione il campionato di catechismo. Come si svolge? E' molto semplice. All'inizio dell'anno viene consegnata una scheda con tutte le verità di fede da imparare a memoria: i dieci comandamenti, i novissimi, i cinque precetti generali della Chiesa, le opere di misericordia corporale e spirituale, le virtù cardinali e teologali, i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, i sette vizi capitali, i sei peccati contro lo Spirito Santo, i sette doni dello Spirito Santo. Durante l'anno tutte queste cose vengono spiegate dettagliatamente durante il catechismo e fatte imparare a memoria. Poi la catechista a fine lezione fa un piccolo torneo tra coppie di bambini che devono rispondere alle domande su ciò che si è imparato. Alcuni sono talmente bravi che sanno tutte le cose a memoria anche in ordine inverso oppure rispondono anche a domande difficili e a bruciapelo, tipo "Dimmi la quarta opera di misericordia spirituale", oppure "Dimmi in ordine i sei peccati contro lo Spirito Santo". A fine anno c'è il torneo finale dove il sacerdote stesso viene a dirigere il gioco e come premio la coppia vincente viene segnalata come tale nel giornalino parrocchiale. Vedessi come i bambini si sforzano di imparare tutto a memoria, che poi saranno le uniche cose (insieme alle preghiere del cristiano) che gli resteranno nella memoria per tutta la vita.
Un'altra cosa di cui ormai abbiamo sperimentato l'importanza è la divisione delle classi in maschili e femminili. Ad esempio io ho le bambine della prima comunione ed ho visto l'enorme differenza che hanno rispetto ai maschietti. Le bambine sono interessate molto agli argomenti della dottrina che propongo ogni volta, fanno domande continue e con loro un'ora passa via velocemente. Soprattutto vogliono capire cosa c'è dopo la morte, cosa sono i peccati mortali, come ci si confessa bene. Sono inoltre affascinate dai miracoli eucaristici con cui ogni volta termino l'ora di catechismo. Insomma capiscono bene cosa sono le cose importanti della nostra bella fede ed è importante rispondere bene e approfondire ogni argomento che stimola la loro curiosità, magari rimandando alla volta successiva la cosa che si era preparata per quella lezione. I maschietti invece reggono meno l'attenzione verso un argomento e sono molto movimentati. Se gli si promette che poi si portano a giocare a pallone, magari ascoltano di più e per più tempo (in ogni caso, al massimo, circa la metà rispetto alle bambine). Invece nelle classi miste tendono a fare più confusione e ad annoiarsi rendendo molto meno e dando fastidio alle bambine che non possono fare tutte le domande che vogliono a causa della confusione e dei continui richiami dei catechisti.
In conclusione, cara catechista, prego che Dio ci aiuti a continuare in qualche modo la nostra passione per l'insegnamento della Dottrina e che non ti senta mai sola, perché Dio non ci lascia mai anche quando tutti gli altri lo fanno. Penso che ogni Cristiano dovrebbe avere una vocazione divina, ricevuta in dono con il Battesimo, che lo faccia partecipare alla missione della Chiesa; a questo proposito, proprio oggi leggevo una frase bellissima di San Josemaria Escrivà,fondatore dell'Opus Dei: "Che la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile. Lascia traccia. Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore. Cancella, con la tua vita d'apostolo, l'impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell'odio hanno lasciato. E incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore."
Ricordiamoci che Dio chiama tutti i battezzati alla pienezza della santità. L'unico modo per non perdere la strada, quindi, è alzare sempre gli occhi verso il Cielo.
Samantha

Cara Samantha,
non aggiungerò nulla per non rovinare ciò che esprime la tua bella mail, anzi credo di interpretare il pensiero di molti nostri lettori ringraziandoti per averci raccontato quella che sembra solo una fiaba di altri tempi. E invece fa veramente piacere sapere che ci sono ancora parrocchie così. Sono certo che in realtà ce ne siano più di quante potrebbe sembrare a prima vista. Basta cercarle ed essere disposti a fare qualche chilometro in più per far frequentare ai propri figli (e, perché no, a noi stessi) delle belle comunità cristiane fedeli al Vangelo e alla dottrina di sempre della Chiesa.
Per chi volesse leggere l'articolo a cui ha replicato la nostra lettrice, ecco il link:
ECCO COME MI SONO VISTA COSTRETTA AD ABBANDONARE L'INSEGNAMENTO DEL CATECHISMO CHE TANTO AMAVO
Divieto di presentare ai bambini la dottrina cattolica e nuove strategie: cronaca di un ordinario fallimento parrocchiale
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4243

DOSSIER "BIMBI, MESSA E CATECHISMO"
Come si sta in chiesa e come si studia la dottrina

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DOSSIER "LETTERE ALLA REDAZIONE"
Le risposte del direttore ai lettori

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Fonte: Redazione di BastaBugie, 07/06/2016

9 - OMELIA XI DOMENICA T. ORD. – ANNO C (Lc 7,36-8,3)
Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato
Fonte Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 12 giugno 2016)

Siamo tutti poveri peccatori e abbiamo tutti bisogno della salvezza e del perdono di Dio. Di questo perdono parlano le letture di oggi, insegnandoci quelle che devono essere le nostre disposizioni per poter ottenere la Misericordia divina. Iniziamo con la seconda lettura. San Paolo apostolo, scrivendo ai Galati, insegna che, per essere salvati, innanzitutto dobbiamo avere fede in Dio e nel suo Figlio Unigenito che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi (cf Gal 2,20). In poche parole, dobbiamo avere quelle disposizioni che esprimiamo nella stupenda preghiera dell'atto di fede: «Mio Dio, poiché sei verità infallibile, credo fermamente tutto quello che tu hai rivelato e la santa Chiesa ci propone a credere. Ed espressamente credo in te, unico vero Dio in tre Persone uguali e distinte, Padre, Figlio e Spirito Santo. E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Conforme a questa fede voglio sempre vivere. Signore, accresci la mia fede». La fede è talmente importante che lo stesso sacramento della Riconciliazione avrà effetto in noi, donandoci il perdono di Dio, solo se crediamo alle verità fondamentali espresse da questa preghiera.
La prima lettura ci insegna, invece, ad avere umiltà. Per essere perdonati da Dio, dobbiamo umilmente riconoscere i nostri errori. È quanto ha fatto Davide. Egli aveva gravemente peccato, diventando adultero e omicida. Grazie poi all'intervento del profeta Natan, egli riconobbe umilmente i propri errori e fece penitenza. Allora disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13). L'umiltà è così importante che nulla piace a Dio senza di essa. Essa è come una potente calamita che attira la grazia di Dio e il suo perdono. Umiltà è verità, affermava santa Teresa d'Avila, è riconoscere senza attenuanti le nostre colpe. Se uno si accusa, Dio lo scusa; se, al contrario, non fa altro che giustificarsi, egli dimostra chiaramente di essere lontano dalla verità. Sbagliano tutti quelli che dicono di non aver peccati da confessare. I peccati sono come la polvere: quanto più ci si avvicina alla luce, tanto più si vedranno. La Chiesa, inoltre, ci fa ripetere uno stupendo atto di umiltà al momento culminante della Santa Messa, prima di ricevere la Comunione. In quel momento ripetiamo l'atto di umiltà del Centurione, e diciamo: «O Signore non sono degno di partecipare alla tua Mensa, ma di' soltanto una parola e io sarò salvato». Ripetiamo queste parole con attenzione e convinzione.
Passiamo ora al Vangelo. Esso ci riporta l'episodio della donna peccatrice che lava con le sue lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli, cospargendoli di profumo. Questo episodio ci insegna la carità che noi dobbiamo avere innanzitutto nei confronti di Dio. Esistono due tipi di pentimento. C'è il pentimento imperfetto, la cosiddetta attrizione, che deriva dalla paura dei giusti castighi di Dio. Certamente questo pentimento non è l'ideale per i cristiani, ma è pur sempre una grazia ed è sufficiente per ricevere il perdono di Dio nel sacramento della Riconciliazione. Vi è poi il pentimento perfetto, che si chiama contrizione, che nasce non dal timore, ma dall'amore di Dio. Ci si pente non per paura dell'inferno, ma perché si ama Dio e ci dispiace sommamente di averlo offeso con il peccato. Questo è l'ideale per i cristiani. È certamente una grazia, grazia che dobbiamo domandare con fiducia ogni giorno nella preghiera. Quando recitiamo l'Atto di dolore diciamo: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa».
Fede, umiltà e carità. Sono queste le disposizioni fondamentali per ricevere il perdono e la salvezza di Dio. Queste disposizioni le ritroviamo in un episodio che leggiamo nella vita di sant'Antonio da Padova. Si racconta che un giorno un grande peccatore andò a confessarsi dal Santo, dopo avere ascoltato una sua predica. Il pentimento del peccatore era così vivo che gli impedì di parlare per i continui singhiozzi. Sant'Antonio allora gli disse: «Va', figlio, scrivi i tuoi peccati poi ritorna». Il penitente andò, scrisse i peccati su un foglio, tornò dal Santo e gli lesse la lista delle colpe. Quale non fu la sorpresa, però, quando alla fine della lettura si accorse che il foglio era tornato bianco, senza più traccia di scrittura.
Così avviene nella nostra anima. Se accuseremo i nostri peccati con fede, umiltà e carità, la nostra anima ritornerà bianca come la neve.

Fonte: Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 12 giugno 2016)

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