BastaBugie n�558 del 09 maggio 2018

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1 PRIMA DI ALFIE IL GIUDICE HAYDEN AVEVA GIA' CONDANNATO A MORTE ALTRI BAMBINI E ANZIANI
Alfie è l'ennesima vittima del socialismo sanitario che non poteva permettere al bambino di trovare una cura migliore fuori dal proprio sistema sanitario nazionale
Autore: Benedetta Frigerio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
2 DIRITTO A MORIRE & DOVERE DI UCCIDERE
Tommaso Scandroglio critica la legge italiana sul testamento biologico che obbliga medici e infermieri a praticare l'eutanasia cioè, in pratica, a uccidere un innocente (VIDEO: Tommaso Scandroglio)
Fonte: Amici del Timone di Staggia Senese
3 L'IMMIGRATO COME PROLETARIO CULTURALE DA SFRUTTARE PER SCOPI POLITICI
La sinistra ha sempre bisogno di proletari perché rappresentano la massa di manovra da lanciare contro il sistema (un tempo i proletari erano le masse operaie, oggi sono gli immigrati)
Fonte: Tradizione Famiglia Proprietà
4 GLI UOMINI NON SONO ROBOT
L'uomo ha intelligenza, libertà, linguaggio, mentre i più progrediti robot non sono vivi, non pensano, non amano
Autore: Francesco Agnoli - Fonte: Libertà e Persona
5 IL GIRO D'ITALIA E LE CROCIATE
Il paragone azzardato del direttore della Gazzetta dello Sport non tiene conto della vera storia delle Crociate, ma della leggenda nera creata dalla propaganda anticristiana
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
6 QUATTRO AZIONI PER FERMARE I GAY PRIDE
Altre notizie dal mondo gay (sempre meno gaio): trans nelle quote rosa, il ritratto di Oscar Wilde che la vulgata gay nasconde, in Belgio la Chiesa dà l'ok agli atti gay
Autore: David Botti - Fonte: Osservatorio Gender
7 L'ABORTO SPINGE LE DONNE VERSO IL SUICIDIO
La depressione post partum è un'inezia rispetto alla sindrome post aborto, una tragedia taciuta e ignorata (VIDEO: testimonianza di chi ha abortito)
Fonte: Notizie ProVita
8 COSA DIRE QUANDO CI SI CONFESSA
Bisogna distinguere tra oggetto obbligatorio e necessario oppure consigliato e raccomandato
Autore: Don Leonardo Maria Pompei - Fonte: Il settimanale di Padre Pio
9 OMELIA ASCENSIONE - ANNO B (Mc 16,15-20)
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato
Fonte: Il settimanale di Padre Pio

1 - PRIMA DI ALFIE IL GIUDICE HAYDEN AVEVA GIA' CONDANNATO A MORTE ALTRI BAMBINI E ANZIANI
Alfie è l'ennesima vittima del socialismo sanitario che non poteva permettere al bambino di trovare una cura migliore fuori dal proprio sistema sanitario nazionale
Autore: Benedetta Frigerio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 03/05/2018

«I suoi genitori sono stati semplicemente incapaci di accettare che la macchina della ventilazione venisse spenta... (il padre) si aggrappa a qualsiasi segno che possa minare queste conclusioni mediche catastrofiche, indicando il movimento e la ritrazione delle gambe, che sono reazioni spinali e non cerebrali». No, non sono le parole riferite al papà di Alfie Evans, Thomas, dal giudice dell'Alta Corte di Londra, Anthony Hayden. Ma quelle rivolte ad un'altra famiglia dallo stesso giudice che ha condannato Alfie. Il succo però è identico: i movimenti del bambino sono reazioni meccaniche, quindi non provano che il suo cervello sia ancora attivo. Peccato che Alfie abbia smentito il ritornello del giudice in mondovisione.

CLINICAMENTE MORTO?
Il pronunciamento del 2015 di Hayden riguarda appunto la famiglia di un bambino di 19 mesi ricoverato il 6 febbraio dello stesso anno dopo un principio di soffocamento causato dall'ingerimento di un gambo di mandarino che i medici avevano faticato a rimuovere dopo il ricovero. A seguito di numerosi tentativi di liberare le vie respiratorie presso il Royal Manchester Children's Hospital, al piccolo stava per essere applicata la tracheostomia. Ma in seguito ad un arresto cardiaco i medici lo avevano rianimato e ventilato per poi chiarire che però era rimasto troppo a lungo senza una dose di ossigeno sufficiente, per cui fu dichiarato "clinicamente morto". In ogni caso il bambino continuava a muoversi e a respirare con l'ausilio della ventilazione.
A quel punto suo padre aveva chiesto che il piccolo fosse trasferito per ulteriori trattamenti in un ospedale dell'Arabia Saudita, sicuro che lì non avrebbero rimosso i supporti vitali. L'amministrazione ospedaliera invece che permettere il trasferimento, lasciando alla famiglia la libertà di scegliere dove curare il figlio e di fare un ulteriore tentativo, l'ha trascinata in tribunale.
Hayden ha avuto il coraggio di dire che «devo fare una dichiarazione su quello che ora considero come un corpo». E poi ha aggiunto: «Parlare di best interest è quindi superfluo, ma rispettare la sua giovane e breve vita, la sua dignità ed autonomia, mi richiede di fare a breve la cosa giusta». Infine, come da copione già sentito, Hayden ha sentenziato: «Pur esprimendo rispetto profondo per le opinioni del padre ora è giunto il momento di spegnere la macchina della ventilazione». Le stesse parole furono rivolte al papà di Alfie. E non è una coincidenza.

MORTE PER SOFFOCAMENTO
Nel luglio del 2016 i genitori di un altro bambino di 3 mesi e mezzo si erano opposti alla volontà del Northampton General Hospital di rimuovere la ventilazione del loro bambino. L'ospedale era quindi ricorso contro i genitori chiedendo all'Alta Corte di Londra di giudicare del best interest del piccolo. Sempre Hayden aveva spiegato che, siccome il bambino soffriva fin dalla nascita di un tipo di atrofia muscolare spinale definita incurabile dai medici, doveva essere estubato. La famiglia aveva ribattuto che non era ancora giunto il momento per il figlio di morire, anzi sua madre aveva definito il piccolo "incredibile", un "combattente". Anche in questo caso il giudice aveva elogiato i genitori, ammettendo che il bambino «non avrebbe potuto avere difensori più forti dalla sua parte... i suoi genitori hanno portato raggi di sole nella sua vita».
Ma ovviamente ha chiarito che non bisognava solo tenere conto dell'importanza della vita, ma anche della sua qualità. L'autonomia e la dignità del bambino andavano rispettate. Come? Con la morte per soffocamento: il giudice Hayden autorizzava l'ospedale a rimuovere la ventilazione. Di fronte alla sentenza la madre di 22 anni del bambino era scoppiata a piangere.

RIAVVIARE UNA VITA CHE È GIÀ TERMINATA?
Era invece il 2013 quando una famiglia perdeva il ricorso in appello affinché un loro parente di 72 anni non fosse privato dei sostegni vitali. Secondo Hayden, lasciare che l'uomo fosse alimentato, idratato e ventilato significava «riavviare una vita che è già terminata». Ora, a parte il fatto che pensare che un macchinario possa resuscitare una persona è quanto meno delirante, il giudice riaffermava che la vita di quest'uomo, siccome malata, era già finita da un pezzo.
Non a caso il giudice aveva fatto notare che, oltre ad aver subito un ictus, l'uomo soffriva di diabete e di problemi renali. Per questo doveva camminare con l'aiuto di un ausilio e dipendeva in tutto dalla sua famiglia, ancor di più dopo l'attacco di polmonite che aveva peggiorato la situazione clinica dell'uomo.
Era bastato questo a spingere i medici a parlare alla famiglia della possibilità legale di non rianimare l'uomo in caso di una crisi (Do not resuscitate act). I familiari avevano risposto che non avrebbero accettato un'omissione di soccorso. [...] Ma dopo aver elogiato la famiglia per essersi presa cura «del padre affinché vivesse una vita ricca e felice nonostante le sue condizioni», Hayden aveva stabilito che l'ospedale poteva negare i trattamenti all'uomo in caso di una crisi. Perché, aveva ripetuto un'altra volta il giudice, «questo non servirebbe a prolungare la vita ma a farla ricominciare quando ormai si è fermata».

NON SOLO INTOLLERABILI
Ma non è che Hayden dia ragione solo e sempre alle istituzioni sanitarie. Perché nel caso di una donna di 74 anni, affetta da demenza senile e ricoverata in una clinica (Salford Royal NHS Foundation Trust), nel 2017 novembre 2017 il giudice ha dato ragione alla figlia di una donna che chiedeva la rimozione dell'alimentazione e dell'idratazione della madre. La figlia aveva cercato in tutti modi le prove per affermare che sua mamma preferiva la morte a quella condizione. Dopo diverse ricerche aveva trovato una email di quattro anni prima in cui, dopo aver visto un programma sulla demenza senile, la madre le scriveva così: «Se divento così... prepara un cuscino».
Ma l'infermiera e la clinica che avevano in cura la donna avevano sollevato dei sospetti sulla figlia e su altri familiari opponendosi alla richiesta di eutanasia. Respingendo l'invito della clinica a ricordare che era nell'interesse della donna essere nutrita ed idratata per vivere, Hayden è poi stato irremovibile. E alla fine dell'anno scorso, parlando come se la donna fosse già morta, ha sottolineato che lei «avrebbe giudicato le sue attuali condizioni non solo intollerabili ma umilianti».
Come però riportato dal Daily Mail questo è solo uno dei moltissimi casi, sebbene in maggioranza non siano pubblici, che finiscono con la morte per autorizzazione giudiziaria tramite un protoccolo processuale identico, ripetuto, quindi già stabilito. Il problema non è quindi appena di Alfie, il piccolo martire scelto dal Signore per scoperchiare il vaso di Pandora della cultura della morte, ma di tutte le vittime di un sistema giudiziario democraticamente eugenetico.

Nota di BastaBugie: Marco Respinti nell'articolo sottostante dal titolo "Alfie, ennesima vittima del socialismo sanitario" spiega perché Alfie è stato prigioniero di un Paese libero, occupato dal socialismo medico-giuridico. L'articolo è stato scritto prima della morte di Alfie e ipotizza che se per caso potesse lasciare Liverpool e poi trovasse un'assistenza medica migliore fuori dal Regno Unito, sarebbe un imbarazzo umiliante per lo Stato che porta in palmo di mano proprio il suo sistema sanitario nazionale.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 27 aprile 2018:
Alfie Evans è un'altra, nuova, ennesima vittima del socialismo. Lo spiega acutamente Kira Davis, giornalista di RedState, uno dei più seguiti portali conservatori statunitensi "di base", nell'articolo This Is the Real Reason Britain Won't Release Alfie Evans to Italy, cioè "Ecco il vero motivo per cui la Gran Bretagna non permette al piccolo di venire in Italia". Proviamo leggerlo assieme.
Come tutti sanno, il 19 dicembre l'Alder Hey Children's Hospital di Liverpool, il nosocomio dove Alfie è ricoverato e ben noto per precedenti a dir poco scandalosi, accampando una scusa farlocca di accanimento terapeutico sbugiardata da chi è del mestiere, ha presentato domanda all'Alta Corte di Giustizia d'Inghilterra e Galles al fine di sottrarre la genitorialità a Thomas Evans e a Kate James, chiedendo al contempo di sospendere la ventilazione del piccolo, e il 20 febbraio quell'aula ha accolto la richiesta. Da allora Alfie è nelle mani del servizio sanitario nazionale (NHS) e dei tribunali del Regno Unito che gli hanno negato il diritto di espatriare, per esempio in Italia, di cui è diventato cittadino, e che hanno in tutti i modi cercato di procurarne la morte in un Paese dove l'eutanasia è illegale. Alfie è insomma stato sequestrato e condannato a morte per non avere commesso alcun reato dall'istituzione che dovrebbe garantire l'assistenza medica e da quella che dovrebbe assicurare la giustizia. E questo nonostante il bambino sia stato capace di sopravvivere diverse ora a un primo distacco del sistema di aerazione.
«Perché?», si domanda la Davis. Anzitutto, perché, quando «[...] un Paese vota per un sistema sanitario socialistico, dà il consenso allo Stato affinché esso tratti le vite come degli algoritmi». Per la cronaca, l'istituzione dell'NHS, grande battaglia dei Laburisti, avvenne nel 1946, tra l'altro sulla scia delle idee di Benjamin Moore (1867-1922), un biochimico di Liverpool, che nel 1912 creò la State Medical Service Association, proseguita poi nella Socialist Medical Association a partire dal 1930. Cosa c'è di male in un sistema sanitario nazionale come quello britannico? Che costa, spreca e non garantisce assistenza medica, come rilevano gli esperti da tempo, addirittura posizionandosi ai livelli più bassi nella classifica del mondo industrializzato, e questo non per caso, bensì appunto perché è socialista. Il tutto è divenuto persino un caso di studio da parte di addetti ai lavori per i quali il sistema sarebbe in verità solo semi-socialista (lo è negli scopi, per esempio) mancando il Regno Unito delle strutture tipiche di un Paese del tutto socialista. Insomma, quello sanitario britannico è un socialismo che per di più non funziona...
Come ragiona ora l'NHS? Con la logica del letto di Procuste: mantenere in vita Alfie costa, i soldi sono pochi, quindi risparmiamoli per quelli che hanno più aspettativa di vita. Se infatti il metro di giudizio è «[...] il denaro anziché le vite, il rischio che la società si assume», dice la Davis, è quello esemplificato dal "caso Alfie". Infatti, «molto semplicemente, il sistema sanitario nazionale britannico non è in grado di reggere la prospettiva estremante dispendiosa del mantenimento in vita di un bimbo che, date le condizioni irreversibili di salute, probabilmente non vivrà comunque molto più a lungo». Quindi è ovvio che lo Stato non faccia ciò che non «[...] vale lo sforzo profuso». Di una logica agghiacciante.
Quello che invece «[...] non è logico ed è anzi sostanzialmente incomprensibile è la decisione del tribunale non solo di negare ad Alfie le cure, ma anche di negare a lui e ai suoi genitori il diritto di lasciare il Paese per cercare cure altrove». Avrebbe un senso minimo, per quanto cinico, se lo spostamento pesasse, anche solo di qualche ghinea, sul bilancio dell'NHS, cioè «sarebbe un problema di quel fastidioso algoritmo». Ma l'agognato viaggio in Italia lo sosterrebbero le donazioni raccolte e lo Stato italiano. Anzi, liberarsi di Alfie avrebbe sgravato l'NHS di costi e fatiche. Invece niente, porte chiuse violando il più basico principio di democrazia e libertà.
Alla Davis questo ricorda un vecchio documentario sul Muro della vergogna di Berlino, in particolare un'intervista a uno degl'ingegneri costruttori che, con grande sincerità, disse: «Il muro abbiano dovuto costruirlo. Troppe persone stavano andandosene in Occidente e per far funzionare il socialismo c'era bisogno di gente. Abbiamo dovuto costruire il muro per tenerli dentro di modo che vedessero quanto era grande il socialismo, vedessero che funziona». Eccolo il motivo dell'accanimento del sistema sanitario nazionale e dei tribunali britannici contro Alfie e contro i suoi genitori: «[...] impedire ai propri liberi cittadini di lasciare il Paese». Perché se fosse loro consentito di «[...] abbandonare le conseguenze strazianti del socialismo, allora anche altri vorrebbero fare lo stesso. Ma come può funzionare un sistema socialista senza la cooperazione di tutti? E come si fa a costringere la gente a cooperare a quel sistema socialista quando essa si accorge che tale sistema può anche uccidere loro o i loro cari?». Facile, «si costruisce un muro». In Gran Bretagna i tribunali hanno cominciato a erigerne uno, adulterando e strumentalizzando la legge. «Proprio come la Germania Est non poteva tollerare la massiccia fuoriuscita di chi se ne andava portandosi dietro la propria professionalità, il proprio intelletto e il denaro con cui avrebbe pagato le tasse, il sistema sanitario britannico non può tollerare la defezione di coloro che potrebbero trovarne uno migliore altrove». Magari quel posto non è esattamente l'Italia dell'eutanasia tra le righe, ma la Davis non lo sa.
Alfie è insomma prigioniero di un Paese libero, occupato dal socialismo medico-giuridico. Perché se per caso potesse lasciare Liverpool e poi trovasse un'assistenza medica migliore fuori dal Regno Unito, «sarebbe un imbarazzo umiliante per uno Stato che porta in palma di mano il proprio sistema sanitario socialistico come fosse una delle meraviglie del mondo occidentale. Non solo sarebbe costretto ad ammettere che i propri dottori e i propri burocrati hanno sbagliato nel negare cure salvavita al bambino, ma dovrebbe pure scendere a patti con le centinaia, forse migliaia di altri cittadini che vogliono lasciare le catene degli algoritmi dell'NHS in cerca di un'assistenza sanitaria più rapida e moderna».
La gente, spiega ancora la Davis, vive del falso mito secondo cui negli Stati Uniti, Paese che non ha un sistema sanitario nazionale di tipo socialistico come quello britannico, «[...] chi non ha un'assicurazione sulla salute non riceve per nulla cure o trattamenti costosi». Il "caso Alfie" mostra esattamente il contrario. «Domandate a chiunque qui [negli Stati Uniti] e nove volte su dieci vi risponderanno che darebbero fino all'ultimo dollaro, venderebbero qualsiasi bene, pagherebbero debiti per il resto dell'esistenza per salvare la vita di qualcuno che amano piuttosto che starsene seduti senza speranza mentre il loro Stato condanna quella persona alla morte solo perché "non è degna" della vita». Se lo Stato controlla l'assistenza medica, ragiona la Davis, finisce poi per controllare quanto vale la vita di ognuno di noi per le persone che amiamo. Prendiamo il Canada, dove la Davis è nata è dove vige un sistema sanitario nazionale socialistico tipo quello britannico: come mai ogni anno un numero enorme di canadesi si reca negli Stati Uniti per operazioni e cure nonostante paghi tasse nel proprio Paese per essere assistito?
Alfie Evans, e Charlie Gard prima di lui, sono diventati «[...] agnelli sacrificali sugli altari dell'orgoglio e del socialismo», e questo è «[...] nient'altro che vero, concreto, genuino male». Sì, questa economia uccide.


DOSSIER "L'EUTANASIA DI ALFIE EVANS"
Cultura della vita contro cultura della morte

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Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 03/05/2018

2 - DIRITTO A MORIRE & DOVERE DI UCCIDERE
Tommaso Scandroglio critica la legge italiana sul testamento biologico che obbliga medici e infermieri a praticare l'eutanasia cioè, in pratica, a uccidere un innocente (VIDEO: Tommaso Scandroglio)
Fonte Amici del Timone di Staggia Senese, febbraio 2018

La interessantissima 88° conferenza organizzata dal "Centro Culturale Amici del Timone" di Staggia Senese si è svolta il 23 febbraio con ospite Tommaso Scandroglio, ex docente di etica e bioetica all'Università Europea di Roma. Tema della serata sono state le DAT (Disposizioni anticipate di trattamento) e l'eutanasia.
Scandroglio ha spiegato i vari modi di praticarla e soprattutto la differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico. L'eutanasia può essere praticata attraverso un'azione oppure un'omissione che conduce la persona alla morte. E' eutanasia attiva praticare una puntura letale, aiutare una persona che non può farlo da sola ad assumere un preparato letale, staccare il respiratore, togliere alimentazione e idratazione. Si parla invece di eutanasia passiva, o meglio omissiva, nel caso in cui si neghino le cure o i mezzi per il sostentamento. In ogni caso entrambe conducono alla stessa cosa: l'uccisione dell'innocente.
Scandroglio ha poi spiegato che cosa si intende per accanimento terapeutico, dato che nella legge appena approvata sulle DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) si legalizza l'interruzione di alimentazione e idratazione ai malati proprio lasciando intendere che questi trattamenti lo siano. Niente di più falso. Alimentare e idratare chi non ce la fa a mangiare e bere in altro modo, oppure aiutare a respirare attraverso un macchinario, sono tutte terapie salvavita. E queste non sono mai accanimento terapeutico.
Neanche nel caso in cui una persona rifiuti le terapie oppure queste lo aiutino a stare meglio ma non lo fanno guarire, si può parlare di accanimento terapeutico. Questo, ha continuato con la sua chiara esposizione Scandroglio, si ha soltanto quando le terapie sono inutili. Ad esempio se gli effetti negativi superano quelli positivi o nel caso in cui la condizione specifica del paziente renda vane o pericolose le terapie, come nel caso di una persona molto anziana.
Con la legge sulle DAT, approvata il 31 gennaio in Parlamento, chiunque potrà dare il suo consenso a morire o nel caso di incapacità a farlo qualcun altro potrà decidere per lui oppure chiunque vorrà potrà scrivere nero su bianco la sua volontà di non ricevere le cure, oppure di non essere aiutato a vivere in futuro. Per la verità il testo di legge è così generico che non sono citate le motivazioni e le condizioni in cui una persona può chiedere che gli venga praticata l'eutanasia. Non solo i pazienti terminali, ma anche quelli che possono guarire, i disabili, i sani, gli anziani possono accedere all'eutanasia. Potrebbe anche succedere che una persona in un forte stato di depressione la richieda. Come si vede l'Italia ha superato in un solo balzo nella cultura della morte le altre nazioni che hanno leggi eutanasiche.

ULTERIORI PROBLEMI
Ma sono anche altre le problematiche insite in questa legge. Il fatto di decidere ora per allora, che non tiene conto del fatto che una decisione presa in uno stato di salute può notevolmente cambiare se presa durante la malattia. L'impossibilità di tornare indietro e cambiare idea, se la persona che aveva scritto precedentemente le DAT si trova attualmente in uno stato di incoscienza. Per risolvere questo problema in alcuni paesi hanno tentato di far scrivere le DAT appena una malattia inizia. Ma questo non tiene conto dello stato psicologico di angoscia di una persona che scopre di essere malata che non la farebbe decidere lucidamente e poi nessuno è in grado di stabilire se potranno esserci delle terapie più risolutive in futuro. Inoltre questa decisione non viene supportata dalle necessarie informazioni mediche e senza l'apporto di un medico i termini usati per esprimersi saranno sicuramente vaghi, dato che non tutti padroneggiano i termini tecnici, quindi ci sarà un problema di interpretazione. Per giunta questa legge viene applicata anche ai minori e agli incapaci, per i quali decideranno i genitori o i tutori.
Un ulteriore grave problema della legge sull'eutanasia è che non è prevista per i medici e gli infermieri alcun tipo di obiezione di coscienza. Anzi, nel testo c'è scritto chiaramente che il medico che riceve un paziente che abbia redatto le DAT oppure che lo richieda nell'immediato, è obbligato ad eseguire la sua volontà. Con tanti saluti al Giuramento d'Ippocrate (420 a.C.) con il quale il medico prometteva di ricercare sempre la tutela della vita sopra ogni cosa: "Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio".
Da sottolineare, come già accennato, che una legge così permissiva e poco normata non c'è nemmeno in Canada, Paesi Bassi e Belgio, i paesi in cui da più tempo l'eutanasia è depenalizzata. Le uniche due cose esplicitamente vietate nella legge in Italia sono l'iniezione letale e il suicidio assistito perché sono considerate da tutti, nell'immaginario collettivo, molto simili all'omicidio.
Va notato poi che nella legge c'è un'omissione. La ventilazione, cioè l'aiuto a respirare dato attraverso un macchinario, non viene citata dalla norma. Ciò significa che questa pratica potrà essere effettuata oppure no in base alla valutazione del singolo. Del resto ce n'è stato già un esempio: ad una signora di Nuoro è stato staccato il respiratore e non si è sollevata alcuna contestazione.

DRAMMA ETICO
Purtroppo si rimane sconvolti da come ci sia chi possa considerare un bene, una vera e propria terapia, far morire di sete e di fame una persona. Rimane anche la preoccupazione per una legge tutta basata sull'individualismo e sul nichilismo che apre le porte ad una libertà sfrenata del singolo. Una volta che l'eutanasia è depenalizzata, una volta che sia passato il messaggio che in alcuni casi è giusto "liberare" una persona facendola morire, chi controllerà se la legge viene applicata con i dovuti divieti? E poi la mentalità stessa delle persone verrà plasmata in modo che alle generazioni future sembrerà del tutto normale la decisione di morire. Del resto abbiamo già visto con l'aborto come questo, dopo l'introduzione della legge, sia diventato una cosa del tutto normale nella mentalità comune.
Lo spartiacque, ha commentato Scandroglio, che determina la differenza fra chi è favorevole e chi contrario all'eutanasia, è dato dalla diversa visione antropologica, cioè da come si considera la persona umana. Se l'uomo è solo corpo, quando il corpo si guasta diminuisce la sua qualità e quindi si può, anzi sarebbe meglio, buttarlo. Proprio come si fa con un oggetto. Eppure persino negli oggetti noi riconosciamo un valore intrinseco. Una spilla non varrà mai quanto una Ferrari, e questo valore resta persino di fronte al danneggiamento dell'oggetto. Ed esiste anche un principio di proporzione per cui ci si comporta in modo proporzionato all'oggetto che si ha di fronte; sarà più grave distruggere la Ferrari che la spilla. Tanto più questo valore intrinseco ce l'ha la persona vivente ed è rappresentato dalla sua dignità.
In base al solo criterio fisico non siamo tutti uguali e tutti efficienti allo stesso modo e quindi non abbiamo neppure la stessa dignità. Ma se crediamo che ciascuno di noi ha un'anima razionale che risiede in ambito metafisico (concetto filosofico utilizzato per la prima volta da Aristotele, filosofo pre-cristiano) crediamo anche che l'anima, essendo immateriale non sia corruttibile e, quindi, non può mai cambiare di qualità. Ecco che allora la persona riacquista la dignità, qualunque sia la sua condizione fisica. Questo pensiero che il cristianesimo ha portato avanti con vigore ha informato di umanità tutte le culture con cui esso è entrato in relazione, in primis la civiltà occidentale. Spiace vedere come, abbandonando il cristianesimo, l'umanità torni allo stato di barbarie preesistente.
Infine bisogna ricordarci ciò che in realtà è il principio fondamentale di tutto questo discorso: la vita è un bene indisponibile; nessuno se l'è data da sé e quindi non può disporne a proprio piacimento. Questa legge non è che la degna conclusione di una stagione legislativa nefasta, in cui si è legiferato contro tutti i principi etici e morali, che stavano alla base della nostra civiltà e a favore di tutti quelli che vengono chiamati i "nuovi diritti": diritto di scegliere il proprio sesso, diritto di sposarsi con una persona del proprio stesso sesso, diritto di avere un figlio, diritto di scegliere la morte.
"Diritti" basati soltanto su scelte soggettive, sul come mi sento oggi, che non tengono conto affatto delle realtà oggettive ma assecondano ogni sfrenato desiderio.

Nota di BastaBugie: ecco il video dell'interessante conferenza di Tommaso Scandroglio tenuta a Staggia Senese il 23/02/2018


https://www.youtube.com/watch?v=Rsq2twYPYIY

Fonte: Amici del Timone di Staggia Senese, febbraio 2018

3 - L'IMMIGRATO COME PROLETARIO CULTURALE DA SFRUTTARE PER SCOPI POLITICI
La sinistra ha sempre bisogno di proletari perché rappresentano la massa di manovra da lanciare contro il sistema (un tempo i proletari erano le masse operaie, oggi sono gli immigrati)
Fonte Tradizione Famiglia Proprietà, marzo 2018

La sinistra ha sempre bisogno di proletari. Rappresentano la massa di manovra da lanciare contro il sistema o, per usare il linguaggio marxista, il "soggetto storico" che, mosso dall'odio di classe, porta avanti il processo rivoluzionario attraverso lotte dialettiche.
Una volta, i proletari erano le masse operaie che, inquadrate dal Pei, con tanto di bandiere rosse con la falce e il martello, percorrevano le strade delle nostre città cantando a squarciagola "Avanti o popolo alla riscossa! Bandiera rossa, bandiera rossa! Evviva il comunismo e la libertà! ". Merito dei vari "miracoli economici", però, questi operai sono diventati piccoli, e perfino medi, borghesi, perdendo quindi il loro fervore rivoluzionario. Bisognava sostituirli.
La sinistra è andata, dunque, alla ricerca di altre "classi oppresse". Adoperando non più un'analisi economica e politica dal sapore marxista, bensì un'analisi culturale e morale di matrice gramsciana, la sinistra ha individuato diversi settori adatti a rivestire il ruolo di soggetti storici: le minoranze etniche, le donne (femminismo), gli abitanti del Sud del pianeta e, più recentemente, gli omosessuali e gli immigrati. I teorici della sinistra parlano di un "nuovo proletariato culturale".
L'immigrato, secondo questi teorici, ha tutte le caratteristiche del proletario: è sradicato, emarginato, arrabbiato e via dicendo. Si tratta di instillare in lui una "coscienza di classe" che lo porti a opporsi alle "strutture di oppressione" del paese ospitante. Non a caso, la sinistra studia sotto questa luce il fenomeno dell'immigrazione fin dagli anni Novanta.
"Per la Sinistra comunista - scrive l'ideologo comunista americano Jerry Grevin - la denuncia della xenofobia e del razzismo contro gli immigrati è in continuità diretta con quella difesa dal movimento rivoluzionario dalla Lega dei comunisti, dal Manifesto comunista, la Prima Internazionale, la sinistra della Seconda Internazionale e i Partiti comunisti ai loro inizi".
Riteniamo che questo sia un dato fondamentale da prendere in considerazione nel trattare il problema dell'immigrazione.

Fonte: Tradizione Famiglia Proprietà, marzo 2018

4 - GLI UOMINI NON SONO ROBOT
L'uomo ha intelligenza, libertà, linguaggio, mentre i più progrediti robot non sono vivi, non pensano, non amano
Autore: Francesco Agnoli - Fonte: Libertà e Persona, 30/04/2018

La sempre maggiore capacità dei robot di compiere attività utili all'uomo, genera speranze, preoccupazioni e non poche discussioni filosofiche.
Oggi i robot possono fare operazioni delicatissime e utilissime, in medicina; possono gradualmente sostituire gli uomini in varie attività e mestieri, compresi quello di badante e di segretario/a.
Tutto ciò, come dicevo, affascina e spaventa: ruberanno posti di lavoro? Renderanno la nostra vita ancora più fredda e meccanica? Oppure saranno utili alleati dell'uomo in tanti campi?
Occorre che questi problemi vengano affrontati, dalla politica, evitando che siano solo la tecnologia e il mercato a dettare la linea.
Quello che però vorrei affrontare qui, molto brevemente, è un tema filosofico: i robot sono davvero assimilabili all'uomo?
C'è chi lo crede: c'è chi pensa che i robot potranno un giorno pensare, amare, provare sentimenti, addirittura prendere il sopravvento sull'uomo.
Ma credo sia pessima filosofia.

UOMO E ROBOT SONO ONTOLOGICAMENTE DIVERSI
Nessuno degli uomini che hanno dato un importante contributo a questa storia, condividerebbe questa equiparazione.
Blaise Pascal, il fisico, matematico, filosofo e teologo che costruì la prima macchina calcolatrice, riteneva che l'uomo fosse un unicum: più "grande" dell'universo, perché capace di pensare e di amare. Come lui gli altri pionieri: il filosofo e matematico Leibniz, Charles Babbage, Ada Loveloce e via discorrendo.
E' chiaro, infatti, che i robot, anzitutto, non sono vivi. La vita è qualcosa di cui tanto parliamo, anche in biologia, ma che non sappiamo davvero cosa sia, nè come sia nata. Oggi nessun laboratorio al mondo è capace di produrre un solo batterio totalmente artificiale.
Per questo Karl Popper, già nel 1977, riteneva impossibile produrre computer all'altezza del cervello umano, cioè di una realtà così incredibilmente complessa che tutto l'universo materiale insieme risulta, rispetto ad esso, incredibilmente banale.
Oltre a non avere la vita, i robot non sono capaci di una interazione con l'ambiente, tramite corpo, sensi, emozioni, né di alcun pensiero autocosciente.
Sono in tutto e per tutto oggetti e non, come gli uomini, soggetti, pensanti, liberi, autocoscienti.
Proprio lo studio dell'IA (intelligenza artificiale), dunque, ci aiuta a comprenderla meglio la grande dignità dell'uomo, che non è equiparabile ad alcuna macchina, ad alcun meccanismo puramente materiale e deterministico.
Pensare, amare, sentire, volere, sono capacità che non appartengono ai corpi, agli oggetti, alle macchine, ma solo agli uomini.
Lo spiegano molto bene, tra gli altri, Roberto Cingolani, fisico, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, e l'ingegner Giorgio Metta, che guidano lo sviluppo del robot umanoide iCub, esempio di robotica davvero "prodigioso".
I robot, hanno scritto in un loro testo, "non hanno alcunché di sentimentale, di personale o di emozionale" e "non esiste tecnologia che possa rendere una macchina intelligente anche dotata di emozioni e di autocoscienza, con buona pace di tanto cinema e letteratura".

FEDERICO FAGGIN
Analoga la posizione di Federico Faggin, fisico italiano che lavora alla Silicon Valley, che ha iniziato a 19 anni a realizzare tecnologie all'avanguardia, aprendo le porte alle prime memorie dinamiche, alle prime memorie non volatili, al primo microprocessore monolitico al mondo, agli schermi touch... e che ho avuto l'onore di intervistare in uno dei suoi ritorni in patria.
Faggin sostiene che "c'è una differenza incolmabile tra un uomo e un computer. E questa differenza incolmabile, ontologica, sta nella consapevolezza", che è qualcosa di immateriale, di "miracoloso" (qualcosa che filosofi e teologi chiamerebbero anima, spirito, coscienza).
Noi uomini, afferma Faggin, non abbiamo computer abbastanza potenti per eguagliare neppure un paramecio, cioè un protozoo, composto da una singola cellula vivente senza sistema nervoso, che pure nuota con rapidità, "virando i villi con moto squisitamente coordinato, evita gli ostacoli e i predatori, cerca cibo, riconosce un paramecio con cui accoppiarsi e così via".
Una singola cellula, dunque, è infinitamente più complessa del più progredito dei robot (che non sono vivi, non pensano, non amano): questo tanto per ricordarci che l'uomo ha grandi doni, forse unici nell'universo (intelligenza, libertà, linguaggio potenzialmente infinito...), ma da qui a diventare il Creatore di nuovi uomini-robot, ce ne passa!

Fonte: Libertà e Persona, 30/04/2018

5 - IL GIRO D'ITALIA E LE CROCIATE
Il paragone azzardato del direttore della Gazzetta dello Sport non tiene conto della vera storia delle Crociate, ma della leggenda nera creata dalla propaganda anticristiana
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 05/05/2018

Quest'anno, chissà perché, il Giro d'Italia è partito da Gerusalemme. Giro «della pace» lo hanno definito, pace tra israeliani e palestinesi si suppone, visto quel che accade al confine di Gaza. Dopo ventuno tappe terminerà a Roma con una cronometro. Traverserà tutta la Sicilia in lungo e in largo, poi risalirà dalla Calabria, taglierà la Penisola di sghembo finendo sulla costa Est, poi percorrerà la Padania dal Veneto fino al Piemonte e alla Liguria, per, infine, sbarcare, appunto, a Roma. Da Gerusalemme a Roma, un tragitto che la Gazzetta dello sport ha individuato come «il cammino delle Crociate all'incontrario».

LE DIFFERENZE
Fatte salve le debite differenze storiche (i crociati del Nord Europa percorrevano la via balcanica), le dissonanze tra i due eventi non sono poche, e val la pena di rifletterci sopra un attimo. Tanto per cominciare, i ciclisti del Giro partecipano con la speranza di tornare onusti di gloria e di soldi. I crociati, al contrario, si indebitavano spesso oltre ogni sopportazione e tornavano, quelli che riuscivano a tornare, alcuni feriti o mutilati, tutti molto più poveri di quando erano partiti.
Lo storico Riley-Smith ha dimostrato che i crociati affrontarono spese enormi per pagarsi il viaggio, fino a quattro-cinque volte il loro reddito annuo, talvolta vendendo o impegnando i loro beni e spesso a scapito della famiglia. Per l'equipaggiamento di un cavaliere si spendeva una cifra pari a quella occorrente oggi per comprare un'automobile di grossa cilindrata. I prìncipi dovevano affrontare spese da capogiro. Per fare un esempio, Riccardo Cuor di Leone per la sua crociata nel 1190 dovette affittare cento navi, comprare cinquemila cavalli e dotarli di dodici ferri ciascuno, pagare gli estensori della mappe necessarie, gli interpreti, i manovali capaci di costruire torri d'assedio, eccetera. «Solo la fede poté aver fatto quanto in ciò vi era di bene, l'integra fede di pochi, la fede parziale di molti», scrisse il poeta Thomas S. Eliot ne I cori della rocca (VIII). Una fede che indusse migliaia e migliaia di nostri antenati a rovinarsi economicamente per andare a buttare qualche anno della propria vita, o la vita stessa, in un viaggio infinito verso le sabbie e le sofferenze e i bollori della Palestina. Con la speranza di un solo premio: la salvezza della propria anima.
Ed ebbe qualcosa di miracoloso il permanere dei regni cristiani in una esigua fascia di terra stretta al mare e schiacciata per tre lati dell'immensa marea musulmana. Due secoli resistettero, e finché i crociati furono là, la secolare aggressività islamica segnò il passo, per poi riprendere alla conquista dell'Europa dopo la caduta alla fine del XIII secolo dell'ultimo baluardo cristiano in Terrasanta, Acri.

LE SOMIGLIANZE
Ma c'è qualcosa di vero in questo parallelo, della «Gazzetta», tra Gerusalemme e Roma. Fino al 1292 (caduta di Acri) i cristiani ebbero una sola città santa: Gerusalemme. Là aveva vissuto, era morto ed era stato sepolto il loro Dio, Cristo. Che diritto avevano i musulmani? Per questi ultimi, anzi, Gerusalemme era «santa» solo in terza battuta, prima venivano La Mecca e Medina. Non era nemmeno citata nel Corano. Tanto ci tenevano, i cristiani, che il papa Innocenzo III per due volte, nel 1213 e nel 1216, cercò di ottenerla per via diplomatica, «per evitare ulteriore spargimento di sangue», la chiese «umilmente» a Safadino (fratello di Saladino) «in nome dell'unico Dio».
Addirittura Riccardo Cuor di Leone propose un condominio, offrendo a Safadino la mano di sua sorella Giovanna. I crociati pisani arrivarono a riempire le stive delle loro navi di terra palestinese, «terra santa», e con essa approntarono il Campo, appunto, Santo, vicino al loro duomo. Così grande era il desiderio di chi non era potuto partire di essere almeno seppellito in quella terra. Altre città imitarono Pisa ed ebbero anche loro un camposanto. Perduta per sempre Gerusalemme, otto anni dopo il papa Bonifacio VIII ebbe l'idea di sostituirla con Roma: dal sepolcro di Cristo, ormai impossibile, a quello degli Apostoli.
E l'indulgenza plenaria venne applicata al viaggio a Roma. Fu il primo Giubileo, quello del 1300, cui partecipò anche Dante. Caricare tutti questi ricordi sulle spalle curve dei ciclisti del Giro è effettivamente troppo e improprio. L'unica somiglianza è, questo sì, l'internazionalità dei partecipanti: l'olandese Tom Dumoulin, vincitore della passata edizione, contenderà la maglia rosa al favorito, l'inglese Chris Froome. Tutto qui.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 05/05/2018

6 - QUATTRO AZIONI PER FERMARE I GAY PRIDE
Altre notizie dal mondo gay (sempre meno gaio): trans nelle quote rosa, il ritratto di Oscar Wilde che la vulgata gay nasconde, in Belgio la Chiesa dà l'ok agli atti gay
Autore: David Botti - Fonte: Osservatorio Gender, 5 aprile 2018

Dopo una serie di incontri con diverse amministrazioni comunali, è partita la macchina organizzativa dei vari gay pride, che sposteranno qualche migliaio di attivisti LGBT da una città all'altra della penisola.
Tuttavia, dopo i primi permessi, i sindaci di Genova e Trento hanno fatto opportune precisazioni: non potendo negare il permesso per l'occupazione dello spazio pubblico, la provincia di Trento ha negato il patrocinio al gay pride perché, secondo il suo presidente Ugo Rossi (autonomista, centro sinistra), «non apporta alcun contributo alla crescita e valorizzazione della società trentina».
Niente patrocinio anche dal Sindaco di Genova, Marco Bucci (civico, centro-destra) che ricorda come la propria amministrazione abbia fin da subito dichiarato di voler patrocinare solo «iniziative non divisive per la cittadinanza o comunque non offensive per qualsiasi fascia della popolazione genovese, avendo questa scelta anche un onere economico per la collettività».
È evidente che qualcosa sta cambiando: gli esponenti dei partiti hanno probabilmente capito che i voti della galassia LGBT sono minimi (a Bologna, nel 2017, soltanto 109 donatori) e fanno perdere voti, specialmente nelle piccole città di provincia.
Pertanto, le dichiarazioni dei due sindaci citati possono fornire indicazioni sul come fermare l'annuale caravanserraglio di bestemmie, oscenità, porcherie e irrisione della religione cattolica.

1) ATTIVITÀ PREPARATORIE
Una costante attività di informazione (ad es. con una newsletter periodica) oppure una serie di incontri ai quali si invitano gli esponenti dei partiti meno ostili alla famiglia, può essere una buona preparazione delle successive attività. Tali esponenti aderiscono con facilità perché generalmente sanno che questo è il sentimento profondo della maggior parte delle persone.
Nel caso in cui, invece, ci si muova per la prima volta, un incontro organizzato e reclamizzato da una pluralità di associazioni può essere di aiuto, specialmente se presenziano esponenti dei partiti (richiamano i mass-media).

2) ATTIVITÀ VERSO LE AMMINISTRAZIONI COMUNALI
È utile che un'associazione "pilota" chieda per iscritto ai sindaci (in una provincia di medie dimensioni come Bologna ce ne sono solo 55) di negare il patrocinio al gay pride, ribadendo gli argomenti enunciati dai loro colleghi di Genova e Trento: è un evento divisivo, che non aiuta in alcun modo la crescita del territorio, comprendente manifestazioni che offendono buona parte della popolazione e comporta una spesa non giustificabile. La lettera va ovviamente inviata alla stampa locale, così come un comunicato stampa di "condanna" del patrocinio eventualmente concesso.
La condivisione del comunicato da parte dei consiglieri comunali più sensibili alla difesa della vita e della famiglia generalmente aiuta ad avere eco mediatica. Se il Comune è guidato da una maggioranza non nemica della vita e della famiglia è opportuno che un consigliere proponga una delibera.

3) ATTIVITÀ INFRA-ECCLESIALI
In alcune Diocesi può valere la pena incontrare il Vescovo per chiedere di dar corso a una processione o altra forma di riparazione pubblica alle offese generalmente arrecate da un gay pride.
Nel caso in cui il Vescovo non lo ritenesse opportuno, un gruppo di associazioni può autonomamente promuovere un momento di preghiera in una Chiesa a grande visibilità cittadina. Ma si ritiene sempre controproducente andare incontro ad un pubblico biasimo da parte della Curia vescovile.
Al contrario, una presa di posizione - anche soltanto indiretta - da parte del Vescovo può essere considerata la migliore forma di contrasto.
L'eventuale interruzione di funzioni liturgiche, così come l'aggressione da parte degli attivisti LGBT - pur costituendo quasi sempre un'offesa a Dio - può tuttavia rivelare alla popolazione lo scopo ultimo del movimento omosessualista.

4) ASPETTI ECONOMICI
Ogni gay pride ha costante bisogno di sovvenzioni e contributi per farsi pubblicità, affittare spazi e locali, realizzare insegne e striscioni, ecc. Lo studio e la ricerca di finanziamenti inizia generalmente 2 mesi prima.
Pertanto, se si ha la possibilità di render note tali sponsorizzazioni attraverso i mass-media è sempre bene farlo, perché la stragrande maggioranza dei clienti/utenti dello sponsor non gradisce le manifestazioni di cui si parla.
Qualora si disponga di adeguata strumentazione informatica, può anche essere opportuno lanciare campagne di boicottaggio verso gli sponsor che sono generalmente impreparati a questo tipo di reazione da parte dei cattolici.

Nota di BastaBugie: ecco altre notizie dal gaio mondo gay (sempre meno gaio).

LABURISTI: TRANS NELLE QUOTE ROSA. E IN 300 DONNE LASCIANO IL PARTITO.
Il Comitato direttivo nazionale del Partito laburista inglese ha fatto sapere che le quote rosa sono "sempre state aperte a tutte le donne, che ovviamente include donne trans". A complicare la vicenda si aggiunge il fatto che per essere donna trans pare basti un'autocertificazione per il partito. In tal modo qualsiasi maschio potrebbe far parte della quote rosa a prescindere da trattamenti ormonali e operazioni chirurgiche. Il Comitato esecutivo deve ancora discutere della questione.
300 attiviste laburiste sembra che abbiano lasciato il partito per protesta dato che essere donna trans non significa - correttamente - essere donna. Una di queste attiviste ha rilasciato questa dichiarazione ad un giornale: "Perché dovremmo essere noi a lasciare il nostro spazio? Un uomo trans-identificato che dice: 'Io sono una donna, quindi ho il diritto di essere in questa lista', questo è ciò a cui mi sto opponendo, nient'altro. Ritornerò nel partito quando sento che difenderà e rappresenterà le donne".
E' l'eterogenesi dei fini. Le femministe - e molte di esse provengono dal partito laburista - hanno battagliato per anni al fine di eliminare i ruoli femminili e maschili dalla società, considerati residui ancestrali di epoche patriarcali, ed ora si lamentano che gli uomini vogliano fare le donne.
(Gender Watch News, 5 maggio 2018)

IL RITRATTO DI OSCAR WILDE CHE LA VULGATA GAY NASCONDE
Il recente film Happy Prince: l'ultimo ritratto di Oscar Wilde, scritto, diretto e interpretato da Rupert Everett, uno dei nomi più importanti del cinema britannico, ha il grande merito di presentarci gli ultimi giorni di uno dei più celebri e celebrati scrittori degli ultimi due secoli mostrandocelo in tutta la sua interezza, con tutte le sue contraddizioni, con la sua fragilità di fronte alle tentazioni, ma anche con quel desiderio di Dio che lo portò, prima di morire, a convertirsi al Cattolicesimo e a chiedere i Sacramenti.
Un aspetto, quello della religiosità di Oscar, che è spesso censurato da chi lo vuole ridurre a semplice icona gay.
Mentre era detenuto nel carcere di Reading, condannato a due anni di lavori forzati, lesse numerose opere religiose, tra cui tutte le opere di John Henry Newman. In carcere si riconciliò con la moglie: si abbracciarono dopo tanto tempo, parlarono tutto il tempo possibile, soprattutto dei figli e Oscar si raccomandò che la moglie non li viziasse, e li educasse in modo che qualunque cosa facessero, anche la più sbagliata, non mentissero e tornassero comunque da lei per raccontargliela: solo così poteva insegnare loro cosa fosse la redenzione.
Wilde aveva avuto modo di riflettere profondamente sulla sua storia, e sul suo rapporto con Bosie Douglas, il giovane che l'aveva condotto alla rovina. Scrisse una lunga lettera all'ex amico, che anni dopo venne pubblicata col titolo De Profundis. Era davvero il grido di dolore di Oscar dal profondo delle sua notte più oscura, un'oscurità che tuttavia non aveva preso la sua anima. Anzi: dopo molto tempo Oscar sembrava riuscire a scorgere dentro se stesso, a leggere tra le righe della sua vita.
Scrisse: "Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è l'umiltà. È l'ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova".
Dopo la scarcerazione, Oscar trascorse due anni di vagabondaggio, di confusione, di solitudine. Rivide purtroppo Bosie, che lo portò con sé in Italia, a Napoli, dove Oscar vide per l'ultima volta la sua natura malvagia in azione, e chiuse definitivamente il loro rapporto. Non rivide più la moglie, che morì a Genova per gli esiti di una lesione alla spina dorsale. Infine trascinò la sua vita, segnata ormai dalla malattia, a Parigi.
Venne raggiunto a Parigi dal vecchio amico Robbie Ross, che era stato il suo primo amante di sesso maschile. Robbie, tuttavia, proprio grazie ad Oscar aveva scoperto il Cattolicesimo, si era convertito e aveva mutato radicalmente la propria vita. Robbie ora era per Oscar "solo" un amico, un'amicizia profonda e preziosa. Con Ross parlava dei suoi figli, che l'amico visitava regolarmente, e fu felice di sapere che uno di loro, Vyvyan, era diventato cattolico.
Ora voleva anche lui compiere finalmente il grande passo, dopo aver atteso tutta la vita. Robbie fu sorpreso e commosso, e sembrava quasi non credergli. Gli chiese se fosse proprio convinto.  "Il cattolicesimo è la sola religione in cui morirei" aveva detto dopo il suo rilascio dal carcere, ed ora, per una volta, voleva essere di parola.
Aveva vacillato tutta la vita, mentre intorno a lui i suoi amici, uno dopo l'altro, si convertivano: Robbie, Gray, Beardsley, e infine suo figlio.
Oscar morì con questa consolazione. Robbie quando vide che stava iniziando l'agonia si precipitò a cercare un sacerdote. Andò presso un vicino convento di padri passionisti, e per quanto incredibile possa sembrare, vi trovò un religioso irlandese, padre Cuthbert Dunne.
Oscar ricevette i Sacramenti dalla mani di un connazionale, un uomo dell'Isola del Destino che la Provvidenza aveva voluto che incontrasse nel momento finale. Perse coscienza mentre nelle sue mani stringeva il rosario di padre Cuthbert.
Era il 30 novembre del 1900, ed Oscar Wilde moriva in pace.
(Rino Cammilleri, La Nuova Bussola Quotidiana, 5 maggio 2018)

IN BELGIO È CHIESA ARCOBALENO: OK AGLI ATTI OMOSESSUALI
Il cardinale Jozef De Kesel, l'uomo che ha distrutto - con la complicità della Santa Sede - la Comunità dei Santi Apostoli, fiorente di vocazioni nel Belgio de-cristianizzato, ha incontrato il gruppo gay HLMW il 24 aprile scorso e ha detto che «La Chiesa deve rispettare di più gli omosessuali, anche nella loro esperienza di sessualità». Cioè che atti come la sodomia, da sempre condannati nell'Antico e nel Nuovo Testamento potrebbero trovare un'approvazione ecclesiastica.
Inutile dire che tutto questo è in contrasto con la tradizione di sempre della Chiesa, le Sacre Scritture, il catechismo e vari documenti anche recenti della Santa Sede. Secondo la pagina web di propaganda gay hlwm.be, De Kesel avrebbe affermato che la condanna degli atti omosessuali «non è più sostenibile».
Naturalmente il cardinale, pupillo del cardinale Danneels, implicato in uno scandaloso caso di copertura di abusi sessuali, e grande amico e consigliere di Jorge Mario Bergoglio, ha fatto riferimento alle parole di Francesco «Chi sono io per giudicare»; ma non ha riportato, come troppo spesso accade in questi casi, l'intera citazione, in cui si fa riferimento al catechismo, e si è limitato all'uso che ne fanno i gruppi di attivismo omosessualista. De Kesel ha detto che solo dieci anni fa osservazioni come quelle che stava facendo non sarebbero state possibili. Una frecciata a Benedetto XVI, che, secondo quanto ci dicono, non aveva una grande stima dell'attuale arcivescovo di Malines-Bruxelles. E probabilmente, sapendo quanto fosse pignolo papa Ratzinger in tema di scelte episcopali, avrà avuto le sue buone ragioni.
De Kesel ha ammesso che egli stesso, venti anni fa, si sarebbe espresso diversamente sull'omosessualità e avrebbe seguito l'insegnamento del Nuovo Testamento e della Chiesa. Secondo De Kesel, la Chiesa in Europa «è cambiata in meglio»: Invece la Chiesa in Europa Orientale, Africa e Asia non sarebbe ancora «inclusa in questo cambiamento "in meglio"».
Ma De Kesel non si è limitato a questo. Nell'incontro, come hanno riportato non pochi giornali del Paese, il cardinale avrebbe detto di voler riflettere a una qualche forma di celebrazione di preghiera per dare un sigillo religioso a una relazione omosessuale. Inutile dire che seguendo questo modo di pensare il porporato entra in diretto contrasto sia con quello che insegna la Chiesa cattolica, sia anche - pare - con quello che afferma il Pontefice regnante.
Nell'incontro con la comunità di cui parlavamo, il cardinale ha confermato di stare riflettendo a un'ipotesi del genere. Nella conversazione si è parlato sia delle relazioni omosessuali che della distinzione fra di esse e un matrimonio cristiano fra un uomo e una donna. Il cardinale avrebbe detto che si augura di poter rispondere fra non molto alla richiesta, presente in omosessuali cattolici, di poter beneficiare di un riconoscimento simbolico della Chiesa per la loro unione.
I commentatori cattolici fanno notare che a dispetto del suo progressismo spinto, un matrimonio religioso sembrerebbe andare troppo avanti. E non sarebbe favorevole più di tanto a una "benedizione" ecclesiastica, perché la somiglianza con un matrimonio naturale sembrerebbe troppo forte. L'idea del porporato, per accontentare la sua platea omosessuale, sarebbe piuttosto quella di una "celebrazione di ringraziamento", o di una "celebrazione di preghiera". Però senza scambio di anelli...
(Marco Tosatti, La Nuova Bussola Quotidiana, 7 maggio 2018)

Fonte: Osservatorio Gender, 5 aprile 2018

7 - L'ABORTO SPINGE LE DONNE VERSO IL SUICIDIO
La depressione post partum è un'inezia rispetto alla sindrome post aborto, una tragedia taciuta e ignorata (VIDEO: testimonianza di chi ha abortito)
Fonte Notizie ProVita, 27/07/2015

L'aborto volontario spinge le donne verso il suicidio.
National Right to Life torna a evidenziare le pubblicazioni scientifiche che concludono in modo univoco in tal senso.
La depressione post partum è proprio un'inezia rispetto alla sindrome post aborto: i numeri delle donne che arrivano a tentare o praticare il suicidio dopo una gravidanza sono evidenti. Oltre tutto la crisi dopo il parto si risolve nel giro di pochi mesi, mentre la sindrome post aborto può covare - e logorare - per anni prima di esplodere in tutta la sua virulenza. Soprattutto quando la donna nega a se stessa che l'aborto sia un male e che il suo bambino ne sia vittima innocente.
In Irlanda i pro choice chiedono insistentemente di consentire l'aborto quando la vita della madre è in pericolo, e perciò anche quando ella minacci il suicidio: come negli USA, prima della sentenza Roe vs. Wade che nel '74 legalizzò l'aborto a richiesta. In molti Stati bastava che una donna incinta dichiarasse intenti suicidari per ottenere il certificato medico per abortire.

LA VERITÀ È CHE UN ABORTO PUÒ CONDURRE UNA DONNA AL SUICIDIO
Le evidenze scientifiche che però dimostrino che un aborto può salvare una donna dal suicidio non ci sono, anzi gli studi condotti sul tema indicano tutti esattamente il contrario. Ne abbiamo parlato un anno fa: i dati provenivano da Australia, Stati Uniti e Nord Europa.
In Finlandia, da un'indagine condotta su 600.000 donne (non solo attraverso interviste, ma anche attraverso le cartelle cliniche e i dati clinici), risultò che il rischio di suicidio era sei volte maggiore tra le donne che avevano abortito che tra quelle che avevano partorito; tre volte maggiore rispetto a quelle che non erano incinta. Piuttosto, quindi, è dimostrato che la gravidanza riduce drasticamente gli istinti suicidari.
Anche uno studio pubblicato sull' European Journal of Health conferma questi dati. Sono state tracciate 463,473 donne che sono rimaste incinta tra il 1980 e il 2004, ed è stato calcolato il tasso di mortalità dopo un aborto o dopo il parto: sono state molte di più quelle morte nei 10 anni dopo l'aborto che dopo il parto: causa principale di decesso è stata il suicidio.

DATI ALLARMANTI
Anche The British Medical Journal scrive simili conclusioni: su 100.000 donne che hanno partorito il tasso di suicidio è 5.9; su altrettante che hanno abortito è 34.7. Tra le donne non incinta è 11.3.
Ancora. David C. Reardon dell'Elliot Institute ha studiato 173.000 Americane incinte per 8 anni dopo che la gravidanza è finita (con aborto o parto). Le donne che avevano abortito risultarono con il 154% di possibilità in più di suicidarsi. Sempre David Reardon nel suo libro "Aborted Women, Silent No More" (Springfield, IL: Acorn Books, 2002) ha rilevato che il 60% delle donne dopo un aborto ha pensieri suicidari. Il 28% tenta realmente il suicidio.
La rivista Women's World riporta altri dati in base ai quali risulta che quasi la metà delle donne che hanno abortito (45%) hanno pensieri suicidari.
I dati sono ancor più allarmanti se si prendono in considerazione le teenager: le giovanissime che abortiscono sono 10 volte di più a rischio di suicidio e tre volte più a rischio di ricovero in ospedale psichiatrico delle loro coetanee.
Ma le statistiche non mostrano in alcun modo la vera tragedia che si consuma nella mente e nel cuore delle donne dopo l'aborto.
Per comprenderla basta leggere le testimonianze di quelle che ci sono passate. [...]
Bisogna saperle, queste cose, e bisogna divulgarle: perché dai media "politicamente corretti" non le sentirete mai. E neanche da tutti coloro che sono tanto "impegnati" a tutelare la "salute (sessuale e riproduttiva) delle donne".

Nota di BastaBugie: Nonostante l'impegno profuso dalla cultura "mainstream" per far passare l'aborto come un segno di progresso e civiltà, un atto "dovuto" per il bene e la salute della donna, la realtà è molto diversa. Abortire provoca una ferita profonda e difficilmente sanabile nell'interiorità della donna.
Il video sottostante (durata: 14') narra il doloroso percorso di un uomo e una donna che nel loro passato hanno scelto l'aborto.
Ricordiamo che per la dottrina cattolica l'aborto è un peccato gravissimo, punito con la scomunica latae sententiae (per il solo fatto di averlo commesso).
Tale scomunica si estende anche a chi accompagna, appoggia o consiglia la donna ad abortire e al personale medico che effettua l'aborto stesso.


https://www.youtube.com/watch?v=OTVv2MjLvKs

Fonte: Notizie ProVita, 27/07/2015

8 - COSA DIRE QUANDO CI SI CONFESSA
Bisogna distinguere tra oggetto obbligatorio e necessario oppure consigliato e raccomandato
Autore: Don Leonardo Maria Pompei - Fonte: Il settimanale di Padre Pio, 23/06/2013

Il quarto requisito per una buona Confessione è l'accusa sincera dei peccati commessi di cui si ha memoria. Come la Santa Madre Chiesa ha autorevolmente (e dogmaticamente) insegnato, sono oggetto obbligatorio e necessario tutti e ciascuno i singoli peccati commessi da quando si ha l'uso della ragione in poi, i quali vanno confessati bene, ovvero non genericamente, ma per specie, numero e circostanze. L'inosservanza volontaria di tale indicazione, come già visto per ciò che concerne il sincero pentimento, non solo rende la Confessione invalida, ma la trasforma in sacrilega. Cerchiamo di focalizzare bene i dettagli di questo importantissimo ulteriore elemento costitutivo della "quasi materia del Sacramento".
Bisogna quindi anzitutto distinguere tra oggetto obbligatorio e necessario della Confessione e oggetto consigliato e raccomandato di essa. È strettamente obbligatorio confessare i peccati mortali, ovvero quelli aventi una materia grave (in sé o per le "proporzioni" della trasgressione) e che siano stati commessi con piena avvertenza (rendendosi conto della gravità di ciò che si stava facendo) e deliberato consenso (non sotto la spinta di violenza o altra gravissima causa).

PECCATI MORTALI E VENIALI
Tanto per fare qualche esempio di comuni peccati che sono sempre mortali per la gravità della materia in se stessa, possiamo citare i sacrilegi, le irriverenze, le bestemmie, il falso giuramento, l'omessa santificazione del giorno festivo, l'uso di droga, le percosse, l'impurità in tutti i suoi generi e specie, l'inverecondia e l'immodestia.
Ci sono invece alcuni peccati che diventano mortali quando la materia da "lieve" diventa "grave". Per esempio il furto, che è peccato veniale quando cade su oggetti di scarso valore, mentre è peccato mortale quando l'entità della cosa rubata o ingiustamente trattenuta è considerevole; le mancanze nei confronti dei genitori, che diventano gravi quando sono ingiurie o quando sono disubbidienze in cose di grande entità; le volgarità e le parolacce, che diventano gravi quando sono a sfondo sessuale o quando sono dette con odio per ferire e colpire il prossimo. Questi peccati vanno confessati non in maniera generica, ma per specie: non basta dire "ho peccato contro il Secondo Comandamento", perché un conto è la bestemmia, un conto il falso giuramento, un conto la nomina inutile del nome di Dio, della Madonna o dei santi; non basta dire "ho commesso atti impuri", perché altra cosa è l'adulterio rispetto ai rapporti prematrimoniali, o al peccato impuro solitario, ecc. Va inoltre specificato il numero, perché tanti sono i peccati mortali quante sono le volte che si sono commessi e ciò determina un profondo aggravamento sia della situazione della coscienza sia delle pene dovute per il peccato (che faranno fare il Purgatorio nonostante l'assoluzione).

COSE DA SPECIFICARE
Quando non si ricorda il numero preciso, bisogna dare al confessore "l'ordine di grandezza", avvicinandosi il più possibile alla verità. Se un penitente sa di aver colpevolmente "mandato in vacanza il Padre eterno" durante il periodo estivo, non sarà per lui sufficiente dire "ho mancato alla Santa Messa", ma dovrà appunto specificare "per tutto il periodo estivo". Se si confessa un bestemmiatore abituato, dovrà far chiaramente capire che non è che gli sia scappata una bestemmia in un momento di collera, ma che più volte ha offeso il nome di Dio, ecc. Infine vanno specificate le circostanze quando queste mutano la natura del peccato oppure ne aggravano o diminuiscono la gravità. Se si è bestemmiato dinanzi a un figlio piccolo, bisogna specificarlo, perché questa aggravante (il vero e proprio scandalo dato a un piccolo dal proprio genitore) è quasi più grave del peccato commesso; così come se si è mancati alla Santa Messa, avendo dei figli piccoli che devono avere nei genitori un modello e uno sprone per imparare l'osservanza della Legge di Dio. Se si è commessa qualche impurità, bisogna specificare se il complice, per esempio, fosse sposato in Chiesa (anche se divorziato), perché l'atto si trasforma immediatamente in adulterio che è molto più grave della fornicazione semplice, ecc. Similmente se si è mancati alla Santa Messa non per negligenza ma per improvvisi problemi che hanno reso molto difficile la partecipazione (se non addirittura moralmente impossibile: la malattia personale, un incidente stradale, il ricovero improvviso di una persona cara), bisogna specificarlo; così come se fosse scappata una bestemmia in preda all'ira da parte di chi non ha questa abitudine e si è ritrovato con un'espressione blasfema uscitagli dalla bocca senza nemmeno capire come è successo; oppure i peccati che sono stati commessi per ignoranza anche se colpevole (cosa che avviene quando si trasgredisce gravemente la Legge di Dio, senza sapere o avere la piena consapevolezza della gravità del peccato, per difetto di formazione della coscienza, ecc.).

QUALI PECCATI CONFESSARE
I peccati mortali vanno confessati tutti, anche quelli molto lontani nel tempo, di cui non si abbia la certezza di averli già portati dinanzi al tribunale della divina Misericordia. La Confessione, infatti, copre solo i peccati non confessati per dimenticanza, ma comporta sempre in sé l'obbligo che, qualora affiorino nella memoria peccati anche molto antichi che si è certi o quasi di non aver mai confessato, essi vengano umilmente confessati alla prima Confessione utile. Sembra assai probabile l'opinione di chi ritiene, in caso di peccati molto antichi, che nonostante l'obbligo di confessarli alla prima occasione utile, il fedele possa accostarsi alla Comunione sacramentale, diversamente da ciò che accade qualora, nel presente, si commetta un peccato mortale, nel qual caso non bisogna per nessun motivo accostarsi all'Eucaristia senza premettere la Confessione sacramentale.
Gli altri peccati (quelli veniali) e le imperfezioni morali non costituiscono oggetto obbligatorio di Confessione, ma la Chiesa ne "raccomanda caldamente" la confessione, dato che una coscienza che li sottovaluti si espone grandemente al pericolo di cadere in mancanze gravi e comunque, nel caso di peccati in senso stretto (piccole maldicenze, atti di superbia, bugie, volgarità non eccessive, scatti di collera, ecc.), si offende comunque Dio e si "aumenta" il tempo di purgazione che sarà necessario affrontare in Purgatorio prima di accedere alla visione beatifica. Un'anima poi che voglia santificarsi non può in nessun caso e per nessun motivo prendere alla leggera venialità e imperfezioni, altrimenti cadrà inevitabilmente nelle sciagurate sabbie mobili della mediocrità e della tiepidezza, perderà un numero considerevole di grazie divine, farà molto meno bene (o lo farà molto peggio) di quello che dovrebbe o potrebbe.

Fonte: Il settimanale di Padre Pio, 23/06/2013

9 - OMELIA ASCENSIONE - ANNO B (Mc 16,15-20)
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato
Fonte Il settimanale di Padre Pio

Quaranta giorni dopo la Risurrezione, Gesù ascende al Cielo davanti agli sguardi stupiti degli Apostoli. Prima di lasciare la terra, Gesù parla per l'ultima volta, affidando ai suoi Discepoli l'incarico di evangelizzare tutte le genti, dicendo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16). È questo il mandato missionario che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa e che fedelmente dobbiamo eseguire, affinché tutti conoscano il Vangelo e abbiano la Vita eterna.
Da una parte l'Ascensione del Signore ci invita a innalzare il nostro pensiero alle realtà celesti, distaccandolo dalla terra; dall'altra parte siamo invece chiamati a non rimanere inerti, in una passiva attesa del ritorno del Signore, ma a edificare il Regno di Dio nel mondo. A ciascuno di noi è stato dato un dono particolare da mettere a servizio di questa opera. Così, nella seconda lettura di oggi, san Paolo scrive che Dio «ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri» (Ef 4,11). Non è certamente un elenco completo: i compiti sono diversi come diverse tra loro sono le anime.
Dunque, se in poche parole vogliamo sintetizzare il messaggio di questa solennità, possiamo dire che, alla luce dell'Ascensione del Signore, siamo esortati a innalzare i nostri cuori al Cielo e a poggiare bene i nostri piedi a terra, adoperandoci per la diffusione del Vangelo nel mondo intero. Ci vuole la contemplazione e ci vuole l'azione. Questi due elementi vanno sempre insieme. Le sorti di questo mondo non si migliorano nelle discussioni, nelle riunioni, nelle pianificazioni, ma innalzando il cuore al Signore e attingendo da lui la luce e la forza per operare e per diffondere il bene nel mondo.
L'Ascensione non ha separato Gesù dalla sua Chiesa. Anche se è salito al Cielo, Egli continua ad essere sempre con noi. «Egli non si è separato da noi, ma ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena fiducia che dove è lui saremo anche noi, uniti nella stessa gloria» (dal Prefazio). Fin da adesso pensiamo spesso a questa gloria che ci attende nei Cieli. In Gesù risorto e asceso al Cielo, noi contempliamo quella che sarà anche la nostra meta finale. La festa di oggi ci insegna che non siamo stati creati per questa terra, ma per il Paradiso. Solo lì i nostri cuori troveranno la vera pace. Qui giù ci sarà sempre qualcosa per cui penare, e questo Dio lo permette per farci desiderare ancor più ardentemente il Cielo.
Tante volte viviamo come se dovessimo rimanere qui tutta l'eternità. Non pensiamo a sufficienza alla vita eterna e rischiamo di farci trovare impreparati all'incontro eterno con Gesù. Il nostro pellegrinaggio terreno si potrebbe paragonare a una lunga ascensione: dobbiamo raggiungere la vetta, e ciò richiede tutto il nostro impegno. Più facile sarà scendere, ma noi siamo chiamati a raggiungere le vette dell'amore di Dio. Più il nostro bagaglio sarà leggero, tanto più agevolmente riusciremo a salire e a raggiungere la cima. Per questo motivo, san Francesco d'Assisi volle vivere nella povertà, per non essere ostacolato da nulla nel suo slancio verso l'alto.
In questa ascensione non dobbiamo perdere di vista la vetta da raggiungere. All'inizio il cammino è agevole, ma, quanto più ci si avvicina alla vetta, tanto più l'ascesa si fa ripida e il respiro affannoso. Se prima si ammirava la bellezza del panorama, quando si è ormai vicini alla meta non si guarda che la cima, ogni altra cosa sembra scomparire. La fatica aumenta sempre di più, ma il desiderio di giungere in vetta si fa sempre più grande e, quando finalmente vi si giunge, si è al colmo della gioia. Sembra quasi che quanto più abbiamo faticato, tanto più siamo felici. Ai nostri occhi estasiati si aprono orizzonti meravigliosi e il mondo sotto di noi sembra ormai tanto piccolo. Si vorrebbe rimanere lì a lungo e si intuisce che il mondo non potrà mai appagare pienamente il nostro cuore.
Chiamati a guardare in alto, tante volte noi non riusciamo a staccare lo sguardo da terra. Impariamo dai santi, i quali, passando per molte prove e tentazioni, sono saliti molto in alto e hanno raggiunto la cima immacolata dell'amore di Dio. Si racconta che, quando era ancora bambino, san Francesco di Sales spesso era assorto, tutto preso dai suoi pensieri, e, quando il padre gli domandava a cosa stesse pensando, egli rispondeva: «Penso a Dio e a farmi santo».
Pensiamo anche noi a Dio. La preghiera è stata giustamente definita come l'«elevazione della mente a Dio». Ogni volta che pregheremo in modo autentico, eleveremo la nostra mente e il nostro cuore, staccandoli dai lacci di questa terra.
Pensiamo a Dio e fissiamo il nostro sguardo alla vetta!

Fonte: Il settimanale di Padre Pio

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