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Nelle analisi riguardanti le rivolte popolari che stanno avvenendo in Nordafrica e Medio Oriente, il fatto che le democrazie occidentali, Italia inclusa, intrattengano rapporti economici e diplomatici con questi governi nordafricani e mediorientali è stato indicato come un fattore determinante del persistere di regimi che altrimenti avrebbero da tempo perso consenso e seguito. Al di là dell'uso strumentale di chi, volendo dimostrare il fallimento del modello occidentale, spiega qualsiasi evento negativo come effetto di decisioni prese appunto in Occidente, come comportarsi per non facilitare la vita ai leader autoritari e corrotti è una questione reale e urgente.
Il primo problema con i dittatori è poterli classificare come tali. In Libia, per esempio, non si vota e Muhammar Gheddafi è al potere dal 1969, anno del colpo di stato che rovesciò re Idris. Analogo è il caso dell'Eritrea, mai andata alle urne da quando nel 1993 ottenne l'indipendenza dall'Etiopia e la leadership venne assunta da Isaias Afewerki, tuttora al potere.
Ben Ali, presidente della Tunisia in esilio dal 14 gennaio, ha guidato il suo Paese per 24 anni, a partire dal 1987. Considerando gli altri leader oggi minacciati dalle rivolte del pane, Hosni Mubarak, in Egitto, è presidente dal 1981, e in Yemen Ali Abdullah Saleh lo è dal 1978. Ma tutti e tre sono stati più volte eletti, nel corso di votazioni il cui esito è stato accettato dalla comunità internazionale, ottenendo ampie percentuali di consensi: Ben Ali, ad esempio, nel 2009 è stato riconfermato con l'89% dei voti. Come i loro, ormai quasi tutti i regimi autoritari sono in effetti dissimulati dall'adozione di istituzioni democratiche, per quanto di fatto snaturate: un parlamento, un consiglio dei ministri, un dettagliato protocollo che regola le operazioni di voto... alcuni, come il Rwanda, hanno persino introdotto quote rosa che garantiscono una consistente rappresentanza politica femminile.
Sapere che le elezioni sono invalidate dai brogli e dalle sistematiche intimidazioni della popolazione e che il controllo dell'apparato statale serve a disporre delle risorse nazionali a propria discrezione non vale a mettere fuori legge i leader che approfittano delle istituzioni democratiche per conquistare il potere e conservarlo a oltranza: non finché manca un'opposizione interna in grado di contrastarli.
Tollerare i dittatori e accettare di trattare con loro alleanze politiche e scambi economici può contribuire alla stabilità dei loro regimi. Altra cosa però è legittimarli pienamente e questo invece accade di continuo.
A fine gennaio la XVIa sessione plenaria dell'Unione Africana, il massimo organismo panafricano, ha eletto come proprio presidente per il 2011 Teodoro Obiang Nguema, presidente della Guinea Equatoriale dal 1979 grazie a un colpo di stato. Nguema non soltanto è un dittatore, malgrado i confronti elettorali che nel 2009 lo hanno riconfermato con il 95% dei voti, ma è un dittatore noto per la brutalità con cui reprime il dissenso interno e per la spregiudicatezza con cui amministra le risorse nazionali: che sono cospicue poiché la minuscola Guinea Equatoriale è uno dei maggiori produttori di petrolio dell'Africa subsahariana. Grazie al petrolio il paese vanta uno dei PIL più elevati del continente africano. Ma la popolazione manca di acqua potabile, luce elettrica, servizi di base e per l'80% vive con meno di un euro al giorno poiché i proventi del petrolio finiscono quasi interamente nelle avide mani del presidente, della sua famiglia e di una ristretta cerchia di sostenitori.
Se un dittatore può diventare presidente di turno dell'Unione Africana, forse più grave ancora, in termini di legittimazione, è quanto avviene alle Nazioni Unite dove personaggi come Nguema hanno facoltà di influenzare le sorti del pianeta. Possono farlo in Assemblea Generale, le cui risoluzioni se non altro non sono vincolanti; e possono farlo quando occupano un seggio temporaneo in Consiglio di Sicurezza. Inoltre i loro paesi entrano regolarmente a far parte dei comitati direttivi delle agenzie ONU. Nel 2010 nel Consiglio per i diritti umani figuravano ad esempio Egitto e Arabia Saudita e per poco, qualche settimana fa, l'Iran non veniva inserito nell'Executive Board dell'UN Women, la nuova agenzia dedicata alla promozione della condizione femminile. Il peggio probabilmente si è avuto nel 2003 quando la Commissione per i diritti umani, poi sostituita dal Consiglio, fu presieduta dalla Libia e ne fecero parte tra gli altri Togo, Gabon, Algeria, Sudan, Zimbabwe e Cuba.
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