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« Torna agli articoli di Giacomo Biffi

"Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da lui" (cfr. At 10,40-41).
L'apostolo Pietro - con le semplici ed essenziali parole che abbiamo riascoltato nella prima lettura - così sintetizza davanti al centurione romano Cornelio l'evento centrale della storia; quell'evento che noi ancora una volta in questa celebrazione pasquale siamo sollecitati a ricordare e a rivivere.
Nella realtà della Pasqua di Cristo ci sono quasi due facce della medesima medaglia. C'è da una parte un delitto e un'infamia - quale è sempre l'uccisione di un innocente (e lo è tanto più nel caso di Gesù di Nazaret) - che però l'arcana e misericordiosa sapienza del Padre accoglie e avvalora come atto d'amore del suo Unigenito e come obbedienza del nuovo Adamo al trascendente disegno della salvezza umana (un amore e un'obbedienza che così diventano la sorgente del nostro riscatto); e c'è d'altro canto un'effusione di vita nuova e splendente che investe il Crocifisso e lo costituisce forma e principio della rinascita umana e del nostro riconquistato destino di gioia.
Una particolarità meritevole di attenzione, però, distingue i due aspetti dell'unico avvenimento redentivo.
Gesù muore sulla cima del monte al cospetto di tutti, perché l'umanità intera con le sue infedeltà e le sue prevaricazioni è "in solido' la causa della fine cruenta di colui che, secondo quel che dice il profeta, "è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostra iniquità: si è abbattuto su di lui il castigo che ci dà la salvezza e per le sue piaghe noi siamo stati guariti" (Is 52,5).
Ma egli risorge nella solitudine nascosta di una notte fonda, perché la sua risurrezione (primizia e ragione del ringiovanimento dell'universo) era e doveva apparire totalmente ed esclusivamente opera della potenza divina, e nessuno potesse neppure lontanamente supporre che essa fosse il prodotto della fede soggettiva e dell'autoillusione consolatoria di quanti l'avevano amato.
Per una ragione analoga il Risorto non si lascia vedere da tutti, ma solo da alcuni "testimoni prescelti": prescelti liberamente dal Dio eterno, perché la novità della Pasqua fosse riconosciuta interamente e senza alcun dubbio come un puro dono dall'alto.
Spiccano tra questi "testimoni prescelti" gli apostoli, sui quali Gesù ha voluto fondare la sua Chiesa; quella Chiesa che lungo i secoli non ha mai cessato di proclamare coraggiosamente e a gran voce che "il Signore è risorto".
"Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone" (Lc 24,34), si sentono dire i due viandanti, di cui ci ha parlato la lettura evangelica; essi, che probabilmente ritenevano di essere stati i primi e forse i soli fino a quel momento ad aver visto il Cristo tornato alla vita.
Non ci stupisce che "sia apparso a Simone"; cioè che ci sia stato un incontro riservato di Pietro con il suo Salvatore e Maestro: l'aveva rinnegato, lui che era stato posto a capo della comunità ecclesiale, e aveva perciò bisogno di essere risollevato dal baratro in cui era caduto, in modo che - come gli era stato detto nell'ultima cena - "una volta ravveduto sapesse confermare i fratelli" (cfr. Lc 22,32).
Ci meraviglia piuttosto la preferenza data ai due uomini diretti a Emmaus, che non consta avessero tra i discepoli alcuna posizione di rilievo. Forse perché erano i più delusi e disanimati (cfr. Lc 24,21); forse perché erano i più intristiti (cfr. Lc 24,17: "col volto triste"); forse perché erano i più ottusi e i più restii ad affidarsi alle divine promesse: "Sciocchi e tardi a credere!", li interpella senza tanti complimenti il loro misterioso compagno di viaggio: così pensiamo si possa spiegare la preferenza.
Ma appunto per tutti questi motivi ci è facile riconoscerci in loro raffigurati; tanto che poi - mentre contempliamo sgomenti la generale decadenza degli uomini, della mentalità corrente, delle istituzioni, che è sotto i nostri occhi - ci viene spontaneo fare nostra la loro ammirevole implorazione: "Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno volge al declino" (cfr. Lc 24,29).
Da tutte le testimonianze evangeliche si evince che la nuova gloria di Gesù di Nazaret - lungi dall'essere stata provocata dalla patetica volontà dei discepoli di non rassegnarsi alla sconfitta del Golgota e dal loro inconscio desiderio di rifugiarsi in una suggestione inconsistente - ha dovuto faticare per farsi accettare anche da parte dei più affezionati e fedeli. Anche quando lo vedono con gli occhi della carne, essi sulle prime non lo riconoscono nella sua autentica identità. La risurrezione di Cristo non nasce dunque da una fede irrazionale che non vuole arrendersi; piuttosto è la fede arresa e spenta degli apostoli e dei simpatizzanti che - posta a contatto con una effettività concreta, palpabile, incontrovertibile - è ragionevolmente costretta a rinascere e a divampare.
Il Risorto si presenta e si impone come l'irruzione travolgente e vivificante nel nostro mondo vecchio e perituro di una realtà nuova ed eterna. Acquisendo la sua condizione di gloria, egli è uscito dalle angustie del tempo e dello spazio per farsi immanente e attivo in ogni momento della vicenda umana e in ogni luogo dell'universo.
Perciò egli può dire di sé (ed è l'ultima sua parola registrata dal vangelo di Matteo): "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo" (cfr. Mt 28,18.20).
Qui, in queste parole del Risorto, troviamo l'estremo approdo, quasi l'esito cosmico, dell'evento pasquale e al tempo stesso il principio dell'esistenza del Nuovo Israele, che è la Chiesa, il segreto della sua stupefacente vitalità nella storia.
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