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« Torna agli articoli di Giancarla Saglio Dominoni

Spesso le notizie dei giornali e dei media ci interrogano sui fatti della vita, portano a chiederci che cosa faremmo in certe situazioni che peraltro non viviamo in prima persona.
Ma viene anche il momento in cui ci si confronta con qualcosa che si conosce benissimo: potrei dire troppo bene. Ed è precisamente quanto mi accade rispetto alla vicenda di Eluana.
Mio figlio Daniele oggi ha 9 anni, all’età di 4 ha riportato una grave anossia da annegamento e la sua attuale situazione è di 'stato vegetativo persistente'. Ho vissuto quindi l’angoscia al momento dell’incidente, l’ansia dei giorni che passavano segnati da continui peggioramenti, le speranze frustrate di un suo risveglio, il dolore lancinante sia fisico che psicologico di trovarsi catapultati per mesi in ospedale dove impari a convivere e gestire la tracheotomia e l’alimentazione assistita, dove sei costretto a vivere la realtà del 'tuo splendido e meraviglioso bambino' che non parla più, non mangia più, non ti sorride più... non ti corre più incontro.
Da quattro anni siamo tornati a casa, dove con mio marito e gli altri due figli abbiamo dovuto ricominciare una vita diversa, molto diversa.
L’impegno per assistere Daniele ci ha assorbito giorno e notte per molti mesi: solo per alimentarlo ci volevano 18 ore al giorno e tuttora ci alziamo diverse volte ogni notte per girarlo. Se abbiamo potuto fisicamente resistere è perché attorno a noi si è formata una rete di volontari che ci ha permesso di riposare e seguire gli altri due figli. Abbiamo dovuto anche cambiare casa per la necessità di un letto da ospedale e tante attrezzature che in quella precedente non era possibile collocare. Eppure… nonostante queste e tantissime altre fatiche e difficoltà, per tutti noi e per chi frequenta la nostra casa Daniele è una presenza viva: non parla, però nel suo silenzio aiuta e sostiene tanti, stanchi e sfiduciati. I suoi grandissimi occhi azzurri che ci fissano e che riescono a trasmetterci i suoi stati di tranquillità e di fastidio, ci dicono che la vita può avere forme ed espressioni difficilissime da capire ma che è vita piena. Un amico ha scritto che «lo scalpello del dolore è strumento rude e pesante, ma che produce capolavori di grazia», ed è una frase che io pienamente condivido. È difficile da dire, ma in un mondo che insegue l’effimero è la sofferenza che ci obbliga a riflettere sul fine Ultimo della nostra vita e a coglierne il senso.
Noi continueremo a chiedere a Dio che ci faccia la grazia di questa guarigione e tanti amici con noi continuano a pregare, ma sappiamo anche che lo stato di Daniele a suo modo porta frutto. Si è vero, la nostra fede, anche se messa a dura prova, ci ha aiutato e sostenuto, ma è anche vero che il valore assoluto della vita è un dato non solo di fede ma oggettivo. Il nostro vivere ci pone di fronte a responsabilità ben precise nei confronti degli altri: non credo che il 'supposto bene' del singolo possa andare contro il bene generale. In particolare, riferendomi alla sospensione dell’alimentazione a Eluana, penso che oltre ad essere un atto di violenza, anche se compiuto come gesto di pietà, in realtà fa innescare il dubbio che l’uomo possa decidere della vita e della morte e pertanto diventa un atto immorale. Non tutto ciò che è legalmente possibile è eticamente accettabile. Ognuno di noi è chiamato, anche se con sacrificio estremo, ad assumersi grandi responsabilità.
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