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Nel giorno dei diritti contro l’arbitrio con ritrovato senso del dovere.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui ricorre il 60° anniversario, pur essendo perfettibile, è veramente un traguardo importante, almeno a livello teorico. Però, a livello pratico, come ha detto ieri il Papa, «centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora minacciati i loro diritti alla vita, alla libertà, alla sicurezza; non sempre è rispettata l’uguaglianza tra tutti né la dignità di ciascuno» .
Inoltre, nel 1948 l’uomo era più fiducioso circa la possibilità di conoscere la verità sulla realtà, certo non totalmente, ma comunque in parte. In effetti, se la verità sulla realtà è (in parte) conoscibile, almeno in certi casi non è la realtà a doversi adeguare all’uomo, bensì è l’uomo che deve adeguarsi ad essa (ad esempio alla realtà del matrimonio).
Viceversa, in una cultura relativista, presto o tardi, avviene un rovesciamento. Se per relativismo si intende (per chi lo definisce diversamente il discorso cambia) la negazione della possibilità di conoscere la verità, allora tutto è soggettivo, i nostri atti non possono essere giudicati oggettivamente ed ogni singolo uomo è l’unità di misura di tutte le cose. Così, è la realtà che deve adeguarsi all’uomo, alle sue pretese ed ai suoi desideri, ed anche le leggi debbono assecondare ogni suo desiderio e concedergli ogni diritto (pacs – caso emblematico di diritti senza quasi nessuno dei doveri dei coniugi–, 'matrimonio omosessuale', fecondazione artificiale, aborto, ecc.). Come ha detto ieri il cardinal Bertone, tante nostre società mettono «in discussione l’etica della vita e della procreazione, del matrimonio e della vita familiare (...) introducendo unicamente una visione individualistica su cui arbitrariamente costruire nuovi diritti». Insomma, il discorso sui diritti è di per sé molto prezioso ma, in sinergia col relativismo, ha trasformato i desideri in diritti e ha fatto quasi scomparire, nella percezione del soggetto, i suoi doveri verso gli altri (e, in generale, verso la realtà). Si enfatizzano, invece, i doveri che hanno gli altri e, in particolare lo Stato, nei suoi riguardi: anzi, si afferma il dovere dello Stato di praticargli l’eutanasia a richiesta, di finanziargli la fecondazione artificiale e l’aborto... Fino al punto di voler negare l’obiezione di coscienza, imponendo al medico il dovere di prescrivere la pillola del giorno dopo, di praticare l’eutanasia, di praticare l’aborto...
Ancora, pensiamo alle conseguenze della logica relativista spinta all’estremo: se non esiste una realtà conoscibile da rispettare e se la legge mi deve concedere qualsiasi diritto, allora la libertà di ciascuno è assoluta, dunque esiste anche il diritto di negare i diritti altrui; se la libertà è assoluta, ognuno ha la libertà di negare quella altrui. E se pure dei doveri vengono enunciati, se essi sono stabiliti solo in base a una convergenza di interessi, per un’utile convenzione, quando poi il loro rispetto non corrisponde più ai miei interessi, nessuno mi può biasimare se li trasgredisco.
Il discorso cambia quando i doveri esprimono il rispetto che è dovuto alla realtà (conoscibile) delle cose e dell’uomo. Allora, riprendendo in una certa misura Simone Weil, si può dire addirittura che, se esistesse un solo uomo, costui non avrebbe interlocutori a cui reclamare i propri diritti, mentre continuerebbe ad avere dei doveri, almeno quelli verso se stesso. Aveva ragione Giovanni Paolo II quando, laicamente, diceva che «è il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio »
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