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Secondo Alberto Melloni non si vede oggi in giro nessuno che voglia chiudere la Chiesa nelle sagrestie o nel privato: non solo, quindi, avrebbe sbagliato il cardinale Bagnasco ad insistere su questo tasto, aprendo a Rimini i lavori del meeting di Comunione e Liberazione, ma avrebbe in tal modo dato un’ulteriore prova dell’indebita persistenza di quelle paure «antimoderne» che caratterizzerebbero la Chiesa da due secoli a questa parte.
Ha ragione Melloni? No. È evidente infatti che la denuncia del presidente della Cei non intendeva avere per oggetto la situazione istituzionale del nostro Paese; ad onta di tutti coloro che continuano con monotonia a insistere sul rischio dell’affermarsi di nuove «derive autoritarie», le libertà pubbliche e private sono in Italia più che adeguatamente garantite. Si tratta invece di percepire lo specifico delle dinamiche culturali tipiche di questi ultimi anni. È su questo piano che il tentativo di 'chiudere la Chiesa nelle sagrestie o nel privato' è ramificato, subdolo e incessante. Mi spiace che Melloni non riesca a vederlo: cercherò, con un esempio solo, ma molto vistoso, di aprirgli gli occhi.
Consideriamo le più rilevanti questioni bioetiche che lacerano da molti e molti anni l’opinione pubblica mondiale: l’aborto, la procreazione assistita, l’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni (potremmo andare avanti a lungo con l’esemplificazione, aggiungendo ad esempio i temi della famiglia e della scuola). Si tratta di tematiche che non hanno carattere confessionale, che non concernono la comunità cristiana in senso stretto, ma il bene umano in generale, anzi il destino stesso dell’umanità nel nuovo millennio. La Chiesa non esita a prendere posizione al riguardo, non per difendere i suoi dogmi o gli interessi materiali delle sue comunità, ma perché è 'esperta in umanità' e sa che è suo dovere proteggere la dignità umana (ovunque sia minacciata) usando gli strumenti che sono tipicamente i suoi: quelli della ragione morale universale o, come potremmo dire usando un linguaggio solo lievemente più tecnico, della 'legge morale naturale' (che vincola tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti).
A fronte di questo impegno, che può essere ritenuto più o meno convincente, ma che è ed è sempre stato generoso, leale e soprattutto non dogmatico, ma argomentativo, assistiamo a un costante, sistematico e ottuso rifiuto da parte della cultura laicista oggi dominante di aprire con i cristiani un dialogo autentico. I laicisti hanno messo a punto uno strumento teoreticamente rudimentale, ma obiettivamente efficace: bollano come 'cattolici' (senza analizzarne le argomentazioni) tutti coloro che non condividono le loro pretese libertarie e li esortano a difendere i loro valori esclusivamente all’interno delle loro comunità confessionali (li esortano cioè a rinchiudersi 'nelle sagrestie o nel privato'!). In altre parole: proprio perché nulla impedirebbe ai cattolici di vivere privatamente la loro fede e quindi di non abortire, di non richiedere l’eutanasia, di non ricorrere alla fecondazione artificiale, essi non sarebbero abilitati a chiedere un riconoscimento pubblico per tali comportamenti.
In questo modo, ogni tentativo da parte dei cattolici di individuare nel no all’aborto, all’eutanasia o alla procreazione assistita un bene umano oggettivo viene interpretato come una pretesa arbitraria e intollerante. È evidente che non tutti i laici condividono gli slogan radicali del tipo 'no taliban, no vatican' o le pressioni per impedire al Papa di accettare un invito a parlare alla 'Sapienza', ma credo purtroppo che tranne alcune luminose eccezioni questo paradigma sia molto diffuso e sia ben giustificata la fermezza con cui il cardinale Bagnasco ne ha stigmatizzato gli esiti.
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