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« Torna agli articoli di Mauro Faverzani

Di mezzo c'è una questione di coscienza. Niente di meno. Cancellare con un colpo di spugna le feste patronali non è solo faccenda sindacale, né tanto meno ragionieristica. È un provvedimento, che incide direttamente sulle anime. Per difendere le quali i cattolici son chiamati a raccolta e ad usare, se necessario, le armi della dialettica politica e del buon senso, a tutela dei diritti dello spirito.
A recitarlo a chiare lettere è un testo autorevolissimo e vincolante per un credente quale il Catechismo della Chiesa cattolica, che al n. 2188 recita: «Nel rispetto della libertà religiosa e del bene comune di tutti, i cristiani devono adoperarsi per far riconoscere dalle leggi le domeniche ed i giorni di festa della Chiesa come giorni festivi», difendendo anzi «le tradizioni come un prezioso contributo alla vita spirituale della società umana». Poiché le ricorrenze patronali rientrano evidentemente a pieno titolo in tale categoria, va da sé come non vi sia manovra governativa o manovra bis che tenga: l'abolizione non s'ha da fare, né ora né mai.
Del resto, lo stesso Catechismo non adduce ragioni superficiali o velleitarie, tutt'altro: punta in alto e parla direttamente di valori assoluti, universali ed intangibili quali appunto la "libertà religiosa" ed il "bene comune", molto più alti delle beghe partitiche e degli interessi di bottega. Tali, insomma, da costituire una pesante discriminazione ai limiti della cristianofobia, se inapplicati o violati, nei confronti dei milioni di credenti (che sono anche contribuenti, giova ricordarlo...) presenti in Italia, chiamati dagli stessi Comandamenti al rispetto del riposo durante la domenica tanto quanto durante tutte le feste di precetto, come prevede, oltre al citato Catechismo (n. 2193), anche il Codice di Diritto Canonico (n. 1247).
Il quotidiano della Cei, "Avvenire", ha lanciato l'allarme, ricordando come le feste patronali rappresentino la "memoria della comunità", riprendendo così un concetto che già 9 anni fa il prof. Ulderico Bernardi, docente di Sociologia degli Eventi Culturali presso l'Università di Ca' Foscari, a Venezia, ebbe ad esprimere, spiegando come «i riti collettivi» siano «il segno dell'appartenenza ad una comunità e del radicamento della fede dei semplici». Il che sarà anche sociologicamente vero, ma il punto non è principalmente questo. Non siamo di fronte ad un retaggio del passato, bensì a pratiche attuali di una fede viva nell'oggi.
Certamente, l'emendamento, che intende cancellare le ricorrenze patronali, è stato accolto dal relatore della manovra ed approvato dalla Commissione Bilancio del Senato, quindi coi crismi dell'istituzione. Ma ha un autore ben preciso, il Pd, ed un "fiancheggiatore" altrettanto noto, l'Uaar, l'Unione Atei e Agnostici Razionalisti, che ha subito plaudito al provvedimento. Spuntando anche una vittoria nella vittoria ovvero l'aver "salvato" con questa mossa le feste cosiddette "laiche" ovvero il primo maggio, il 25 aprile ed il 2 giugno, queste sì divenute spesso così asfittiche e lontane dal sentire popolare, da rappresentare una sorta di vuota e nostalgica ritualità, di cui pochi capiscono ancora il senso originario.
Vien da chiedersi dove siano tutte quelle associazioni cattoliche dei lavoratori, tanto mute e sorde in tali frangenti quanto pronte in altri a berciare su faccende loro estranee, dall'acqua pubblica al nucleare. Ora, che in Italia ci si debba affidare ai Santi Patroni per sperare di risollevare le sorti di un Paese economicamente e politicamente provato, è un dato di fatto. Ma che si pretenda anche di far pagare loro il conto, questo è veramente troppo...
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