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« Torna agli articoli di Rino Cammilleri

Quando, una decina di anni fa, Ferruccio Parazzoli mi chiese di scrivere per Mondadori una biografia romanzata su sant'Antonio di Padova, mi misi all'opera cominciando, come sempre faccio, col leggere tutto quel che già c'era sull'argomento. Una letteratura, naturalmente, sterminata perché Antonio, dopo la Madonna e San Giuseppe, è il santo più presente sia nella chiese che nella toponomastica mondiale. Come mai? Si queris miracula è, non a caso, l'antica sequenza che proprio di lui parla. Se cerchi miracoli, rivolgiti a sant'Antonio. Infatti, Antonio, i miracoli li faceva già in vita ed era praticamente il Padre Pio del XIII secolo. Ma su di lui, malgrado le tonnellate di pubblicazioni, moltissimi sanno poco.
Innanzitutto non era padovano bensì portoghese e non si chiamava Antonio ma Fernando. Era un canonico agostiniano (l'ordine colto dell'epoca) prima di farsi francescano e mutare nome. Era praticamente l'unico, nel giovane movimento di Francesco, che avesse studiato. E Francesco era inizialmente contrario allo studio, perché temeva montasse la testa. Ma la Cristianità in quel momento aveva due tremendi nemici, tanto per cambiare, uno interno e uno esterno. Quello esterno era l'islam. Quello interno, i catari. Del primo problema si fece carico personalmente Francesco, recandosi a predicare (vanamente) al Sultano durante la crociata. Per il secondo, mandò il suo uomo migliore, Antonio, che infatti fu fatto responsabile dei conventi della Provenza e della Lombardia. Cioè, le zone infestate dai catari. Ma anche le zone più ricche e colte della Cristianità. Per Provenza e Lombardia a quel tempo si intendeva tutto il Meridione francese e tutto il Settentrione italico.
Contrariamente a quel che si crede, Francesco elevò il suo Cantico delle creature non perché preso da raptus mistico, bensì per contestare in radice la dottrina catara. Questa sosteneva che la Creazione fosse opera di un malvagio Demiurgo, mentre il Dio buono aveva creato solo le anime e queste erano imprigionate nei corpi. E Francesco si chiamava così perché sua madre era provenzale. Antonio, coltissimo ed eccezionale predicatore, affrontò più volte pubbliche dispute coi catari, uscendone sempre vincitore. Per questo, grazie a intimidazioni, non di rado gli facevano trovare le piazze vuote. Come a Rimini, epicentro cataro. Qui Antonio predicò ai pesci proprio per dare un segnale ai catari. Questi non mangiavano carne né uova né formaggio, perché frutto di copula. Ma i pesci sì, perché era l'unico animale sopravvissuto al Diluvio. Antonio, dunque, non fece un miracolo inutile ma precisamente diretto. Molti pensano che si sia trattato di imitazione di Francesco che predicò agli uccelli. Ma neanche Francesco sprecava miracoli: gli uccelli facevano troppo rumore e gli impedivano di predicare, coprendo le sue parole (e lui era debole di petto).
Quando si scrive un romanzo storico e biografico, si deve scegliere il cosiddetto taglio. Io scelsi la prima persona, anche per fare cosa diversa dalle biografie agiografiche precedenti (e successive). Il libro si apre con Antonio che, presentendo la morte, si prepara all'ultimo assalto del diavolo: sa che questi scatenerà tutte le sue forze per il momento finale, dopo il quale sarà per lui troppo tardi. Antonio, che aveva lottato (anche fisicamente) coi diavoli tutta la vita, sa bene che la sua arma migliore è l'umiltà. Così, ripercorre mentalmente tutta la sua esistenza per ricordarsi che deve tutto a Dio e solo a Lui. I moltissimi miracoli del santo sono stati esposti ricorrendo a un espediente narrativo: lettere di testimoni oculari. Il balivo, responsabile dell'ordine pubblico, che scrive al collega di un'altra città o al superiore. L'abate che racconta quel che ha visto a un vescovo. Il mercante che informa la moglie. E così via. Ne è uscito Io e il diavolo. Sant'Antonio racconta la sua storia (Mondadori), che oggi viene riproposto dalle edizioni Lindau col titolo Io e il diavolo. Il romanzo di sant'Antonio di Padova. Un robusto romanzo storico. Secondo alcuni, la cosa migliore che io abbia mai scritto.
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