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In occasione del 140° anniversario della presa di Roma (20 settembre 1870), riportiamo una ricostruzione dell’evento tratta dal libro del prof. Roberto de Mattei, Pio IX (Piemme, Casale Monferrato 2000).
La guerra franco-prussiana del 1870 dissolse il sogno imperiale di Napoleone III e realizzò quello, altrettanto fugace, di Bismarck. Grazie alla sua rapida e schiacciante vittoria sull’esercito francese, il cancelliere “di ferro” non solo portò a termine l’unificazione tedesca, creando il Secondo Reich, ma contribuì a compiere, con la conquista piemontese di Roma, la “Rivoluzione italiana”, lasciata incompiuta dal conte di Cavour. Gli avvenimenti precipitano nell’estate del 1870. Il 27 luglio l’ambasciatore francese a Roma Bonneville comunica al cardinale Antonelli la notizia della prossima partenza delle truppe francesi.
Il 2 settembre 1870, con la notizia della disfatta di Sédan, risuonano per le strade di Parigi le grida di “Vive la République!”. Una settimana dopo la sconfitta francese, il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, smentendo quanto il 22 luglio aveva assicurato a Napoleone III, notifica alle potenze estere la imminente occupazione dello Stato della Chiesa da parte delle truppe italiane.
L’8 settembre, Vittorio Emanuele II invia presso Pio IX il conte Gustavo Ponza di San Martino per offrire al Pontefice la “protezione” delle sue truppe. In una lettera che rappresenta un capolavoro di ipocrisia, il sovrano italiano scrive al Papa che, al fine di impedire le violenze che potrebbero essere promosse dal «partito della rivoluzione cosmopolita», egli vede «la indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede che le mie truppe già poste ai confini s’inoltrino ad occupare quelle posizioni che saranno indispensabili per la sicurezza della Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine». Leggendo la lettera, Pio IX reagisce con energia e, rivolgendosi al conte Ponza, esclama: «Razza di vipere, sepolcri imbiancati! (…) Ecco dove la rivoluzione ha fatto scendere un re di Casa Savoia! (…) Senz’essere né profeta, né figlio di profeta, vi dico che a Roma non vi resterete». Il Papa scrive quindi immediatamente a Vittorio Emanuele: «Dal conte Ponza di San Martino mi fu consegnata una lettera che V. M. ha voluto dirigermi, ma che non è degna di un Figlio affettuoso, che si gloria professare la fede cattolica e si pregia di lealtà regia. Non entro nei dettagli della lettera stessa per non rinnovare il dolore che la prima lettura mi ha cagionato. Benedico Dio che ha permesso a V. M. di ricolmare di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Del resto Io non posso ammettere certe richieste, né conformarmi a certi principi contenuti nella sua lettera. Nuovamente invoco Dio e rimetto nelle Sue mani la mia causa, che è tutta sua. Lo prego a concedere molte grazie alla M. V., liberarla dai pericoli e dispensarle le misericordie di cui abbisogna. Dal Vaticano 11 settembre 1870. Pius PP. IX».
Nel pomeriggio di quel giorno Pio IX si reca sulla piazza di Termini per inaugurare davanti a una folla calorosa il nuovo Acquedotto dell’Acqua Marcia. I presenti lo descrivono calmo e sorridente, senza traccia sul viso del subbuglio che doveva agitargli il cuore. Senza attendere la risposta del Papa, il Consiglio dei Ministri, il 10 settembre, delibera che il giorno successivo le truppe italiane, sotto il comando del generale Raffaele Cadorna, inizino l’occupazione dello Stato Pontificio. Le forze italiane contano circa 60.000 uomini contro un totale di 13.000 effettivi dell’esercito pontificio.
L’8 settembre il Lanza aveva spedito al prefetto di Caserta e al prefetto di Cagliari due telegrammi per raccomandare massima sorveglianza per Mazzini incarcerato a Gaeta e per Garibaldi quasi esule a Caprera. Il 18 settembre, domenica, la giornata è bellissima. Le porte di Roma sono chiuse e il popolo, non potendo andare nelle osterie di campagna, passeggia sulle alture del Gianicolo, per vedere i sessantamila italiani accampati attorno alle mura della città. È evidente la difficoltà per il piccolo esercito pontificio di difendere l’immenso perimetro delle mura di Roma. Ufficiali e soldati del Papa fregiano la divisa di una piccola croce capovolta in lana rossa, la Croce di San Pietro, a somiglianza delle medaglie commemorative fatte coniare da Pio IX per la battaglia di Castelfidardo. Il 19 settembre Pio IX manifesta al Generale Kanzler le sue decisioni con una lettera in cui scrive: «Signor Generale, ora che si va a consumare un gran sacrilegio, e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un Re Cattolico, senza provocazione, anzi senza nemmeno l’apparenza di qualunque motivo, cinge di assedio la capitale dell’Orbe Cattolico, sento in primo luogo il bisogno di ringraziare Lei, sig. Generale, e tutte le nostre truppe della generosa condotta finora tenuta, dell’affezione mostrata alla Santa Sede e della volontà di consacrarsi interamente alla difesa di questa Metropoli. Siano queste parole un documento solenne che certifica la disciplina, la lealtà ed il valore della truppa al servizio di questa Santa Sede. In quanto poi alla durata della difesa sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza, e nulla più: cioè di aprire trattative per la resa appena aperta la breccia. In un momento in cui l’Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi Nazioni, non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo quantunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire ad un grande spargimento di sangue. La Causa Nostra è di Dio, e Noi mettiamo tutta nelle Sue mani la nostra difesa».
La sera stessa, mentre giunge la notizia che il giorno seguente sarebbe avvenuto l’attacco, Pio IX, percorrendo per l’ultima volta le vie di Roma, si reca a San Giovanni in Laterano, sale in ginocchio la Scala Santa e, giunto in cima, con voce rotta dal pianto implora: «A te, mio Dio, mio Salvatore, a te mi rivolgo, servo dei servi, e indegnissimo tuo Vicario: ti supplico per il sangue sparso per questo luogo, di cui Io sono il dispensatore supremo, e ti prego per i tuoi tormenti e per il sacrificio che hai fatto montando volontariamente questa scala di obbrobrio per offrirti in olocausto per un popolo che t’insultava, per il quale andavi a morire sopra un tronco infame: abbi pietà del tuo popolo, della Chiesa, tua amatissima sposa. Sospendi lo sdegno, la tua giusta collera. Non permettere ai tuoi nemici di venire a profanare la tua dimora. Perdona al mio popolo, che è pure tuo! E se un olocausto è necessario, se è necessaria una vittima, eccomi o Signore: non ho vissuto abbastanza? Pietà, mio Dio, pietà ti prego; ma qualunque cosa avvenga, sia sempre fatta la tua volontà».
Alle 5,15 del 20 settembre 1870, l’osservatorio di Santa Maria Maggiore avverte il ministero della Guerra che le batterie nemiche hanno aperto il fuoco contro Porta Pia che, per la sua posizione, costituisce il punto più vulnerabile della città. Il Papa, in previsione degli avvenimenti, ha da qualche giorno invitato gli ambasciatori e i ministri delle Corti straniere a volersi recare da lui ai primi colpi di cannone. Fin dalle sei e mezza del mattino, tutti i diplomatici sono riuniti in Vaticano dove assistono alle Messa privata del Pontefice, celebrata tra il rombo delle cannonate e gli scoppi delle granate. Pio IX, rimasto a pregare nel suo oratorio, rientra nella Sala del Trono verso le nove.
Mentre si intrattiene con il Corpo Diplomatico, riunito attorno a lui come nei lontani giorni del novembre 1848, giunge il cardinale Antonelli con un dispaccio in mano: è la notizia che una breccia è aperta nelle mura della villa Bonaparte a sinistra di Porta Pia. «Il Rubicone è passato: Fiat voluntas tua in coelo et in terra» mormora Pio IX. Poi, rivolgendosi ai diplomatici: «Signori io dò l’ordine di capitolare: a che difendersi più oltre! Abbandonato da tutti, dovrei tosto o tardi soccombere, ed io non debbo far versare sangue inutilmente. Voi mi siete testimoni, Signori, che lo straniero non entra qui che con la forza».
L’ordine agli zuavi, che chiedono di combattere a oltranza, è quello di limitare la resistenza a quel tanto che è necessario per dimostrare al mondo che il Papa non rinuncia ai suoi diritti ma cede alla violenza. Lungo le mura che cingono la Città Eterna, nell’interminabile pausa di silenzio che precede l’attacco, si leva in quel momento l’ultimo cantico di fedeltà degli zuavi: «Flottez au vent, triomphantes bannières Gloire à vous tous, chevaliers de Saint Pierre!».
Mentre il fumo si dirada, il capitano Berger ne intona una strofa in piedi sulle macerie della breccia di Porta Pia, tenendo la spada per la lama, con l’impugnatura rivolta al Cielo, come ad offrire a Dio l’estremo sacrificio: quello di una resistenza ad oltranza mancata. Già la bandiera bianca sventola sulla cupola di San Pietro. La Rivoluzione risorgimentale è compiuta. «In questo momento che scrivo – annota Francesco De Sanctis, interrompendo la stesura della sua Storia della letteratura italiana – le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria a Machiavelli».
Al mattino del 21 settembre 1870, le milizie pontificie, dopo aver passato l’intera notte sotto il porticato di San Pietro, si raccolgono sotto le finestre del Vaticano. Il colonnello canadese Allet, fatto formare il quadrato, fa presentare per l’ultima volta le armi al grido di «Viva Pio IX, Papa-Re!». Il 9 ottobre Roma e il suo territorio vengono annessi al ragno d’Italia per decreto reale.
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