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« Torna agli articoli di Anna Bono

Se c’è un ambito in cui la Cina non è un modello è quello del rispetto della natura. E' noto che il 70% dei suoi fiumi e dei suoi laghi sono inquinati da liquami dispersi senza trattamenti depuranti e da rifiuti industriali al punto che in molti casi le loro acque non possono essere usate neanche più per l'irrigazione. Le falde sotterranee del 90% delle città non forniscono più acqua potabile e oltre 300 milioni di agricoltori bevono acqua contaminata da fluoro, arsenico, solfato di sodio e altri elementi nocivi.
Ma i reati ambientali di cui la Cina è responsabile sono addirittura di portata planetaria se è vero che persino in California quasi un terzo dell’inquinamento atmosferico si deve ormai alle emissioni cinesi.
Malgrado abbia firmato il Protocollo di Kyoto nel 1998 e lo abbia ratificato nel 2002, Pechino è anche il maggior produttore di gas serra del mondo, avendo superato nel 2006 gli Stati Uniti. Le sue emissioni di anidride carbonica sono aumentate per anni di pari passo con la crescita del PIL e, secondo la Banca Mondiale, ogni anno smog e inquinamento uccidono circa 750.000 cinesi.
La Cina sarebbe quindi anche il primo responsabile del riscaldamento globale, se tale fenomeno si stesse davvero verificando e se le attività umane ne fossero realmente la causa determinante, come continuano a sostenere gli studiosi che collaborano con l’IPCC, il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. È una fortuna che ciò non sia vero, almeno stando alle affermazioni di un numero crescente di scienziati, perché è difficile immaginare che Pechino sia disposta a rivedere drasticamente le proprie strategie di sviluppo per la salvaguardia dell’ambiente.
Ma del riscaldamento globale l’economia cinese si potrebbe piuttosto avvantaggiare se il prossimo dicembre, a Copenhagen, il mondo, chiamato a decidere il dopo Protocollo di Kyoto, desse credito all’origine antropica delle variazioni climatiche e soprattutto decidesse di accettare la richiesta cinese di gravare di onerosissime misure anti riscaldamento globale i paesi industrializzati. Il 21 maggio Pechino ha infatti proposto, attraverso la propria Commissione Nazionale per lo sviluppo e le riforme, che questi ultimi a Copenhagen riconoscano “la loro responsabilità storica di aver introdotto nell’atmosfera sostanze inquinanti senza freni”, si impegnino a modificare “radicalmente il loro stile di vita divenuto ormai insostenibile” e garantiscano “obiettivi quantificati per ridurre drasticamente le emissioni”. In sostanza si vuole che riducano le emissioni di gas serra almeno del 40% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990 e devolvano dallo 0,5 all’1% del loro Prodotto interno lordo alle altre nazioni per dotarle di nuove tecnologie e aiutarle a ridurre a loro volta le emissioni inquinanti e a far fronte al surriscaldamento del pianeta.
Pare che la proposta cinese trovi d’accordo India, Brasile e Africa. Inoltre ha un alleato influente nel Wwf, come è emerso nel corso della prima Conferenza Mondiale sullo Stato degli Oceani svoltasi a Manado, Isola di Sulawesi, Indonesia, dove anche il Wwf ha avanzato esattamente le stesse richieste dopo aver presentato ai 1.800 delegati convenuti a Manado da tutto il mondo i risultati di una ricerca secondo cui, se i paesi di più antica industrializzazione non accetteranno le richieste formulate, le barriere coralline subiranno alterazioni tali da compromettere la sopravvivenza del 76% delle specie di coralli e del 35% delle specie di pesci che vivono nel sistema delle barriere coralline, privando dei mezzi di sussistenza oltre 100 milioni di persone.
Sembra proprio che si tenti di fare della conferenza di Copenhagen la versione in chiave ambientalista di quella di Durban per i diritti umani: tutte le colpe all’Occidente, risarcimenti astronomici per rimediare, ammissione di aver creato un modello di sviluppo folle che porterà alla rovina del pianeta e dell’umanità...il tutto all’insegna di un’inedita convergenza dei movimenti ecocatastrofisti con il paese che invece dovrebbe essere il primo bersaglio delle loro campagne in difesa della natura.
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