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Riportiamo un intervento del prof. Corrado Gnerre in risposta all’articolo comparso su “Avvenire” del 1° dicembre scorso a firma di Massimo Introvigne, critico nei confronti del recente testo pubblicato da Roberto de Mattei: Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, edito dalla casa editrice Lindau.
Le accuse che Massimo Introvigne muove al libro del prof. de Mattei sono fondamentalmente due: l’autore non avrebbe adeguatamente “separato” i testi conciliari dalla dimensione dell’“evento” Concilio e inoltre l’autore avrebbe rifiutato la cosiddetta “ermeneutica della continuità” (tanto raccomandata e sollecitata da Benedetto XVI) per sostenere invece un’“ermeneutica della rottura”.
Per quanto riguarda la prima accusa, Introvigne scrive: «[Roberto de Mattei] conclude che i documenti [del Concilio] fanno parte dell’evento, fuori del quale perdono significato. Ma la teoria sociologica dell’evento non afferma che sia impossibile la distinzione fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere applicato di qualunque documento che si presenta come autorevole, saremmo di fronte a una sorta di strutturalismo, o un’applicazione al Magistero di quelle teorie – pure criticate da de Mattei con riferimento alla Bibbia – che riducono la Sacra Scrittura alla sola redazione e forma, dove ogni brano è smontato e decostruito in un gioco di riferimenti perpetuo».
Mi sembra, però, che questo tipo di critica non centri bene la questione, perché se è vero, come dice Introvigne, che un testo può essere separato dal contesto, è pur vero che c’è testo e testo e qualsiasi indagine che voglia davvero dirsi scientifica deve prendere in considerazione anche come il testo in questione è scritto e soprattutto perché è stato scritto. Ora, sembra proprio che i testi conciliari non possano essere separati da una motivazione di fondo, che fu quella non solo di “avvicinarsi” alla modernità, ma anche di rilevare della modernità principalmente il positivo, trascurando la differenza tra il “moderno” come categoria filosofica e il “moderno” come semplice sviluppo della tecnica.
Quando Introvigne allude alla Sacra Scrittura fa un esempio che non regge, perché essa (la Sacra Scrittura) non è suscettibile di un’interpretazione strutturalista, in quanto nella sua stesura vi sono motivazioni secondo cui la Parola debba costituire salvezza del mondo e non viceversa. Dai testi conciliari, invece – come dicevo prima – si evince un intento di recuperare la modernità e di mettersi in ascolto dei segni dei tempi. Insomma, i documenti conciliari, optando per un’impostazione pastorale, utilizzano un tipo di linguaggio che è d’incontro con la modernità; un linguaggio che risente di quella tipica atmosfera degli anni ’60, cioè di fiducia per l’immediato futuro, che oggi è difficilmente proponibile e che la storia degli ultimi decenni ha anche chiaramente smentito. Ed è proprio l’impostazione pastorale di quei documenti che rende difficile ed anche impropria la separazione testo-contesto.
L’altro punto è senza dubbio più complesso ed è quello riguardante l’“ermeneutica della continuità”. Benedetto XVI lo ha detto chiaramente più volte, ma soprattutto nel famoso discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: il Concilio Vaticano II deve essere interpretato alla luce della Tradizione di sempre della Chiesa, e quindi non può esserci rottura tra ciò che è stato insegnato prima e ciò che è stato insegnato con questo concilio. La questione però dov’è? Cosa significa davvero “ermeneutica della continuità”?
Ciò che dice il Papa è una constatazione di ciò che era davvero nell’intenzione di tutti i padri conciliari o invece di ciò che non poteva non accadere? Mi spiego meglio: i testi del Concilio sono davvero tutti nella continuità, oppure dobbiamo fare in modo che lo siano perché non può esserci rottura tra gli atti ufficiali del Magistero? Il celebre teologo, monsignor Brunero Gheraradini, decano della Lateranense, afferma nel suo Concilio Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana) che l’“ermeneutica della continuità” non può non essere anche “ermeneutica teologica”. E dal momento che i testi conciliari, per loro stessa ammissione, non sono dogmatici e definitori, si potrebbe anche intervenire su di essi, perlomeno per chiosarli con un documento chiarificatore in maniera che non possa su di essi essere applicata nessuna ermeneutica della rottura. Da qui anche l’auspicio con cui monsignor Gherardini conclude il suo libro indirizzando una supplica al Santo Padre: «Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità, se prima non si sia proceduto ad un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d’ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote […].
A ciò ripensando, da tempo era nata in me l’idea – che oso ora sottoporre alla Santità Vostra – d’una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull’ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti». Insomma, Introvigne dovrebbe capire che la definizione “ermeneutica della continuità” può essere suscettibile di due possibili interpretazioni: “minimalista” e “massimalista”. La “minimalista”, che afferma la continuità, ma conservando tutto com’è; la “massimalista”, che afferma ugualmente la continuità, ritenendo però necessario intervenire con un eventuale documento per annotare quelle parti dei testi conciliari che più difficilmente sono armonizzabili con i documenti del magistero precedente. È “ermeneutica della continuità” in entrambi i casi. Infatti, non mi sembra che né il testo di Roberto de Mattei né tantomeno ciò che affermano coloro che vogliono che il dibattito sulla storia e sui documenti del Vaticano II si sviluppi adeguatamente pretendano di cancellare ciò che è avvenuto. Il Concilio Vaticano II è un fatto. Piuttosto da parte di costoro si vuole prendere in considerazione l’opportunità di andare molto più a fondo per capire davvero le cause di un ormai troppo lungo “inverno” della Chiesa.
Pur essendo molto conosciute e frequentemente citate, voglio ugualmente ricordare alcune parole di Paolo VI: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio». Dunque, Paolo VI non evita di citare il Concilio, e ovviamente nessuno giudicherebbe quel Papa come un Papa anticonciliare. Certamente i segni della crisi erano già prima, ma indubbiamente sono esplosi da quell’“evento”.
Rimane poi una questione di non poco conto. Mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso, un atto per giunta pastorale, quindi che ha volutamente utilizzato un linguaggio che sarebbe dovuto essere quanto più possibile chiaro, semplice e aperto a tutti. Già questo dovrebbe far capire che la questione che pone il testo di Roberto de Mattei di andare ad approfondire la storia del Vaticano II per capirlo fino in fondo, sia una questione tutt’altro che irrilevante.
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