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La dottrina sociale della Chiesa, fin dalle sue origini, attribuisce ai giudici un'altissima funzione. Comunque questi siano scelti, insegna Leone XIII, la loro autorità come quella dei reggitori degli Stati viene da Dio, che il giudice rappresenta in Terra nell'altissima funzione di rendere giustizia. Il sospetto pregiudiziale nei confronti dei magistrati non appartiene dunque alla storia culturale dei cattolici.
Vale però per i giudici quello che vale per i governanti. Il loro potere non è assoluto, cioè "solutus ab", sciolto da ogni limite e da ogni vincolo. Né il limite - e sta qui la differenza fra la dottrina sociale della Chiesa e il positivismo giuridico - deriva solo dalle leggi e dalle Costituzioni. C'è un limite in alto, che deriva dalla legge naturale che per i credenti ha Dio per autore, ma che in quanto accessibile alla retta ragione vincola anche i non credenti, la cui osservanza garantisce il rispetto del limite in basso, costituito dai diritti inviolabili delle persone e delle comunità.
Come insegna Benedetto XVI nella "Caritas in veritate" ogni volta che un potere - tanto più se si tratta di un potere non elettivo - rifiuta i limiti in alto e in basso e, in nome di un presunto sapere superiore, viola i principi della legge naturale e prevarica sulle legittime aspirazioni delle persone, la sua funzione tecnica degenera in una ideologia, la tecnocrazia.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito a due episodi controversi, che inducono a riflettere sull'intera questione della funzione del giudice e dei suoi limiti. Il Tribunale di Roma ha deciso la scarcerazione dei teppisti che hanno messo a ferro e fuoco il centro di Roma, picchiando poliziotti, assaltando Bancomat e bruciando automobili, chiamandoli sempre nel suo provvedimento e nelle interviste dei magistrati "manifestanti", quasi che la violenza cieca fosse parte del legittimo diritto di protestare e manifestare. La Corte Costituzionale ha deciso che l'immigrato clandestino che versi in condizioni d'indigenza non può essere espulso.
Sulla prima ordinanza il dissenso è stato vasto, e il semplice buon senso fa capire che il buonismo vagamente sessantottino che dimostra comprensione per chi spacca vetrine e aggredisce poliziotti rischia di persuadere altri teppisti che queste bravate comportano pochi rischi, violando i diritti dei pacifici cittadini che, se si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato, rischiano la macchina bruciata e un ciottolo in testa, per non parlare degli agenti costretti nuovamente a rischiare la vita come negli anni di piombo.
La sentenza della Corte Costituzionale rischia di essere scambiata per un gesto di umanità: non insegna forse la Chiesa che i poveri vanno accolti sempre, a prescindere dai timbri e dai bolli? È certamente così, ma non si deve fare confusione fra la misericordia e la giustizia, fra il ruolo dello Stato e quello della carità di cui la Chiesa si fa interprete. Se un assassino finisce in carcere, lì la misericordia della Chiesa lo raggiunge, lo aiuta, lo esorta alla conversione. Ma questo non significa che il giudice, la cui funzione è diversa da quella del cappellano del carcere, non abbia il dovere di condannarlo. Se, convinto della sua colpevolezza, non lo condanna per malinteso buonismo il giudice non compie un atto di misericordia ma una grave violazione del suo dovere di stato.
La clandestinità, piaccia o no, è un reato: non solo in Italia ma in numerosi altri Paesi che ci sono spesso portati a esempio come "avanzati" e "moderni". È anche una fabbrica di altri reati, perché molti clandestini sono arruolati dalla criminalità.
Quando il clandestino, nonostante la vigilanza, arriva in Italia, la misericordia della Chiesa lo rifocilla, lo veste, lo aiuta a superare i disagi anche quando deve ritornare al suo Paese. La Chiesa fa il suo mestiere, e chi la critica sbaglia.
Lo Stato, però, non è la Chiesa. Come insegna, ancora, la "Caritas in veritate" deve assicurare l'equilibrio fra il dovere di accoglienza, che esiste, e il diritto della società ospitante, che non può comunque accogliere un numero illimitato d'immigrati, alla sicurezza e all'integrità. Dire che tutti i clandestini indigenti, come afferma la Corte Costituzionale, hanno diritto a rimanere in Italia significa affermare che tutti i clandestini possono venire e restare, dal momento che in pratica non esiste nessun clandestino che non dichiari di essere povero, e la grande maggioranza lo è davvero.
Con questa sentenza la Corte Costituzionale colloca sulle nostre frontiere un grande cartello "Ingresso libero e gratuito ai clandestini", affermando implicitamente che il governo non ha il diritto di regolamentare l'immigrazione e che questa può avvenire senza limiti e senza quote.
Nonostante le affermazioni di qualche religioso, animato da buone intenzioni che lo portano a confondere il ruolo di misericordia della Chiesa con quello di giustizia dello Stato, questa prospettiva nuoce al bene comune e non è conforme né alla legge naturale né alla dottrina sociale cattolica. Entrambe insegnano che esiste un dovere di accoglienza dell'immigrato, ma questo non è assoluto e trova un limite nel dovere dello Stato di regolamentare e limitare l'immigrazione dopo un prudente apprezzamento del bene comune.
Nessun territorio può accogliere un numero illimitato d'immigrati. Se ho una casa costruita per cinque persone, se ci accolgo in più cinque bisognosi pratico la carità in grado eroico ma se cerco di accoglierne cinquanta sono uno stolto che viola i diritti sia della propria famiglia sia dei bisognosi, costretti ad ammassarsi in condizioni inumane.
Se i giudici m'impongono di accogliere cinquanta immigrati in uno spazio che ne può contenere cinque, per di più opponendosi alla volontà chiaramente espressa da governo e parlamento, fanno prevalere un giudizio ideologico sul reale e sul bene comune. Non esercitano la democrazia ma la tecnocrazia, e con questi giudici abbiamo un problema.
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