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« Torna agli articoli di Anna Bono

In vista della conferenza internazionale sul clima che si svolgerà a dicembre a Copenhagen per discutere del dopo Kyoto, 10 stati africani si sono riuniti il 25 agosto ad Addis Abeba, sede dell’Unione Africana, e hanno presentato al mondo il conto dei cambiamenti climatici in Africa: 46 miliardi di dollari all’anno.
Quella di Addis Abeba è la prima di una serie di riunioni in vista dell’appuntamento di dicembre al quale il continente intende presentarsi unito affidando all’Algeria il compito di coordinare le proprie richieste.
Il presupposto su cui si fondano le rivendicazioni africane è che sia in atto un fenomeno climatico anomalo determinato dall’inquinamento atmosferico prodotto dall’uomo. Il pianeta si starebbe surriscaldando a causa delle emissioni di anidride carbonica dovute per il 78% ai paesi industrializzati del nord del pianeta e, pur essendo quasi nullo il peso delle emissioni africane, proprio l’Africa starebbe pagando fin da ora il prezzo più elevato per l’incuria ambientale altrui.
La prima domanda che sorge alla notizia delle richieste di Addis Abeba è come sia stato possibile quantificare con tanta precisione danni e oneri finanziari attuali e futuri di una realtà così diversificata e complessa. Forse nessun altro continente finora è riuscito a fare altrettanto.
In realtà ben altri punti interrogativi stanno a monte. Infatti che la temperatura della Terra stia aumentando in maniera allarmante e che si tratti di un processo destinato a continuare nel tempo è materia di fondate contestazioni da parte di migliaia di scienziati i quali inoltre sostengono che il fattore umano, se mai così fosse, sarebbe quasi irrilevante dovendosi attribuire l’eventuale global warming – così come il fenomeno opposto – a fattori naturali quali ad esempio l’andamento delle macchie solari. È inesatto, inoltre, che una temperatura più elevata comporti solo danni irrimediabili.
Come ha spiegato Bjorn Lomborg, nel suo libro del 2008 Stiamo freschi (edito da Mondadori), un pianeta più caldo comporterebbe non pochi vantaggi e, quanto ai danni, si può supporre che l’umanità saprebbe trovare dei rimedi come ha sempre fatto anche quando disponeva di tecnologie e conoscenze assai meno efficaci.
Il problema dell’Africa è che quasi tutti i pastori e gli agricoltori del continente non utilizzano neanche i più elementari sistemi di controllo delle acque: raccolti e bestiame dipendono quindi dalla regolarità con cui piove. Ma da sempre, per una stagione ideale, altre ne arrivano in cui le piogge sono scarse, eccessive, intermittenti, anticipate o tardive: la memoria storica delle etnie africane si organizza sul ricordo di un susseguirsi infinito di carestie dovute a siccità che inaridiscono la terra e ad alluvioni che travolgono campi, animali e villaggi.
Come se non bastasse gli agricoltori africani devono fare i conti dalla fine dell’epoca coloniale con governi che non solo ne trascurano gli interessi, ma, tramite ad esempio le casse di stabilizzazione dei prezzi, si appropriano dei loro raccolti lasciandoli privi di risorse e stornano nei loro conti in banca i capitali destinati alla promozione delle attività rurali.
Il 20 agosto, per non citare che un caso tra tanti, sono stati divulgati i risultati di un’inchiesta svolta in Camerun da una ONG locale dai quali risulta che la corruzione dilagante nel ministero dell’agricoltura a tutti i livelli ha raggiunto livelli tali da minacciare seriamente la sicurezza alimentare del paese. L’ultimo scandalo riguarda delle sovvenzioni statali per i coltivatori di mais – alimento base della popolazione – dirottate dai funzionari ministeriali: tre milioni di euro sono svaniti nel nulla. Di casi del genere in tutto il continente – dal Kenya allo Zimbabwe, dalla Nigeria al Sudafrica – se ne contano a decine ogni anno.
Così, mentre le Nazioni Unite e gli stati pagano equipe di scienziati e organizzano conferenze e summit internazionali milionari per sapere che cosa succederebbe se la temperatura aumentasse di un certo numero di gradi e il livello dei mari si alzasse di un certo numero di metri, corruzione, incapacità e avidità di governi irresponsabili consumano e sprecano risorse immense.
Il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici (Ipcc) due anni fa ha calcolato che l’innalzamento di un metro del livello delle acque marine metterebbe sott’acqua il 20% del delta egiziano del Nilo e che un aumento di 14 metri lo sommergerebbe del tutto allagando anche la periferia del Cairo: ma sono solo proiezioni.
Meglio sarebbe investire in tecnologie, infrastrutture, repressione della corruzione e del malgoverno affinché anche l’Africa come altri continenti disponga del necessario per far sì che lavoro umano e risorse naturali rendano sicura e longeva la vita umana malgrado le variazioni climatiche e i capricci atmosferici.
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