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Ieri è stato il giorno della bambina 7 miliardi, secondo la scelta convenzionale fatta dall'Onu. A parte la grottesca battaglia tra Filippine e India – innescata sempre dall'Onu - per aggiudicarsi il titolo di paese della "fortunata" nascita (c'era un premio economico), rispetto al passato è sembrato che la data sia stata celebrata con una certa stanchezza.
Probabilmente si sta diffondendo la consapevolezza che non funziona più il vecchio slogan "Siamo troppi", finalizzato a sostenere politiche di controllo delle nascite. In 60 anni i tassi di fertilità sono crollati da una media globale di 6 figli per donna a circa 2,5 e la tendenza è all'ulteriore diminuzione. E anche se la popolazione continuerà ad aumentare ancora per un po' (le ultime stime parlano di circa 10 miliardi per la fine del secolo) appare sempre più evidente che non sarà per via dell'eccesso di nascite, ma casomai dall'aumento dell'aspettativa di vita e dalla diminuita mortalità infantile.
La situazione demografica mondiale, peraltro, è molto complessa, difficile da riassumere in slogan: tanto per fare qualche esempio, l'Occidente registra da decenni una denatalità così forte da essere questo uno dei problemi strutturali alla base dell'attuale crisi economica. Tra paesi ricchi e paesi emergenti lo squilibrio demografico (in termini di rapporto tra giovani e anziani) è impressionante e non è certo il fenomeno migratorio che può compensarlo. Anzi, le migrazioni rischiano di esacerbare le differenze, visto che la tendenza all'uscita dai paesi poveri per cercare migliori opportunità si scontra con una sempre minore capacità dei paesi ricchi di offrire un lavoro e una situazione sociale stabile. Inoltre, le violente campagne di controllo delle nascite praticate negli ultimi decenni hanno provocato – oltre alla palese violazione dei diritti umani - gravissimi squilibri all'interno di Paesi come Cina e India, che da soli sono abitati dal 35% della popolazione mondiale: squilibri sia generazionali (l'invecchiamento della popolazione non è solo un problema occidentale) sia di genere, data l'eliminazione di decine di milioni di bambine tramite aborto selettivo e infanticidio.
Riconoscendo la complessità della situazione anche il direttore del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), Babatunde Osotimehin, nel presentare l'ultimo rapporto sulla popolazione ha detto che «invece di chiederci 'Siamo troppi?' dovremmo chiederci 'cosa posso fare per migliorare il mondo?'».
Una svolta importante, visto che l'UNFPA è tradizionalmente l'agenzia dell'ONU che ha sempre spinto sul tasto della sovrappopolazione e continua a sostenere massicci programmi di controllo delle nascite. Ma chissà perché questa svolta non ci tranquillizza.
L'accento si è ora spostato infatti sul presunto squilibrio tra popolazione e risorse, quindi il richiamo è a "consumi sostenibili" in ossequio all'ecologismo dominante, e si guarda con preoccupazione all'aumento esponenziale della popolazione anziana. Tra le righe si capisce che, seppure ci si congratula per le migliori condizioni di vita raggiunte che hanno permesso l'aumento dell'aspettativa di vita – a livello mondiale - dai 48 ai 68 anni in sessanta anni, in realtà si è preoccupati del peso economico che questo comporta: non solo nei paesi sviluppati, ma soprattutto nei paesi emergenti dove tale rapida tendenza non si è accompagnata alla crescita di una rete sociale in grado di provvedere ai nuovi bisogni.
Insomma, l'impressione è che dopo tanti e tanti anni a propagandare il controllo delle nascite e in particolare l'aborto, all'Onu non sappiano come dirci che è ora di pensare all'eutanasia. Ovviamente sempre in nome della sostenibilità.
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