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« Torna agli articoli di Giacomo Samek Lodovici
Per il cristiano la Quaresima è (anche) tempo di digiuno, astinenza e rinunce. Ma se oggi si comprende abbastanza facilmente il senso del digiuno come forma di protesta, per attirare l'attenzione nei confronti di una certa causa, è sul piano religioso che risulta non di rado smarrito il senso di queste pratiche impegnative.
Di più: in certi casi serpeggia l'obiezione di coloro che interpretano queste pratiche come se il cristianesimo chiedesse di compiacere un Dio maligno, simile alle divinità arcaiche cui venivano offerti sacrifici umani; come se concepisse Dio come un sadico che gode delle sofferenze delle sue cavie.
Ora, anzitutto va sottolineato che le pratiche in questione devono essere esercitate in maniera ragionevole, non possono contrastare con la cura di sé, che è doverosa, né devono esprimere disprezzo del corpo che, anzi, per il cristianesimo, è «tempio dello Spirito» (1 Cor 6,19). Bisogna anche guardarsi dal rischio dell'autocompiacimento, o dal rivendicare al cospetto di Dio una qualche contropartita, ritenendola dovuta come premio per queste rinunce. Né, per il fatto di aver osservato alcuni doveri, bisogna ritenersi sollevati da altri stringenti obblighi verso il prossimo. Come evidenziato da una Nota pastorale dell'episcopato italiano («Il senso cristiano del digiuno e dell'astinenza», 1994), c'è «un intimo legame tra il digiuno e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, l'esercizio della carità fraterna e la lotta contro l'ingiustizia». Già il libro di Tobia scrive efficacemente che «buona cosa è la preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia!» ( Tob 12,8).
Così, il digiuno e l'astinenza non riguardano solo i cibi e le bevande, ma includono anche la rinuncia al superfluo e a ciò che ostacola la dedizione all'altro e il rapporto con Dio. Il punto è che rinunce e mortificazioni non servono affatto a Dio, bensì a noi. Anzitutto ci aiutano ad apprezzare (o ad apprezzare di più) quel che di solito abbiamo senza fatica, ciò di cui ci capita di non saper più godere. Già agli albori della filosofia, Eraclito rilevava che apprezziamo la salute quando siamo malati, la luce in confronto col buio, la sazietà se siamo stati affamati. E questo rinnovato apprezzamento, fondamentale per chi vive continuamente nel superfluo, è basilare per rendere grazie al Donatore di tutti i beni. Inoltre, le rinunce, i digiuni e l'astinenza, servono a noi per acquisire l'autodominio: ci aiutano a vincere progressivamente le pulsioni dell'avidità verso le cose materiali, quelle della gola, o del tatto.
Mediante queste rinunce, insomma, l'uomo si perfeziona e acquisisce la signoria sulle passioni, guadagnando progressivamente la propria libertà e autonomia. Queste, poi, non sono fini a se stesse, bensì sono condizione per esercitare l'amore, che è il compimento della virtù. Secondo Agostino, l'apice della virtù della temperanza è costituito dall'amore che governa giudiziosamente i desideri per custodire il soggetto capace di donarsi pienamente a chi ama, o comunque capace di vivere senza assecondare sempre e comunque i propri desideri, perché l'atteggiamento di consumo si riverbera dalle cose alle persone, che vengono così trattate come mezzi invece che essere rispettate come fini inviolabili.
Come dice la Nota Cei, il digiuno è «segno di partecipazione dei discepoli all'evento doloroso della passione e della morte del Signore». Una partecipazione al trionfo dell'Amore.
DOSSIER "QUARESIMA"
Digiuno, preghiera, carità
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