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« Torna agli articoli di Alessandro Zaccuri

Niente ultimi desideri, né altre smancerie. Al condannato veniva servito un pasto particolarmente abbondante e via, secondo la procedura: lo sgabello, il cappio, la morte. Il racconto dell'ex boia scorre sullo schermo mentre l'ascensore scende lentamente verso i sotterranei dove i prigionieri del regime comunista erano costretti a rannicchiarsi in celle minuscole, oppure a starsene accucciati nell'acqua. Un senso di oppressione che si comunica al visitatore della Terror Háza, la "Casa del Terrore" che ricorda il tragico destino della nazione ungherese, passata senza soluzione di continuità dall'invasione nazista all'asservimento sovietico. C'è il dovere della memoria, come in un analogo allestimento museale, la "Topografia del Terrore" sorta a Berlino nel luogo in cui, negli anni Trenta, aveva trovato sede la Gestapo. Ma a Budapest non è difficile cogliere un sottotesto di maggiore attualità politica: voluta nel 2002 dal primo ministro Viktor Orbán, la Terror Háza intende infatti celebrare il ritorno alla democrazia dopo la liberazione dal duplice totalitarismo. Una circostanza, questa, plasticamente rappresentata dall'edificio in cui il museo è ospitato. Ci troviamo al numero 60 di Andrássy út, il più elegante fra i boulevard della capitale magiara. Ma l'ottimo indirizzo non deve ingannare: a partire dal 15 ottobre 1944, quando si insediò al potere il governo filonazista delle Croci Frecciate, il palazzo fu scelto come quartier generale della polizia politica. Un capitolo di storia poco conosciuto fuori dall'Ungheria e rievocato alla Terror Háza attraverso la cupa ricostruzione della sala da pranzo presieduta dal fantoccio di Ferenc Szálasi, pallida ma non meno sanguinaria imitazione locale del Führer. Mentre in tutto il Paese si svolgevano le operazioni della Soluzione finale (in soli due mesi più di quattrocentomila ebrei furono deportati nei lager), una parte del territorio era già sotto il controllo delle truppe sovietiche.
Una "doppia occupazione" che, al termine del conflitto, ebbe la sua traduzione pratica nel fenomeno dei voltagabbana. Sfruttando le suggestioni della multimedialità, il percorso del museo ricorre a un filmato d'epoca: miliziani e ausiliarie delle Croci Frecciate entrano in una stanza con le loro divise, si spogliano e indossano le insegne del nuovo regime comunista. La rappresentazione è più realistica di quanto si potrebbe immaginare, come dimostrano i moduli appositamente predisposti per rendere più rapida ed efficace l'abiura. L'ammissione degli errori ideologici del passato metteva a disposizione del governo una ben addestrata manovalanza della persecuzione, secondo i dettami degli onnipresenti "consiglieri" sovietici. Non a caso, gli uffici della polizia politica comunista – capeggiata inizialmente da Gábor Péter, un sarto proiettato ai vertici del sistema – si trovavano in queste stesse stanze, al 60 di Andrássy út.
Esplicita nel ricostruire l'intreccio fra oppressione e propaganda (a un certo punto, per esempio, ci si muove in un corridoio le cui pareti sono composte da grossi pani di burro, a ricordo delle vessatorie "consegne" alle quali erano tenuti i contadini), la Terror Háza dedica molto spazio alla memoria di quanti hanno invece tentato di resistere con coraggio all'oppressione. L'episodio centrale è rappresentato dall'insurrezione antisovietica del 1956, con il processo-farsa che portò all'esecuzione del primo ministro Imre Nagy. Ma determinante per la cultura della dissidenza fu il ruolo svolto dalle diverse confessioni religiose, prima fra tutte la Chiesa cattolica, da sempre maggioritaria nel Paese. Proprio in queste settimane il museo propone una mostra dedicata alla figura del cardinale József Mindszenty, salutato come «coscienza d'Ungheria». Nato nel 1892 e primate della nazione dal 1946, già nel 1919 Mindszenty aveva subìto le prime accuse di condotta controrivoluzionaria nell'ambito della Repubblica sovietica di Béla Kun. Poi erano venute la guerra, l'attività dell'arcivescovo a favore degli ebrei e l'insediamento del potere comunista, che non aveva tardato a individuare nel cardinale un pericoloso "nemico del popolo". L'ergastolo comminatogli nel 1949 era stato interrotto per pochi giorni nel 1956, durante l'entusiasmante ed effimera insurrezione popolare contro l'Urss. Appena liberato, Mindszenty aveva tenuto un lungo radiodiscorso, che aveva subito confermato il suo ruolo di leader spirituale. Ma la controffensiva di Mosca era stata rapida e spietata. Il cardinale si era rifugiato presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Budapest. Ne sarebbe uscito solo nel 1971, quindici anni più tardi, grazie alla mediazione personale di Paolo VI. Morì a Vienna nel 1975, disponendo nel testamento che il suo corpo fosse tumulato in Ungheria quando il Paese avesse finalmente riconquistato la libertà. Dal 1991 è sepolto nella cattedrale di Esztergom, sua sede arcivescovile. Alla Terror Háza si possono vedere il rosario, il breviario e gli altri libri adoperati da Mindszenty durante il lungo esilio in patria.
Tutto attorno, sulle pareti del palazzo, i volti delle vittime della "doppia occupazione".
In cortile intanto fa buona guardia un T-54, l'utilitaria dei carri armati sovietici. Il rodaggio, tanto per cambiare, fu effettuato qui a Budapest, nel '56.
Nota di BastaBugie: non consiglieremo mai abbastanza il documentario "Gli orrori di comunismo e nazismo". Guardalo su YouTube, cliccando qui sotto
http://www.filmgarantiti.it/it/edizioni.php?id=39
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