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« Torna agli articoli di Rino Cammilleri
Chi era davvero San Francesco? Se uno si alza e, come Paolo Villaggio a proposito della Corazzata Potemkin, dice che di san Francesco non se ne può più, potete immaginare da soli la reazione unanime e nazionale. In realtà, quel che l’incauto intende dire è che ne ha le tasche piene del Francesco ridotto a icona come Che Guevara e Marilyn Monroe. Per nostra fortuna non era bello, sennò ce lo ritroveremmo sui portacenere, le magliette, i poster.
Nel ventennio fascista "il più italiano dei santi" fu incensato come nazionalista e crociato. Nel Sessantotto ce lo ritrovammo, naturalmente, come rivoluzionario e contestatore del potere clericale, nonché come pauperista e "operaio". Negli anni Ottanta diventò pacifista e arcobaleno, tanto che alle marce forzate di Assisi ci andavano pure i comunisti. Ora è vegano, ecologista e animalista (salutista e palestrato no, sarebbe troppo). Ovviamente, i ridicoli sono solo quelli che lo tirano per il saio, chi di qua e chi di là, a seconda di come soffia il vento mondano. Ma è per questo che ormai, al solo sentir parlare di Francesco e Assisi, la mano, come quella di Goebbels, corre alla fondina.
Sì, perché, oltre ai convegni e ai Cortili-passerella di intellettuali atei che espongono a spese dell’otto per mille (cioè, dei cattolici) il loro stantio pensiero ottocentesco, ci tocca sorbirci i concerti di artisti decotti o agnostici cui non par vero di andare in tivù. Certo, lo stesso accade per Padre Pio, francescano pure lui, ma lui almeno è morto l’altro ieri e non ha ancora avuto il tempo per manipolazioni d’immagine: molti di quelli che l’hanno conosciuto sono ancora vivi e possono raccontare chi era davvero.
Non così, ahimè, per san Francesco, e a poco serve spiegare che il suo Cantico delle creature elenca tutto l’esistente tranne gli animali. Che quelli di Gubbio ricorsero a lui solo perché il lupo non riuscivano ad ammazzarlo (e lui costrinse la belva a ripagare il male fatto). Che non aveva affatto amore zuccheroso per tutti ma detestava (sì, detestava) gli eretici catari che infestavano il Norditalia e quella Provenza da cui veniva la sua adorata mammà. Proprio contro i catari, che odiavano la creazione, scrisse il Cantico. E contro di loro mandò non a caso il suo uomo migliore, sant’Antonio di Padova. Contro i musulmani, che già gli avevano lapidato i cinque Protomartiri, andò lui stesso, e non a dialogare, bensì a confutare la loro dottrina (e se il sultano non gli fece la pelle fu solo perché a un passo c’erano i crociati armati fino ai denti). Odiava (sì, odiava) i denigratori, e comandò al suo vice, Pietro Cattani, di farli punire dal "pugile di Firenze" (fra Giovanni fiorentino, che aveva fatto quel mestiere).
Ora, può accadere che l’ammirazione per un santo cattolico spinga a cercare di imitarlo. Ma ciò non autorizza a scegliere tra i suoi molteplici aspetti solo quelli che godono del plauso generale (tra l’altro, mutevole a seconda delle stagioni ideologiche). Non solo: si dimentica che il santo, a sua volta, imitava qualcun altro, Cristo.
E’ questa l’unica Imitazione consentita (giusto il titolo dell’opera immortale di Tommaso da Kempis, che non a caso insegna l’imitatio Christi e non quella di qualsivoglia santo), anche perché il santo imita a modo suo, un modo che varia da santo a santo giacché ognuno ha la sua personalità. Certo, se un santo diventa "icona" e gli altri no, un motivo ci deve essere.
Infatti, c’è. Francesco fu veramente alter Christus e ha seguito la sorte "iconica" del suo Maestro. Nessun dispregiatore del cattolicesimo ha mai osato parlar male di Gesù, perché la sua figura è veramente inattaccabile. Per questo la si aggira dicendo che è stata, semmai, la Chiesa a tradire il suo vero messaggio. Il quale messaggio, poi, ce lo spiega il Dan Brown di turno. Così è per Francesco, il più amato dagli italiani, ormai sepolto - e perciò reso irriconoscibile - dalle fiction (continuamente aggiornate per riguardo ai tempi: la sola Liliana Cavani ha dovuto farne addirittura due), dalle marce, dai concerti, dai convegni, dai libri.
Mai una volta, però, che lo si invochi, magari con una semplice processione, perché si ricordi di essere Patrono d’Italia e di darci una buona volta dei capi degni di questo nome al posto di quei chiacchieroni inconcludenti che i nostri peccati collettivi da decenni hanno addensato sulle nostre teste.
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