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« Torna agli articoli di Giuliano Guzzo
Che bello sarebbe se si legalizzasse la prostituzione: strade più pulite, maggiori entrate fiscali, donne libere di esercitare il mestiere più antico del mondo al sicuro e senza sfruttamento di alcun genere; sarebbe un progresso e un bel colpo contro l'ipocrisia di chi preferisce continuare a far finta che il problema non esista. E' grosso modo questo il pensiero che oggi accomuna diversi politici ed intellettuali ma anche molta gente comune – sia che si riconosca in orientamenti conservatori o progressisti – in merito al tema della prostituzione. Bene, ma concretamente sarebbe una buona idea? Sarebbe cioè positivo che lo Stato prendesse questa strada? La risposta è: nient'affatto. Per ragioni etiche e per ragioni pratiche.
LE RAGIONI ETICHE DEL NO
Le obiezioni etiche alla legalizzazione delle prostituzione ruotano sostanzialmente attorno a due concetti, che poi sono anche due principi: quello della dignità della donna e quello del bene comune. Partendo dal primo è bene constatare come il riconoscimento da parte del Legislatore dell'attività di prostituzione – non più perseguendola o arginandola, ma limitandosi a monitorarla – determini un giudizio morale se non di aperta approvazione quanto meno di apertura verso una pratica dalle importanti implicazioni morali in particolare, come si è detto, per la dignità della donna e, più in generale, di quanti si prostituiscono. E' accettabile che si permetta la mercificazione del corpo? Se guardiamo all'uomo kantianamente, e cioè «sempre come fine e mai semplicemente come mezzo», la risposta non può che essere negativa: è ingiusto prostituirsi così come lo è dare il proprio assenso a che qualcuno lo faccia.
Non valgono a questo proposito né l'obiezione che potremmo definire "volontaristica" (se qualcuno lo vuole fare, perché non può prostituirsi?), né quella che qui chiamiamo "universalistica" (ma se la prostituzione esiste da sempre, perché non riconoscerla?): la prima non convince dal momento che sono già vastissime – dal furto all'omicidio, dallo spaccio alla vendita dei propri organi – le azioni non permesse o addirittura penalmente perseguite pur essendo compiute quasi sempre su fondamento volontario del soggetto e non si vede per quale ragione si dovrebbe chiudere un occhio proprio sull'immorale pratica della prostituzione; la seconda non regge perché se è l'universalità di un comportamento a decretarne l'innocuità o quanto meno la necessità di non scoraggiarlo o di non perseguirlo, gli stessi e già ricordarti furti ed omicidi dovrebbero essere oggetto di depenalizzazione, scenario francamente tutt'altro che auspicabile.
Venendo al secondo principio per cui è bene respingere l'idea di legalizzazione della prostituzione – quello del bene comune – possiamo brevemente riflettere su questo: quale messaggio o meglio quale insegnamento offre ai propri cittadini uno Stato che permette a loro di prostituirsi a patto che versino regolarmente le imposte per l'esercizio di questa "professione"? Sicuramente uno: non pagare le tasse è più grave che prostituirsi, dato che l'evasore fiscale viene perseguito mentre chi esercita il mestiere più antico del mondo in modo regolare non solo non incorre, una volta che la prostituzione è riconosciuta positivamente, in alcuna forma di sanzione ma acquisisce gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori. Il che si traduce, sul versante educativo, in un messaggio disastroso: fa pure ciò che ti pare, l'importante è che paghi le tasse.
In altre parole – ammesso e non concesso che legalizzare la prostituzione convenga economicamente – legalizzando si antepone la salute dei conti pubblici dello Stato (un elemento materiale) alla tutela della rettitudine morale di un'intera comunità (un elemento valoriale); un rovesciamento dell'etica nell'imbuto della mera convenienza, un sacrificio della verità morale sull'altare dell'opportunità. In un mondo dove egoismo e materialismo sembrano già farla da padroni, conviene davvero appoggiare una simile prospettiva oppure – come pare logico – in questo modo si andrebbe solamente a peggiorare le cose? Ci permettiamo di non indicare alcuna risposta, nell'auspicio che quella giusta si configuri agli occhi di ciascuno come evidente.
LE RAGIONI PRATICHE DEL NO
Accanto a dette riserve etiche, ne esistono altre di natura pratica e solitamente poco considerate. La prima riguarda il fatto che una eventuale legalizzazione della prostituzione – salvo nei casi (assai minoritari) dove il prostituirsi è scelta volontaria – risulterebbe estremamente pericolosa per la salute delle donne. Lo confermano riscontri empirici: da uno studio condotto fra il 1967 e il 1999 su 1.969 prostitute a Colorado Springs, per esempio, è emerso come il tasso di omicidi tra queste fosse 18 volte superiore a quello della popolazione, mentre altre rilevazioni dicono che quasi l'85% di chi si prostituisce rimane vittima di aggressioni fisiche. Ancora più impressionanti sono gli esiti di una ricerca condotta intervistando 100 prostitute: il 90% di loro ha dichiarato d'aver subito aggressioni ad opera dei propri clienti. Psicologicamente, poi, non va dimenticato come la prostituzione procuri sulle donne effetti veramente devastanti: 2/3 di quante si prostituiscono – secondo uno studio – presenta effetti del disturbo post-traumatico da stress (DPTS), nota anche come nevrosi da guerra. Si risponderà che siffatte allarmanti rilevazioni sono determinate da situazioni di illegalità che l'istituzione di apposite "case chiuse" risolverebbe. Buona risposta, peccato che ancora una volta i riscontri fattuali vadano in tutt'altra direzione.
Pensiamo, per brevità, a due casi: a quello dell'Olanda – dove secondo alcune stime l'80% delle donne che lavora nei bordelli sarebbe oggetto di sfruttamento internazionale - o a quello dell'Austria, che pur adottando una politica "regolamentarista" (rimangono i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione ma le prostitute possono lavorare su base volontaria) ha visto crescere le vittime di sfruttamento sessuale: erano stimate fra le 470 e le 940 all'anno nel 1998, mentre nel 2003, appena cinque anni dopo, lo stesso numero veniva stimato fra 1420 e 2840: crescita esponenziale. Un ulteriore suggerimento in favore dell'abbandono di qualsivoglia ipotesi di legalizzare il mestiere più antico del mondo ci viene da un lavoro condotto da ricercatori delle università di Heidelberg, Berlino e Londra i quali, esaminando i dati di 161 Paesi fra il 1996 e il 2003, sono giunti alla conclusione – in realtà non così sorprendente, alla luce di quanto abbiamo già ricordato – che la una politica di liberalizzazione della prostituzione comporti e possa comportare un aumento del traffico e dello sfruttamento di persone ridotte a pura merce di scambio.
Fa decisamente riflettere, poi, l'esempio tedesco, con la prostituzione regolamentata e, dopo anni, uno scenario a dir poco cupo con, da un lato, casi di donne che perdono il sussidio di disoccupazione perché rifiutano di prostituirsi, e d'altro lato, uno sfruttamento che continua, la polizia che fatica a contrastarlo, nessuno miglioramento effettivo misurabile nella copertura sociale delle prostitute – né le condizioni di lavoro, né la capacità di uscire dalla professione era migliorata, con ricorrenti problemi igienico-sanitari -, e nessuna prova concreta di riduzione della criminalità. Molto diverso invece il caso svedese dove dal 1999, dopo decenni di studio del fenomeno, si è scelto di rendere completamente illegale comprare i servizi sessuali, registrando da subito un calo del numero delle prostitute, sceso da circa 2.500 del 1999 a circa 1.500 del 2002, e delle percentuali di quelle su strada, passate dal 50 al 30% [Quella svedese infatti è «Una legge che ha ben 30 anni di studi alle spalle. Kajsa Wahlberg, membro dell'Intelligence della polizia nazionale e incaricata dal Parlamento di un report annuale sulla prostituzione in Svezia, spiega che "moltissimi studi e ricerche condotte in Svezia tra i primi anni Settanta e fine degli anni Novanta hanno portato allo stesso risultato: tutte le donne svedesi che finivano per prostituirsi avevano subito abusi sessuali infantili da parte di padri, parenti o amici". E conclude: "Quando i ricercatori non hanno più avuto dubbi sulle correlazioni tra gli abusi sessuali e la prostituzione si è deciso di fare una scelta radicale, ed è nata la legge."»]. In Danimarca invece - dove chi esercita la prostituzione è titolare di redditi assoggettati ad imposta – il mercato è quattro volte più grande di quello della Svezia, che pure ha una popolazione il 40% più grande, mentre nella nordica Finlandia si stima un numero di donne sfruttate almeno 30 volte più grande di quello svedese.
Dinnanzi a simili evidenze – che fra l'altro, per ragioni di spazio, abbiamo qui citato frettolosamente e solo in parte – piaccia o meno occorre dunque farsene una ragione: liberalizzare la prostituzione non risolve il problema – semmai, come più riscontri evidenziano, contribuisce ad espandere in modo significativo l'industria del sesso - così come non lo risolvono le "case chiuse", dove un terzo delle donne che vi lavora afferma d'aver temuto di poter essere uccisa dai propri clienti. Se a questo si aggiunge che la depenalizzazione dei bordelli, come dimostra l'esempio dell'Australia, non solo non abbatte ma addirittura vede crescere il mercato illegale del sesso, ogni dubbio è fugato: se la prostituzione illegale è un problema, legalizzarla cambia l'atteggiamento delle Istituzioni di fronte ad esso lasciando però le cose immutate o perfino peggiorandole.
CHE COSA FARE?
A questo punto la domanda che sorge spontanea è: che fare se da un lato liberalizzare la prostituzione è sbagliato e controproducente e però, d'altro lato, è indubbio come il mercato del sesso rimanga comunque fiorente, anche grazie a nuove e recenti frontiere, come per esempio quella del web? La risposta non è semplice anche se aver in mente cosa non fare – liberalizzare – è già un buon punto di partenza. Punto di partenza dal quale tuttavia sarebbe opportuno prendessero avvio dei programmi culturali a lunga gittata oltreché, naturalmente, un'opera di aiuto alle donne che si prostituiscono sulla scia di quella – esemplare e non di rado ridicolizzata o quasi da mass media – di don Oreste Benzi (1925 – 2007) e di altri, che negli anni hanno cambiato e salvato la vita a centinaia anzi migliaia di donne.
Si tratta di un lavoro culturale ed assistenziale che per far emergere i propri frutti richiede sforzi enormi, non c'è dubbio; e da questo punto di vista liberalizzare la prostituzione si configura come una scorciatoia stimolante. Però chiediamoci questo: quante emergenze sociali e più in generale quanti fenomeni che si sono stratificati nei decenni sono contrastabili nel giro di poco? E ancora: in quale società – tornando al fondamentale piano etico – vogliamo che crescano i nostri figli? In quella dove tutto è permesso purché si paghino le tasse oppure in una società magari imperfetta (di società perfette, su questa Terra, ancora non si hanno notizie) ma dove lo scopo comune è proteggere e tutelare l'uomo e la sua incomparabile dignità? Aspiriamo ad un mondo dove il diritto sia piegato alla realtà o dove il diritto tenti di regolamentarla avendo come faro costante il bene di tutti?
Nota di BastaBugie: per la precisione, in Italia la prostituzione è già legale in quanto chi decide di prostituirsi non incorre in alcuna sanzione. Viene invece punito lo sfruttamento della prostituzione.
Don Oreste Benzi diceva che le leggi attuali consentono comunque, se applicate, di bloccare la prostituzione. Colpendo i clienti automaticamente il mercato del sesso decresce fino quasi a scomparire...
Resta inteso che proposte come quelle del referendum della Lega che mirano a riaprire le case chiuse vanno, al contrario, a rivitalizzare il triste mercimonio del corpo delle donne.
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