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« Torna agli articoli di Anna Bono

Seguendo l’evolversi della situazione ad Haiti, non si può fare a meno di pensare con immenso rammarico che, in questi ultimi anni, invece di concentrare l’attenzione sull’aumento della temperatura di origine antropica – un fenomeno che secondo la maggior parte delle rilevazioni finora effettuate ancora non si sta verificando e, comunque, forse non sarebbe nemmeno dannoso come sostengono le Nazioni Unite e la maggior parte delle associazioni ambientaliste – sarebbe stato più utile dedicare almeno una parte delle risorse finanziarie e umane disponibili al contenimento dei danni causati da altri eventi naturali, quelli sì reali e sicuramente avversi.
Per la stessa ragione è deplorevole aver profuso tante risorse e mezzi in innumerevoli iniziative volte a incalzare i leader dei paesi occidentali affinché stanzino centinaia di miliardi di dollari per ridurre il global warming, di cui si ritengono responsabili, e per risarcire i paesi poveri che ne subirebbero ingiustamente le conseguenze, mentre assai meglio sarebbe stato organizzare serrate campagne di denuncia dei tanti leader del sud del mondo che non fanno nulla per ridurre l’impatto delle catastrofi naturali sulle popolazioni colpite.
È del tutto ovvio infatti che gli effetti di un fenomeno naturale inevitabile dipendono da ciò che è stato fatto per preparare un territorio e i suoi abitanti a farvi fronte: e ad Haiti, malgrado la prevedibilità dell’accanirsi degli elementi, non è stato fatto nulla o quasi. Almeno tre quarti delle costruzioni della capitale Port-au-Prince erano da considerarsi comunque insicure anche in tempi normali; ed erano carenti, anche in tempi normali, servizi pubblici, uffici amministrativi, mezzi di trasporto, per non dire degli apparati di sicurezza e di ordine pubblico; né erano stati predisposti programmi d’emergenza in caso di calamità.
Il fatto è che Haiti, benché sia indipendente da oltre 200 anni, è il più povero dei paesi del continente americano. È pur vero che si trova su un’isola maledetta, Hispaniola, dove si susseguono uragani e terremoti che periodicamente spazzano via uomini, infrastrutture e attività produttive. Ma sull’altra metà dell’isola c’è la Repubblica Dominicana e il confronto tra i due stati è sconcertante.
Nell’Indice dello Sviluppo Umano 2009 del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) Haiti occupa il 149° posto, su 182 nazioni considerate, mentre la Repubblica Dominicana è al 90°. Il PIL pro capite ad Haiti è di 699 dollari e nel periodo tra il 1990 e il 2007 è diminuito del 2,1% all’anno. Quello della Repubblica Dominicana è di 3.772 dollari e il tasso di crescita nello stesso periodo è stato del 3,8% annuo. Il 72% degli Haitiani vive con meno di due dollari al giorno e la loro speranza di vita alla nascita è di 55 anni. I Dominicani hanno una speranza di vita di 64 anni e soltanto il 15% di essi dispone di meno di due dollari al giorno.
Un succedersi di regimi corrotti e violenti hanno impedito lo sviluppo di Haiti. Il peggio si è avuto con Papa Doc e Baby Doc: così venivano chiamati il dottor François Duvalier, presidente dal 1957 al 1971, e il figlio Jean-Claude, succedutogli alla sua morte e rimasto in carica fino al 1986. Ma anche dopo, come dimostrano i dati economici e sociali più recenti, le cose non sono andate meglio.
Attribuire, come molti stanno facendo in questi giorni, a fattori remoti – colonizzazione, schiavismo – e di ordine naturale – uragani, terremoti – la povertà degli Haitiani e quindi l’entità immensa dei danni prodotti dal sisma è un errore che apre la strada a nuovi drammi, se ne conseguirà che, dopo un formidabile impegno di ricostruzione, il paese verrà riconsegnato a una leadership incapace e irresponsabile a cui nessuno chiederà conto del modo in cui governa.
La prossima volta si tratterà di un ciclone tropicale di particolare violenza o di un’epidemia. Il risultato sarà lo stesso.
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