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Una delle accuse rivolte agli autori neotestamentari è di non aver mai invocato l'abolizione della schiavitù in modo esplicito: è vero?
PER I PAGANI ERA INDISCUSSA
Cominciamo a dire che nella vita di antichi popoli la schiavitù è stata per molti secoli la più grave piaga, di cui nessuno in linea di principio metteva in discussione la legittimità. Persino molti schiavi consideravano naturale il loro status. Anche grandi pensatori come Platone e Aristotele (quest'ultimo con qualche oscillazione), negavano agli schiavi il possesso delle qualità proprie dell'uomo. I Romani, pur non reputando necessariamente gli schiavi inferiori per natura, a livello giuridico li qualificavano come proprietà del padrone. Solo la filosofia stoica, basandosi sul comune possesso della natura umana, propugnava un trattamento più benevolo verso gli schiavi, come attestano soprattutto le Epistole a Lucilio di Seneca.
Il cristianesimo sin dall'inizio si preoccupa della condizione degli schiavi. Nel Nuovo Testamento, anche se la questione della schiavitù non viene affrontata in termini espliciti, il concetto della comune fratellanza e dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio destituisce di ogni fondamento l'idea che un uomo possa essere proprietà di un altro uomo.
SAN PAOLO
Significative risultano soprattutto le lettere dell'apostolo Paolo, che scrive ad esempio: "Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito, per formare un solo Corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi" (1 Cor 12,13); "Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).
Ma soprattutto la breve Lettera a Filemone attesta in larga misura, oltre alla dolcezza del cuore di Paolo, la nuova dignità di cui il cristianesimo riveste lo schiavo. Filemone era un eminente membro della Chiesa di Colosse; un suo schiavo, Onesimo, si era dato alla fuga, sottraendo anche una somma di denaro, ed era riuscito a raggiungere Roma, dove grazie a Paolo si era convertito ed aveva ricevuto il battesimo. In casi simili il padrone poteva infliggere pene terribili, che giungevano fino alla crocifissione. L'Apostolo rimanda Onesimo a Filemone, chiedendogli, ora che è divenuto cristiano, di riceverlo "come le viscere" stesse di Paolo e come "fratello carissimo".
Anche nelle altre lettere, numerose sono le esortazioni rivolte da Paolo ai padroni e agli schiavi, a cui non cessa di ricordare i doveri reciproci: bontà da parte degli uni, sottomissione da parte degli altri. I padroni devono comandare come a dei fratelli, gli schiavi obbedire come se obbedissero a Cristo (cf. Ef 6, 5-9; Col 3, 22-24), poiché ogni autorità, se esercitata con giustizia, viene da Dio (cf. Rm 13,1). Mai parole simili erano state pronunciate con tanta autorità, poiché, laddove gli stoici disquisivano, consigliavano e spesso declamavano, l'Apostolo non disquisisce, né si limita a consigliare, ma ordina, investito da una missione divina. Le sue parole agiscono come un balsamo sulla piaga viva della schiavitù, in attesa che un giorno essa si cicatrizzi del tutto. Paolo considera la schiavitù virtualmente abolita quando la dichiara incompatibile con l'unione di tutti i fedeli in Cristo. Non è soltanto, come nello stoicismo, la constatazione teorica dell'appartenenza alla stessa comunità umana, è l'annuncio di un fatto nuovo, di una rivoluzione operata per tutti coloro "che sono stati battezzati in Cristo" (Gal 3, 27) e che diventerà universale il giorno in cui il cristianesimo impregnerà del suo spirito le leggi civili dei popoli, poiché egli sa, come osservava Maritain, che "il fermo evangelico, una volta deposto nella pasta, lavorerà dal di dentro del mondo e provocherà, a lunga scadenza, anche cambiamenti nell'ordine temporale".
RISPOSTE ALL'ACCUSA
Come dicevamo sopra, una delle accuse rivolte agli autori neotestamentari è di non aver mai invocato l'abolizione della schiavitù in modo esplicito. A ciò si può rispondere come segue:
1) la schiavitù è stata un'istituzione portante nella vita di quasi tutti i popoli antichi, per cui la Chiesa evita prudentemente ogni parola che possa turbare una pace sociale all'epoca sin troppo precaria (le rivolte schiavili si erano sempre risolte in bagni di sangue);
2) S. Paolo, come si è osservato, ribadisce più volte che dinanzi a Dio non esiste differenza alcuna tra lo schiavo e il libero, affermazione che introduce una definizione rivoluzionaria in termini di identità e di status per lo schiavo;
3) anche se nel Nuovo Testamento gli schiavisti cristiani non sono espressamente esortati a liberare i loro schiavi, sono tuttavia chiamati a trasformare la loro relazione con essi in senso fraterno;
4) è molto significativo che nessuna delle figure di spicco del Nuovo Testamento possegga schiavi, e questo fatto serve di esempio per altri cristiani.
Nella Chiesa dei primi secoli gli schiavi partecipano pienamente alla vita comunitaria; possono accedere, una volta liberati, al presbiterato, all'episcopato e persino al pontificato (papa Callisto I portava le stimmate di schiavo fuggitivo).
La loro personalità fisica e morale è pienamente tutelata, le loro unioni, in forza del sacramento, sono considerate un vero matrimonio. Molte schiave contribuiscono alla diffusione del Vangelo; rilevante il numero di schiavi e schiave martiri della fede, come S. Blandina. La Chiesa si adopera per l'affrancamento degli schiavi, vendendo per tale scopo persino le suppellettili sacre, ma anche inducendo i padroni a farlo spontaneamente (S. Melania, senatrice Romana, ne libera ottomila tutti nello stesso giorno).
Non meno intensa è l'attività della Chiesa nel combattere le cause prossime della schiavitù: contrasta il lusso smodato e l'ambizione di possedere moti schiavi, educa i genitori alla responsabilità verso i figli per impedire l'espansione dei bambini(molti schiavi erano fanciulli abbandonati alla nascita) e soprattutto nobilita il lavoro manuale togliendogli il marchio infamante della degradazione (da riservare agli schiavi) e presentandolo come un mezzo di santificazione.
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