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Le parole del Signore, che qui sono state proclamate, ci invitano a riflettere su tre fondamentali argomenti: l'unità e l'indivisibilità del progetto con cui Dio ci salva, la centralità di Cristo per la nostra vita, la maniera migliore di affrontare il momento della prova e della pena.
NON SI DÀ DIO SENZA CRISTO, NÉ CRISTO SENZA CHIESA
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (Mt 10,40). Con questa frase Gesù ci chiarisce la stretta connessione che c'è tra Dio, Padre e Creatore di tutti, e lui, il Figlio unigenito di Dio, mandato nel mondo per la nostra liberazione; e la stretta connessione che c'è tra lui, Redentore e Signore unico dell'Universo, e i suoi apostoli, da lui inviati in mezzo agli uomini a rendere in ogni tempo presente e operante la sua parola di verità e la sua grazia.
Come si vede, la Chiesa, fondata sugli apostoli, non è separabile da Cristo, come Cristo non è separabile dal Padre. Nella concretezza dell'esistenza è difficile che uno possa credere sul serio in Dio - non in un Dio sbiadito e lontano, che non entra nella nostra vicenda, ma nel Dio vivo e vero, che non solo è all'origine delle cose, ma in ogni momento ci dà le regole giuste di vita e ci chiama a partecipare al suo destino - senza credere al tempo stesso in Gesù crocifisso e risorto, Figlio vero di Dio, unica fonte della nostra libertà e della nostra gioia. Ed è ancora più difficile che uno possa accettare Cristo - non il Cristo ridotto a essere soltanto un uomo buono, profeta di pacifismo e di umanitarismo, ma il Cristo vero, che è Dio, centro dei nostri cuori e giudice delle nostre azioni - senza riconoscere nella Chiesa la sua opera e la sua eredità, che in modo garantito ci dona e ci attualizza la sua luce, la sua forza, la sua speranza, la sua consolazione.
La verità è indivisibile e, nella realtà delle cose, tutto si implica: rifiutare la Chiesa significa rifiutare il Salvatore del mondo; rifiutare Cristo significa rifiutare Dio; rifiutare Dio significa porre le premesse di una società assurda e disumana, come la storia di questo secolo si è incaricata di dimostrare all'evidenza.
SE SIAMO DI CRISTO, TUTTA LA NOSTRA VITA VA GIOCATA PER LUI
Le altre espressioni del Vangelo, che oggi abbiamo ascoltato, sono come la spiegazione e il commento autentico all'invocazione che all'inizio della messa abbiamo rivolto a Gesù Cristo, forse senza pensare troppo alla serietà e all'importanza di ciò che dicevamo: "Tu solo il Signore".
Gesù è il Signore, e noi siamo fatti per lui. La nostra esistenza è tutta un servizio reso alla sua regalità.
Quando veniamo in chiesa la domenica per ricordarci di lui e del suo sacrificio, non gli facciamo un favore: gli diamo semplicemente quello che gli spetta. Pregarlo non vuol dire compiere un gesto gratuito di cortesia nei suoi confronti; vuol dire avere l'intelligenza di riconoscere le cose come stanno e di comportarci in un modo che è al tempo stesso doveroso e conveniente per noi. Osservare i suoi comandamenti - che tutti si riassumono nell'amore di Dio e del prossimo - non è un atto di generosità da parte nostra o la scelta di una linea facoltativa di comportamento; è fare quello che è necessario fare, se vogliamo non imbrogliare noi stessi e non tradire la nostra stessa natura.
Gesù è il solo Signore: non abbiamo dunque e non vogliamo avere altri padroni, perché abbiamo già lui; non abbiamo e non vogliamo avere altre appartenenze, perché siamo già suoi; non abbiamo e non vogliamo avere alcuna ideologia che pretenda di spiegarci il senso ultimo delle cose, perché abbiamo già il suo Vangelo; non abbiamo e non vogliamo avere altri motivi di fiducia e altri appoggi, perché lui è la sola sorgente della speranza che non delude.
Gesù è il destinatario di tutta la nostra capacità di donazione e di affetto. Nessuno, in tutta la storia umana (che pure ha visto sfilare molti prepotenti, esaltati, falsi messia, personalità che pretendevano di essere oggetto di culto), ha osato pronunciare le parole che abbiamo raccolto dalle labbra del nostro Maestro: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me (Mt 10,37). Nessuno, in tutta la storia umana (che pure ha visto il succedersi di capi dalle mirabolanti promesse di giustizia, di pace, di avvenire illuminato dal sole del progresso), è arrivato a dichiarare quanto ci è stato detto da Cristo: Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà (Mt 10,39).
Come si vede, Gesù è un unico caso, è un caso serio, è un caso che ci costringe drammaticamente a riflettere: stare dalla sua parte o non stare dalla sua parte comporta un mutamento radicale della nostra sorte. Davanti a Cristo non è possibile restare neutrali; e riconoscerlo per quello che è, non solo a parole ma con le opere e la vita intera, vuol dire assicurarsi la vera e definitiva salvezza.
CON CRISTO, LA CROCE È RICCA DI SENSO; SENZA CRISTO, È DISPERAZIONE
Il terzo insegnamento che raccogliamo oggi dalla pagina di Vangelo riguarda la Croce: Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me (Mt 10,38).
Anche su questo punto occorre essere molto chiari. La croce, cioè la sofferenza, non è una prerogativa dei cristiani: è un'esperienza che tocca tutti. Credenti o non credenti, presto o tardi tutti si imbattono nel dolore, nei disagi umilianti della vecchiaia, nella morte. La differenza è che chi non crede, davanti alla sua croce non può che disperarsi o abbandonarsi a un'orgogliosa amarezza. Chi crede invece può "prendere la sua croce" come un mezzo prezioso per purificarsi e affinarsi ulteriormente, per irrobustirsi nell'anima, per collaborare con Cristo alla redenzione del mondo, per disporre il suo cuore a una felicità futura più grande.
Come si sarà notato, sono tutte lezioni forti e severe. Ma è così che il Signore ci aiuta a crescere e a rendere più ricchi di senso i nostri giorni.
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