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Sono state rapite, torturate e violentate, vendute o costrette a sposare i loro aguzzini. Una volta liberate, il ritorno alla società non è stato però così facile come ci si sarebbe potuto aspettare. Il peso delle discriminazioni le ha costrette a una paradossale marcia indietro, a tornare nella foresta, nei campi nel nord-est della Nigeria. Questo il destino per molte delle studentesse rapite dal gruppo terroristico Boko Haram, uno dei più feroci del continente africano, che da anni imperversa nella regione nigeriana del Borno. Queste ragazze - come documentato da diversi rapporti delle Nazioni Unite, nonché dalla stampa internazionale - spesso hanno avuto figli dai loro rapitori e fanno una fatica enorme a reinserirsi nelle comunità di origine nonostante i numerosi programmi di assistenza forniti dal governo nigeriano e dalle organizzazioni internazionali.
Il percorso è molto delicato: dopo la liberazione le ragazze vivono circa dieci mesi in campi militari e passano attraverso un faticoso processo di "rieducazione". Poi, il ritorno nei villaggi di provenienza e nelle famiglie di origine. Così è avvenuto per le ottanta studentesse di Chibok liberate a maggio. Così è avvenuto per tante altre donne, più o meno giovani, che si sono trovate sulla strada della ferocia jihadista.
Il grande scoglio, avvenuta la "rieducazione", riguarda il rapporto con i contesti di origine. Molte di queste ragazze, specialmente quelle che hanno avuto figli dai jihadisti, sono considerate impure, "donne del contagio", e collocate al gradino più basso della scala sociale, senza alcun diritto. Sono accompagnate per tutta la vita dallo stigma sociale essere state a contatto con il gruppo terroristico.
Per questo molte ragazze tornano volontariamente nella foresta di Sambisa, nella Nigeria nordorientale, dove si nascondono sacche di resistenza del gruppo terroristico Boko Haram. Un esempio è la storia di Aisha Yerima, una donna di 25 anni, rapita dai terroristi nel 2013 e liberata tre anni dopo. Aisha è stata detenuta per circa otto mesi e ha completato il programma governativo di de-radicalizzazione curato dalla psicologa Fatima Akilu, direttrice esecutiva della Fondazione Neem e principale ispiratrice di tale programma. «Ora vedo che tutte le cose che Boko Haram ci ha detto sono state bugie» diceva alla Bbc nel 2016 alla fine della sua detenzione. «Ora quando sento del gruppo alla radio, mi viene da ridere» sosteneva. Tuttavia, a maggio 2017, meno di cinque mesi dopo essere stata rilasciata, la donna è fuggita dalla sua casa natale di Maiduguri nel nordest della Nigeria per tornare nella foresta con i terroristi che l'avevano rapita.
«La de-radicalizzazione è solo una parte del processo di recupero di queste persone che deve comportate anche il pieno reintegro nella società» spiega la dottoressa Akilu. «Il sostegno offerto durante il programma non le segue una volta rilasciate e questo le porta a dover lottare contro la propria comunità ed è proprio questa lotta che spesso le spinge a tornare nella foresta».
Nota di BastaBugie: nell'articolo sottostante dal titolo "Difficile dire che l'Isis è stato sconfitto a Mosul: la società che lo ha creato esiste ancora" rilanciamo l'intervista di "Aid to the Church in Need" ad Amel Nona, ex vescovo della città cacciato dai jihadisti, che fatica a intravedere un futuro roseo per i cristiani in Iraq.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su Tempi il 2 agosto 2017:
Amel Nona ricorda ancora quella notte d'estate del 2014 quando tutti i cristiani di Mosul sono stati costretti a scappare, cacciati dallo Stato islamico che stava per fare della seconda città più importante dell'Iraq la sua roccaforte nel paese. «Quando mi è giunta la notizia della liberazione di Mosul da parte dell'esercito iracheno sono tornato con la mente a quella terribile notte e alla mia gente», racconta il vescovo della città cacciato dalla sua diocesi in una intervista a Aid to the Church in Need. «Ero spaventato per loro, soprattutto per le giovani ragazze nel nostro orfanotrofio in città. Ho fatto di tutto per aiutarle a fuggire sane e salve. Grazie a Dio, siamo riusciti a far uscire tutti».
Nonostante Mosul sia ormai libera, l'attuale vescovo caldeo dell'Australia e della Nuova Zelanda, fatica a intravedere un futuro roseo per i cristiani in Iraq. «È difficile sostenere che l'Isis ormai è stato sconfitto a Mosul e dintorni. L'Isis infatti è un modo di pensare e agire, nato in una società islamica che ritiene di avere il diritto di fare ciò che vuole e pensa che il suo credo sia l'unico e che dovrebbe essere imposto a tutte le altre persone. Anche se Mosul è stata liberata militarmente, c'è ancora un'altra battaglia da combattere: quella per cambiare e sconfiggere la culla che genera questo modo di pensare e agire».
È per questo che i cristiani faranno fatica a tornare alle loro case, nei villaggi liberati: «È difficile che i cristiani cacciati dall'Isis tornino a vivere una vita normale quando sanno benissimo che la società responsabile della nascita dell'Isis esiste ancora, proprio come tre anni fa», continua monsignor Nona. Nonostante questo, la Chiesa cattolica caldea si sta impegnando per ricostruire case e fiducia nei villaggi della Piana di Ninive e anche «noi in Australia stiamo cercando di aiutare». Ci sono ancora circa 90 mila cristiani che vivono in campi profughi a Erbil e che attendono di ritornare alle loro case di Mosul e della Piana di Ninive, dove 13 mila case hanno bisogno di essere ricostruite. Di queste, secondo gli ultimi dati, 423 sono state sistemate e 1.228 famiglie hanno già fatto ritorno nei villaggi di origine. In uno di questi, Bartella, liberato nel 2016, 200 famiglie ogni giorno fanno la spola da Erbil per cominciare a ricostruire. Ma c'è molto da fare, visto che acqua ed elettricità ancora non funzionano e la sicurezza non è garantita dal governo.
Molti cristiani però sono pronti a tutto pur di tornare. «Ho costruito la mia casa con le mie mani. Ho bevuto l'acqua del Tigri e ho lavorato qui come agricoltore per tutta la vita. Come potrei non desiderare di tornare?», spiega ad Acn Nohe Ishaq Sliman, uno degli uomini intenti nella ricostruzione di Bartella. «Questa è la mia città, voglio tornare a vivere qui». In molte città si ricomincia dalle cose basilari: ad Alqosh, ad esempio, è stata eretta una gigantesca croce sulla strada che porta al villaggio. «È davvero difficile dire quale sarà il futuro dei cristiani in Iraq», conclude monsignor Nona. «Ma come cristiano spero che il futuro sia luminoso nonostante i tanti fattori negativi che ancora predominano nell'area».
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