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Che vantaggio trae l'umanità dalle migliaia di disgraziati che ogni anno vengono al mondo, dai sordi e dai muti, dagli idioti e dagli affetti da malattie ereditarie incurabili, tenuti in vita artificialmente fino a raggiungere l'età adulta?... Quale immenso grumo di sofferenza e dolore tale squallore comporta per gli stessi sfortunati malati, quale incalcolabile somma di preoccupazione e dolore per le loro famiglie, quale perdita in termini di risorse private e costi per lo Stato a scapito dei sani! Quante sofferenze e quante di queste perdite potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina».
Qualcuno potrebbe pensare che queste parole siano state pronunciate da qualche gerarca nazista. E invece no, risalgono a ben prima del nazismo: si trovano nel libro "L'enigma della vita", scritto nel 1904 da Ernst Haeckel. Conosciuto come il fondatore dell'ecologia, Haeckel è soprattutto un entusiasta discepolo di Charles Darwin e delle sue teorie sulla selezione naturale. E quindi di Francis Galton (1822-1911), cugino di Darwin e padre della Eugenetica. Galton porta alle estreme conseguenze la teoria darwiniana sulla selezione naturale: poggiandosi anche sulla recente scoperta dell'ereditarietà dei geni si pone la domanda sul come "guidare" questa selezione in modo da migliorare la razza umana.
Nascono così le Società di Eugenetica nei primissimi anni del '900. All'inizio si parlava soprattutto di Eugenetica "positiva", ovvero attraverso matrimoni selettivi privilegiando quelli tra i migliori elementi della società. Ma ben presto si passa a quella "negativa", cioè il divieto ai deboli di riprodursi. Non per niente leggi eugenetiche (con sterilizzazioni forzate dei "non adatti") tra il 1910 e il 1925 vengono approvate e applicate in diversi paesi nord-europei e in gran parte degli stati degli USA.
È un quadro che aiuta meglio a inquadrare quanto sta avvenendo all'ospedale Alder Hey Liverpool dove il piccolo Alfie Evans viene trattato come uno "scarto" da eliminare.
LA MENTALITÀ EUGENETICA IN GRAN BRETAGNA
Molti in questi giorni, leggendo anche le agghiaccianti sentenze dei giudici britannici, hanno rievocato le leggi naziste sulla selezione della razza.
Se il regime tedesco ebbe certamente la possibilità di applicare certe idee, è riduttivo e alla fine fuorviante ridurre la mentalità eugenetica al nazismo. Al contrario, è proprio la Gran Bretagna di fine '800-inizio '900 all'origine di quel movimento razzista e di quella "cultura dello scarto" (come direbbe papa Francesco) che ebbe poi massimo fulgore nel Terzo Reich. E la Germania nazista forse non avrebbe avuto la possibilità di implementare certi programmi se non fosse stato per i generosi finanziamenti delle grandi fondazioni americane e britanniche e per il grande consenso che riscuotevano in Europa. Il professore Ernst Rudin, psichiatra nazista e teorico delle leggi razziali, potè aprire il suo Istituto Kaiser Guglielmo per l'Antropologia, l'Eugenetica e la Genetica Umana (Monaco, 1927) grazie ai fondi della famiglia Rockefeller. E del resto Hitler poteva contare sull'amicizia e sulla solidarietà di altri capi di governo, anch'essi appartenenti alle Società Eugenetiche, come ad esempio il premier britannico Arthur Neville Chamberlain e il primo ministro collaborazionista francese Henri-Philippe Pétain.
Dunque non è la Germania nazista l'origine del problema ma proprio quella Gran Bretagna liberale che oggi ci fa inorridire.
NON È CORRETTO NEANCHE PARLARE DI UN "RITORNO"
In realtà il movimento eugenetico non se ne è mai andato; si è solo trasformato perché alla fine della Seconda Guerra Mondiale e a causa di quanto avvenuto in Germania, la parola "eugenetica" non godeva più di buona fama. Così pian piano le Società di Eugenetica si trasformano, anzitutto in società di ricerca genetica o di biologia, ma anche semplicemente cambiano nome per rendersi più presentabili.
È il caso della Società di Eugenetica britannica: non ha mai smesso la sua attività, semplicemente oggi si chiama Galton Institute e soprattutto attraverso la sua annuale "Galton Lecture" valorizza gli studi sulla genetica che vanno nella direzione della costruzione dell'uomo "su misura". Tanto per fare un esempio, la Galton Lecture 2018 vedrà protagonista la professoressa Jennyfer Doudna, autrice di una ricerca - eticamente molto controversa - sull'editing del genoma. Scopo di tanti studi del Galton Institute è quello di arrivare alla "costruzione" di individui con le caratteristiche volute, fisiche e morali.
Quello che attribuiamo al nazismo, dunque, è in realtà una cultura ben radicata nel Regno Unito (e non solo), tuttora molto seguita. Anzi, come dimostra il caso di Alfie Evans, essa viene ormai apertamente praticata negli ospedali e proclamata nelle aule di tribunale senza che nessun settore della società muova un dito, faccia un sobbalzo o almeno trovi qualcosa di sinistro in tutto ciò.
Nota di BastaBugie: Tommaso Scandroglio nell'articolo sottostante dal titolo "Sentenza che annulla il diritto e vuole il male di Alfie" parla dei tanti errori giuridici della sentenza della Corte Suprema inglese: la mancanza di diagnosi approfondite su Alfie non ci può portare a dire che tutte le soluzioni terapeutiche sono state sperimentate e che dunque è inutile il trasferimento in un altro ospedale. Ma soprattutto: in passato ci sono stati casi in cui i medici avevano ragione ad opporsi alle richieste dei genitori, ma sempre per il bene dei bambini. Qui invece si opta per il male, la sua morte.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 22 aprile 2018:
La Corte Suprema il 20 aprile scorso ha nuovamente rigettato un ulteriore ricorso presentato dagli Evans per salvare la vita di loro figlio. Dopo la pubblicazione delle motivazioni di questa decisione, la strategia dei tribunali inglesi sul caso Alfie è ormai ben chiara. Come avevamo già appuntato in un articolo precedente tutta la vertenza ruota intorno al best interest del minore. Se il miglior interesse del minore è quello di morire anche i genitori non possono opporsi.
La Corte Suprema scrive nelle motivazioni: "Anticamente il modo con cui un padre poteva far valere il diritto di custodire un figlio era tramite un mandato di 'habeas corpus' (richiesta di comparizione di una persona davanti al giudice in caso di arresto o detenzione/Ndr). E questo accadeva perché un uomo sposato poteva vantare, nel diritto comune, la custodia del figlio. Ma nei tempi più moderni questo diritto è stato circoscritto nell'interesse del benessere del bambino". I giudici citano una legge del 1891 ormai abrogata la quale prevedeva che "quando il genitore di un bambino si appella all'Alta Corte o alla Corte di Sessione per un mandato di comparizione del bambino stesso e la Corte è del parere che il genitore abbia abbandonato o trascurato il figlio o che si comporti comunque in modo che la Corte ritenga di rifiutare di far valere il suo diritto di custodia sul bambino, la Corte può discrezionalmente rifiutare o concedere il mandato". I tre giudici della Suprema Corte concludono: "Questo rende chiaro che i diritti dei genitori non sono assoluti". In breve, tramite l'habeas corpus il genitore poteva far valere il diritto di custodia sul figlio, ma se i giudici ritenevano che, per i più diversi motivi, il genitore non avesse dato prova di essere capace di badare al figlio, potevano disattendere la richiesta di mandato dell'habeas corpus. Ergo i diritti dei genitori non sono senza limiti.
Questo perché il principio di beneficialità a favore del minore, ricordano sempre i giudici, è il principio fondamentale a cui si devono ispirare i tribunali, così come indicato dalla Sezione I del Children's Act, legge del 1989. "È dunque un chiaro principio di legge – si legge nelle motivazioni - il fatto che i genitori non hanno diritto di invocare un mandato di 'habeas corpus' per chiedere la custodia del figlio, se questo non è nel miglior interesse del bambino". Queste premesse servono alla Suprema Corte per concludere che il miglior interesse di Alfie sia quello di morire, miglior interesse che prevale anche sul diritto di libera circolazione in ambito europeo: "i genitori di Alfie non hanno il diritto di orientare i suoi futuri trattamenti medici, […] non possono portar via Alfie dall'Alder Hey con lo scopo di trasportarlo a certi rischi in altri ospedali che non possono fargli alcun bene. È stato definitivamente stabilito che non è nel miglior interesse di Alfie non solo restare nell'Alder Hey Hospital per continuare ad essere trattato com'è attualmente, ma nemmeno di viaggiare altrove per lo stesso fine. Non è legittimo continuare a trattenerlo per questo scopo, né all'Alder Hey né altrove. L'unica liberazione di cui ha diritto, quindi, è la liberazione dall'imposizione di trattamenti medici che non sono nel suo miglior interesse. […]. Non c'è nemmeno alcuna ragione per ulteriori ritardi. […] L'Ospedale dev'essere libero di fare ciò che è stato determinato essere nel miglior interesse di Alfie".
La Suprema Corte si ispira ad un principio giusto – la tutela del miglior interesse del minore anche contro la volontà dei genitori - ma non pertinente al caso specifico. Tentiamo di spiegarci meglio. E' giusto che lo Stato per mano dei giudici si sostituisca nella tutela di un minore allorchè i genitori si siano dimostrati inadatti a tale scopo? Sì. E' ciò che accade ordinariamente con l'affido. Si toglie il bambino da un ambiente non a lui consono e per il suo miglior interesse lo si inserisce in un altro nucleo familiare. Esemplifichiamo ancora rifacendoci ad un caso che interessa proprio l'ambito clinico. Un anno fa da queste colonne commentavamo la seguente vicenda: una bimba di tre anni con un tumore al cervello era in cura presso l'Istituto dei tumori di Milano. Allora i risultati terapeutici apparivano incoraggianti. Nonostante questo i genitori avevano espresso l'intenzione di portarla all'estero per provare nuove cure. I medici di Milano si opposero e fecero intervenire il Tribunale dei Minori di Milano il quale, dopo alcune perizie mediche, diede ragione all'Istituto milanese e impose ai genitori di non trasferire all'estero la bambina. Ciro Cascione, capo della Procura dei Minori, spiegò che "la libertà di cura non è in discussione, ma il genitore deve avere la consapevolezza delle scelte terapeutiche nell'interesse del bambino. Se, come in questo caso, si esce dai protocolli scientifici riconosciuti, dobbiamo intervenire". Qualcuno, leggendo di questo episodio, potrebbe essere tentato di concludere: allora i giudici inglesi hanno ragione a vietare agli Evans di trasportare Alfie altrove. Lo fanno per il suo migliore interesse.
Questo qualcuno però cadrebbe in errore. Infatti la differenza, evidentissima, tra il caso italiano e quello inglese è il seguente: nel caso italiano il miglior interesse per il minore era la cura presso l'Istituto dei tumori di Milano, nel caso inglese il miglior interesse per i giudici è uccidere Alfie, non certo curarlo. Quindi coretto che il principio di beneficialità pesi maggiormente rispetto alla potestà genitoriale perché quest'ultima trova senso nel primo principio ed è dunque orientata al bene della prole. E perciò optiamo per il bene dei bambini anche quando questo non è riconosciuto dai genitori (tipico caso è l'aborto: giusto opporsi alla decisione della donna di abortire). Ma occorre applicare l'autentico principio di beneficialità e non quello maleficenza. I giudici inglesi in realtà vogliono il male di Alfie, non certo il suo bene e quindi non stanno cercando veramente il suo best interest. Il vero bene di Alfie è quello che stanno tentando di tutelare i suoi genitori. Va da sé che l'autentica potestà genitoriale non potrebbe mai entrare in conflitto con il miglior interesse del minore, perché tale potestà per sua natura è sempre orientata al bene del figlio. Però può accadere che il suo esercizio non rispetti sempre tale fine buono e dunque è giusto sostituirsi ai genitori sospendendo la loro patria potestà (cosa che, tra l'altro, non è avvenuta con gli Evans).
L'aggravio di colpa in capo ai giudici inglesi è poi duplice. La mancanza di diagnosi approfondite su Alfie non ci può portare a dire che tutte le soluzioni terapeutiche sono state sperimentate e che dunque è inutile il trasferimento in un altro ospedale. Errato quindi asserire, come hanno scritto i magistrati inglesi, che "non c'è speranza che lui possa mai migliorare". In secondo luogo, seppur così fosse, mai si può uccidere una persona, ad esempio staccandole il respiratore, anche se non ci fossero più speranze che migliori ed anche se fosse paziente terminale ormai prossimo alla morte. (Alfie poi, lo ricordiamo, non è paziente terminale). La censura relativa a quest'ultima pronuncia della Suprema Corte non rileva solo sul piano morale, ma anche giuridico. Infatti ordinando di uccidere Alfie privandolo dei presidi medici vitali non si rispetta il divieto di praticare l'eutanasia previsto dall'ordinamento giuridico inglese. Insomma si legittima che i medici dell'Halder Hey commettano un reato, ossia un omicidio.
Infine è interessante il monito che la Suprema Corte rivolge alla Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) investita da un ennesimo ricorso da parte degli Evans: "Questa è la legge di questo Paese - scrivono i giudici riferendosi alla Children's Act che abbiamo visto indica il best interest del minore come principio fondamentale - Nessun ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo può e dovrebbe cambiarla". Ora, al netto dell'atto di intimidazione giuridica esercitato dalla Suprema Corte all'indirizzo della Cedu, ciò che rileva sta proprio nel fatto che se uno Stato viola un diritto fondamentale - quale è quello alla vita - la Cedu può eccome intervenire per impedire tale violazione, è nei suoi poteri. La Cedu è stata voluta proprio per casi come questo. Detto ciò appare quasi scontato l'esito del ricorso degli Evans: la Cedu darà ragione ai colleghi inglesi. Per amor di sintesi il miglior commento giurisprudenziale a tutta questa vicenda giudiziaria ci viene dall'apostolo Giacomo: "Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza" (Gc 5,6).
In chiusura di questa analisi sommaria della decisione della Corte Suprema, viene in mente il famigerato Acktion T4, il piano nazista di eutanasia eugenetica che, tra il 1939 e il 1941, uccise circa 200.000 pazienti, sia adulti che bambini, affetti da disturbi mentali o da handicap fisici. Allora come oggi non era essenziale il consenso del paziente e il motivo principale, insieme alla conservazione della purezza della razza, era quello di carattere pietistico. Hitler infatti nel '39 indirizzò una lettera ai medici responsabili del Piano affinchè "ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa". Almeno Hitler ebbe il "buon gusto" di non rendere pubblico tale piano eutanasico ben conscio che la riprovazione collettiva sarebbe stata per lui assai dannosa. Oggi il Piano T4 è diventato sentenza pubblica dei tribunali e legge di Stato in molti Paesi occidentali, tra cui il nostro. Dunque non è escluso che a molti di noi toccherà in futuro la stessa sorte di Alfie. Battersi per lui significa battersi anche per noi.
DOSSIER "L'EUTANASIA DI ALFIE EVANS"
Cultura della vita contro cultura della morte
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