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La linea è stata dettata dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: "Avvieremo la procedura per la revoca della concessione ad Autostrade" con conseguente crollo del titolo in Borsa a danno soprattutto dei piccoli azionisti. A seguire le dichiarazioni del Vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio: "Autostrade ha poi la sede finanziaria in Lussemburgo, quindi manco pagano le tasse". e quelle dell'on. Meloni che, in un video su facebook, richiede senza tentennamenti il superamento complessivo dell'attuale regime di concessioni e la nazionalizzazione della gestione delle autostrade. Insomma, pare di capire che il problema sia quello della privatizzazione e la soluzione il ritorno dello Stato. Peccato che molte delle affermazioni a supporto di tale opzione siano infondate. Vediamone alcune, prendendo spunto in particolare dall'intervento della Presidente di Fratelli d'Italia.
1) LE AUTOSTRADE SONO DEGLI ITALIANI PERCHÉ SONO STATE COSTRUITE CON SOLDI PUBBLICI
Non è vero. Nella maggior parte dei casi gli investimenti delle società che hanno realizzato tratte autostradali sono stati ripagati interamente tramite i pedaggi. A questi vanno sommate le accise sui carburanti pagate dagli automobilisti che le percorrono. L'uso di soldi pubblici costituisce, al contrario di quanto accade con le ferrovie, l'eccezione e non la regola.
2) I CONCESSIONARI TRATTENGONO PER SÉ IL 97,6% DEI RICAVI E TRASFERISCONO ALLO STATO SOLO IL 2,4%
Non è vero. Nel 2017 le concessionarie autostradali hanno introitato da pedaggi poco più di 8 miliardi. Di questi ne sono stati trasferiti allo Stato 1,4 miliardi sotto forma di IVA e altri 653 milioni di "canone aggiuntivo" per un totale di oltre 2 miliardi. A questa somma va aggiunto il prelievo sui profitti.
3) ATLANTIA NON PAGA LE TASSE SUGLI UTILI PERCHÉ HA LA SEDE IN LUSSEMBURGO
Non è vero. Nel 2017 Atlantia ha pagato imposte in Italia per 632 milioni equivalenti a un tax rate del 30,6%.
4) LE ATTIVITÀ DI MANUTENZIONE SONO DIMINUITE NEGLI ULTIMI ANNI DEL 40%
Non è vero. La spesa per la manutenzione ordinaria delle concessionarie autostradali è rimasta grosso modo stabile negli ultimi sette anni oscillando tra i 650 e i 700 milioni. In media, le concessionarie hanno speso poco di più di quanto previsto dai rispettivi Piani Economico-Finanziari.
LA SICUREZZA INNANZITUTTO
Una rappresentazione della realtà, come si può vedere, del tutto non veritiera a supporto di un'ipotesi che appare essere l'opposto di quanto auspicabile. Vediamo il perché. Le autostrade in concessione ai privati costituiscono una (rilevante in termini di traffico) eccezione alla regola della gestione delle infrastrutture stradali e di quella ferroviarie che sono per oltre il 90% saldamente in mano pubblica. Vi è qualcuno che può ragionevolmente sostenere che la gestione di strade statali e locali sia migliore di quella delle autostrade? Che le condizioni di manutenzione e di sicurezza siano migliori (al netto delle fisiologiche differenze tra i due tipi di infrastruttura)? Esaminiamo, ad esempio, l'aspetto della sicurezza stradale. In questi giorni ci stiamo giustamente occupando di quella correlata allo stato delle opere d'arte. Ma questo fattore costituisce solo uno degli elementi che determinano il livello complessivo di rischio per chi percorre un'autostrada. Quello di gran lunga predominante è correlato all'incidentalità. Se consideriamo il periodo che va dal 2000 al 2017, ossia quello successivo alla privatizzazione di buona parte della rete, il numero di morti in incidenti stradali è diminuito da 589 a 228 (-61%) e il tasso di mortalità - rapporto tra numero di decessi e traffico - del 68%.
Sarebbe errato attribuire il merito di questo radicale aumento del livello di sicurezza agli attuali gestori; un contributo rilevante è da ascrivere al miglioramento tecnologico dei veicoli e, in parte, anche alle migliori capacità di soccorso delle persone coinvolte nei sinistri. È indubbio però che alcune azioni attuate dai concessionari abbiano avuto un ruolo importante: prima tra tutte l'adozione del sistema Tutor da parte della società Autostrade per l'Italia che, nell'arco di pochi mesi, determinò un crollo del numero di incidenti mortali. Se come termine di paragone analizziamo la tendenza riscontrata sulla rete non gestita da concessionari privati, scopriamo come nello stesso periodo vi sia stato un miglioramento molto significativo ma più contenuto: il numero di decessi è diminuito da 6.562 a 3.200 (-48%).
RITORNO AL MONOPOLIO STATALE? NO, GRAZIE
D'altra parte, perché nel settore delle infrastrutture dovremmo aspettarci risultati diversi da quelli sperimentati in altri campi? Perché lo Stato dovrebbe dare in questo specifico caso dare buona prova di sé come imprenditore? Gli incentivi sono importanti dicono gli economisti. Un concessionario che non tiene fede agli impegni presi può essere sanzionato. E un privato che trae profitto dalla sua attività ha un fortissimo incentivo a tenere in buon ordine i propri impianti. Questi elementi, come tragicamente evidenzia il crollo del viadotto di Genova, non sono garanzia che non si commettano errori e che non vi possano essere negligenze o colpe gravi.
Ma nel caso di una gestione pubblica questi incentivi vengono a mancare. Come ha scritto Margaret Thatcher: le imprese private sono controllate dal settore pubblico e quelle pubbliche da nessuno. Se qualcosa si deve chiedere al settore pubblico è di svolgere meglio di quanto fatto finora il compito di vigilanza sullo stato delle infrastrutture e quello di regolatore. Quanto al resto, il ritorno al monopolio statale è il contrario di quanto auspicabile ossia di più concorrenza tra potenziali gestori conseguibile con procedure trasparenti di assegnazione delle concessioni. Quella che è mancata fino ad oggi e che ha consentito agli attuali gestori di godere di profitti straordinari. Il modello dell'affidamento in gestione a privati, lungi dall'essere abbandonato, dovrebbe essere esteso anche alla rete delle strade extraurbane. Meglio poter scegliere tra più fornitori invece che essere costretti a rivolgersi sempre allo stesso anche quando la qualità del prodotto è scadente.
Nota di BastaBugie: Francesco Agnoli, nell'articolo seguente dal titolo "Così hanno svenduto i beni nazionali e hanno fatto Bingo!" parla a tutto campo nei disastri della politica italiana degli ultimi decenni, dalla privatizzazione di Autostrade agli affari con il gioco d'azzardo. Come una classe politica ha svenduto il paese e riempito le sue tasche e quelle degli amici.
Ecco l'articolo completo pubblicato su Libertà e Persona il 17 agosto 2018:
Lo scontro tra il governo Conte da una parte, Austrotrade (Benetton ecc.), dall'altra, riporta alla memoria gli anni in cui lo Stato italiano mise in vendita molti dei suoi beni nazionali.
Negli anni Novanta, specie dopo il crollo della DC e del PSI, si alternano al potere coalizioni di centro-sinistra; dal 1996 al 2001 c'è l'Ulivo di Romano Prodi, costituito in buona parte dall'ex PCI, divenuto poi PDS e infine DS, con una operazione di maquillage di tutto rispetto, avviata con grandissimo tempismo, cioè allorché cadevano i muri, finivano i dittatori alla Ceausescu, e tutti venivano a sapere di quali orrori grondasse il mondo comunista.
Ci si potrebbe aspettare, se il concetto di sinistra ha ancora un senso, una politica sociale, che privilegi il pubblico sul privato, che, senza giungere allo statalismo bolscevico, conservi allo Stato poteri e prerogative sue proprie.
Invece non è assolutamente così: il colosso dell'IRI (l'Istituto per la Ricostruzione Industriale fondato dal duce, che controlla una bella fetta dell'economia del paese) viene svenduto, pezzo per pezzo, passando gradualmente da circa 500.000 dipendenti ai 108.970 del 1999, alla definitiva messa in liquidazione del 30/6/2000.
I gioielli dello Stato, quelli attivi e quelli in passivo, vengono venduti, o svenduti secondo i punti di vista, con una facilità ed una leggerezza incredibili; chi li vende ha una grandissima possibilità: ridisegnare, ai danni dello Stato, il capitalismo italiano. Parole come capitalismo, mercato, privati, non sono più, per la sinistra, che non disdegna neppure gli incontri con Cuccia, parole sataniche: occorre farci i conti, occorre, se possibile, creare nuove alleanze.
Il '92 è l'anno della svolta, ma è nel 1993-94, con Romano Prodi nuovamente presidente dell'IRI, che vengono vendute ben due Bin, il Credito Italiano (Credit), una vera e propria tigre, e la Banca Commerciale Italiana (Comit), oltre all'IMI (tutto tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, con una velocità straordinaria). Nello stesso periodo di fuoco vengono vendute le finanziarie Italgel e Cirio-Bertolli-De Rica; per quanto riguarda il settore agroalimentare, un settore tradizionalmente importante per la nostra economia, Mauro Bottareli ricorda che dopo il '92 lo Stato vendette agli stranieri, specie inglesi e americani: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza e tante altre. Tra il '93 e il '94 viene venduta la SME, le vetrerie Siv dell'Efim, il Nuovo Pignone dell'Eni... Nel 1994 vengono venduti Acciai Speciali Terni; nel 1995 Ilva Laminati Piani e Italimpianti; nel 1996 Dalmine...
Nei processi di Mani Pulite di tutto ciò non vi è traccia, a parte un interrogatorio di Di Pietro a Prodi, nel luglio 1993, durante il quale al professore bolognese viene chiesto con veemenza a quali partiti il suo Istituto abbia dato soldi. Ma poi non succede più nulla. Viene invece processato e condannato Franco Nobili, entrato all'Iri nel dicembre 1989, dopo sette anni di gestione Prodi: finisce in carcere, poi agli gli arresti domiciliari, perché un suo dirigente s'era sentito silenziosamente autorizzato a pagare una tangente postuma. Eppure, durante la sua breve gestione, all'Iri non succede pressoché nulla di rilevante!
Successivamente il nuovo boom di vendite è proprio quando Prodi passa dalla Presidenza dell'IRI all'improvvisa notorietà al grande pubblico e alla Presidenza del Consiglio: la tattica è già stata studiata: bisogna vendere.
"Smonterò il paese pezzo per pezzo", dichiara il 17 gennaio 1998, in un celebre discorso in provincia di Lecce. Detto, fatto: "gli anni più ricchi delle privatizzazioni italiane sono state il '97 e il '98 quando gli incassi superarono i 20 miliardi di euro" (Corriere della sera, 5/12/2003). Da grande manager, dietro le quinte, a capo del governo, la politica di Romano è sempre quella: prima gli fruttava "solo" relazioni e contatti importanti, in seguito gli permetterà di continuare su questa strada e di abbassare il rapporto tra debito pubblico e Pil, presentandosi come il grande economista, in realtà a spese dello Stato.
La copertura mediatica è data dai grandi giornali, di Agnelli e De Benedetti, che urlano alla necessità di modernizzare il paese, privatizzando. Si assiste al paradosso che la destra, sempre accusata dalla sinistra, demagogicamente, di essere seguace di un "liberismo selvaggio", è ora rimproverata di essere statalista e di ignorare non solo la Thatcher ma anche Adam Smith.
E' Massimo Giannini, sulla prima de la Repubblica di De Benedetti, a sostenerlo, in un articolo dove, tra l'altro, scrive: "In fondo la sinistra di governo è obbligata dalla globalizzazione a fare dell'efficienza, del mercato, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni il nucleo duro del suo riformismo...La vera anomalia è la destra...La cultura di mercato, per la destra, è un puro gadget, un 'usa e getta' elettorale. Quando il Polo ha governato nel '94, non una sola azienda pubblica è stata alienata. Il cavalere-premier arrivò al punto di raccontare una balla in diretta TV: 'Non cederemo la Stet, nemmeno la Thatcher ha privatizzato le telecomunicazioni' Peccato che proprio la vendita di British Telecom sia stato il fiore all'occhiello della Signora Maggie" (la Repubblica 17/11/'98).
Nel 1999, con il governo D'Alema, il Tesoro decide di privatizzare il monopolista elettrico Enel; lo stesso anno si chiude con la cessione da parte dell'IRI di Autostrade: il 30% va alla Edizione Holding dei Benetton (Corriere della Sera, 5/12/2003). "Dando un'occhiata ai bilanci si può avere un'idea di quanto ci guadagni Autostrade: nel 2017 su 3,9 miliardi di ricavi il margine lordo è stato di 2,4 miliardi, oltre il 50% di redditività. Eppure dagli ultimi conti di Autostrade emerge un calo degli investimenti operativi sulle infrastrutture in concessione: dai 232 milioni del primo semestre del 2017 ai 197 del primo semestre 2018" (Corriere della Sera, 16 agosto 2018).
Coi governi dell'Ulivo la liberalizzazione è talmente selvaggia, che le USL, Unità sanitarie locali, divengono ASL, e cioè aziende; che i presidi delle scuole divengono manager; che si diffonde come non mai il lavoro interinale e vengono creati i cosiddetti co.co.co; soprattutto, per dire la più divertente, quando il patrimonio statale non è più disponibile per essere venduto, viene liberalizzato il gioco d'azzardo.
Pur di fare soldi, infatti, ci si getta in un affare poco nobile: la creazione delle sale Bingo. Sono oltre 400, create nel 2001, e garantiscono introiti immensi. Sentiamo cosa scrive il quotidiano cattolico "Avvenire"( 1/7/2001): "mai visti tanti uomini vicini ai DS davanti alle cartelle del Bingo. La metà delle sale pronte ad aprire saranno gestite da chi è in qualche modo legato alla Quercia. Duecentododici sale su quattrocentoquindici. Più della metà. Un business che va dai settanta ai centocinquanta miliardi l'anno per sala. Difficile resistere. I 'D'Alema boys' hanno fatto tombola prima ancora che si cominciasse a giocare. Hanno fondato una società, la Formula Bingo, e fatto il lavoro migliore. I frutti si sono visti. Già, ma perché D'Alema boys? A loro il nome non piace. Ma come sanno tutti nessuno può sceglierselo. Sta di fatto che lo staff di Formula Bingo vede alla vicepresidenza Luciano Consoli (militante PCI sezione Trastevere) e nessuno può negare che sia un amico dell'ex presidente del Consiglio diessino. Così come non passa inosservata la sede della società: Via San Nicola de Cesarini al 3, Roma. Nello stesso palazzo dove si trovano gli uffici di 'Italianieuropei', la fondazione creata da D'Alema...".
Mesi prima, il 20/1/2001, sempre Avvenire specificava che Formula Bingo "è posseduta per metà da una banca, la London Court, a sua volta guidata da un vecchio amico di D'Alema, Roberto De Santis. Così amico che è stato lui a cedere al leader diessino la fin troppo nota barca Ikarus. Ma la London Court ha un altro azionista al 50%, la Chance Mode Italia, il cui patrono è un altro amico di d'Alema, Luciano Consoli...".
L'accusa arriva anche da sinistra. Marco Travaglio, allora autore di libri anti Berlusconi e giornalista de l'Unità, durante un raduno ad una convention girotondina, parlando del governo D'Alema si lascia scappare una frase piuttosto imbarazzante: "Quelli sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo, e ne sono riusciti ricchi". Perché queste accuse? Per la missione Arcobaleno, i rapporti con Colaninno, l'inchiesta sulla Banca del Salento, e i "D'Alema boys", "imputati di improvvisa fama e ricchezza"(Corriere della Sera, 16/1/2004). Pronta la replica degli interessati: D'Alema annuncia una querela... forse... Pasquale Cascella, ex portavoce di D'Alema, lamenta "la cultura politica e giornalistica che esprime Travaglio", dimenticando che è quella che ne ha fatto un eroe della sinistra anti-berlusconiana, e un suo collega all'Unità.
Ma prima o poi i nodi vengono al pettine, e qualcuno oggi ricomincia a parlare di nazionalizzazione di alcuni beni fondamentali del paese, come Autostrade, o di lotta al gioco d'azzardo, che arricchisce pochi e distrugge molti. Vedremo cosa accadrà.
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