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« Torna agli articoli di Giuliano Guzzo

«Mentre noi ci lasciamo di notte, piangiamo, e poi dormiamo coi cani», canta Cesare Cremonini in Nessuno vuole essere Robin, evidenziando come i quadrupedi siano sempre più spesso, di fatto, chiamati a colmare solitudini. Neppure il creativo cantautore bolognese, però, avrebbe forse immaginato un legame tra possesso di animali domestici e scarsa frequenza ai luoghi di culto. Un dato sorprendente che non è stato riportato su qualche bollettino parrocchiale conservatore, bensì sul Journal for the Scientific Study of Religion, una rispettata rivista scientifica peer reviewed.
In breve, Samuel Perry, ricercatore dell'Università dell'Oklahoma e principale autore della ricerca, è partito da un dato: quello che registra come il 60 per cento degli americani abbia un animale domestico. Fatto questo, ha provato a verificare - cosa che mai era stata fatta prima - l'esistenza di un legame tra la religiosità e l'avere o non avere, appunto, cani e gatti. Ebbene, non senza sorpresa, attingendo al database della General Social Survey del 2018, egli ha constatato come esista una netta differenza tra chi non è religioso (o non si dichiara tale) e chi frequenta la chiesa assiduamente. Infatti, nel primo caso la media di animali domestici posseduti è risultata essere di due, nel secondo di 1.4.
SIAMO TUTTI PIÙ SOLI PERCHÉ SIAMO MENO RELIGIOSI
Una difformità non di poco, che deve aver messo in imbarazzo lo stesso Perry, il quale per tentare di spiegare quanto riscontrato ha subito avanzato due ipotesi. La prima riguarda una non meglio precisata personalità diversa, e quindi i diversi gusti, tra non religiosi e devoti; una seconda ipotesi, già più concreta, si basa sulla supposizione che chi possiede più animali avverta meno il bisogno di quella interazione umana che la partecipazione attiva a una comunità religiosa assicura.
Esiste però, anche se Perry non pare averla considerata, una terza spiegazione, per così dire, demografica e forse più lineare e convincente delle altre. Si allude all'evidenza, ampiamente riscontrata in numerosi Paesi, secondo cui le persone religiose hanno più figli delle altre. Ne consegue come sia difficile, per un padre di famiglia che abbia due o tre bambini, badare adeguatamente a più animali domestici: un cane o un gatto già bastano e avanzano. Ecco che allora, per dirla con Cremonini, il mondo in cui «dormiamo coi cani» è il mondo dove siamo tutti più soli. E siamo tutti più soli anche perché siamo meno religiosi o, se si preferisce, meno praticanti.
UNA SOCIETÀ SEMPRE MENO CRISTIANA E SEMPRE PIÙ ANIMALISTA
Viceversa, una società, come la nostra, dove gli animali domestici e non solo godono di sempre maggior attenzione e perfino ormai di «diritti» (dichiararsi cacciatore, oggi, è quasi un rischio), rischia di essere una società dove la fede è sempre più messa in secondo piano. Ma questo, ben prima dei sociologi, lo aveva compreso san Giovanni Maria Vianney, il quale un secolo e mezzo fa profeticamente denunciava: «Lasciate una parrocchia per vent'anni senza prete, vi si adoreranno le bestie».
Intendiamoci: il problema, in tutto questo ragionamento, non sono certo gli animali domestici né tantomeno lo è il miglior amico dell'uomo, come viene meritatamente chiamato il cane. Del resto, dal lupo di Gubbio ammansito da san Francesco all'orso che san Romedio, in Trentino, avrebbe addirittura cavalcato, la stessa storia dei santi è costellata di episodi in cui figurano degli animali, per giunta feroci e selvaggi, ma non per questo abbattuti in modo scriteriato, anzi.
Il punto qui è un altro, ed è quello di una società sempre meno cristiana e, al tempo stesso, sempre più animalista; un accostamento che finora era sempre suonato un po' provocatorio e molto semplicistico. Ebbene, ora sappiamo che così non è, e che l'avanzata della cultura animalista non si sa se sia una buona notizia per gli animali; ma di certo, ed è la cosa più rilevante, non lo è per la Chiesa.
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