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Tre allarmi. Sono quelli che risuonano con forza dopo la votazione con cui giovedì sera il Senato ha varato, con risicata e avventurosa maggioranza, un’ambigua norma definita «anti-omofobia» e che è, invece, potenzialmente orientata ad avviare la manomissione di principi cardine dell’ordinamento italiano. Su questi rischi è opportuno fissare un attimo l’attenzione.
Il primo allarme scaturisce dal tentativo pervicacemente condotto di equiparare le tendenze sessuali alle differenze naturali, ad esempio di sesso e di etnia, elevando le prime ad una 'qualità' antropologica che non hanno e non possono avere, e ciò nell’interesse di tutti, in primo luogo delle persone omosessuali. C’è qui una sorta di 'fissazione' in base alla quale la personalità di ciascuno sarebbe determinata non solo e non tanto da quello che egli «è», ma piuttosto dalle pulsioni sessuali che eventualmente decide di assecondare. S’insiste sulla presunta necessità di porre un freno all’«omofobia », ma si arriva a sospettare persino della difesa del matrimonio monogamico quasi che fosse in se stesso un delitto di lesa maestà.
Il secondo allarme è di natura politico- giuridica. Attraverso un provvedimento di carattere straordinario e orientato a fronteggiare una precisa e contingente emergenza (il decreto espulsioni), si è scelto di introdurre un dispositivo di portata generale e di carattere permanente. Le conseguenze di questa mossa, che è difficile non considerare temeraria, sono purtroppo prevedibili: da un lato si apre la via per interventi normativi nei contesti più disparati, dall’altro si spalancano spazi enormi alle interpretazioni giurisprudenziali volte a realizzare analoghi effetti. Una scelta doppiamente pesante. Pesante in sé, e pesante per l’intento surrettizio che sta animando il legislatore.
Il terzo allarme viene fatto scattare dal solito, incongruo, 'richiamo all’Europa'. Un rito mediocre e fastidioso al quale ricorrono quanti ritengono di poter usare previsioni e regole elaborate dalla Ue come una leva per rivoltare a proprio piacimento l’Italia sul piano legislativo. Nel caso specifico, ci si è richiamati a una possibilità evocata dal Trattato di Amsterdam, che però fa riferimento agli organi dell’Unione, e prevede precisi limiti di competenza. Insomma, un trucco mortificante, che prima o poi finirà per ritorcersi contro chi lo tenta a ripetizione.
Il danno è, dunque, grave. E la promessa governativa di porvi rimedio non riesce a rassicurare chi sa come vanno le cose nelle aule parlamentari. Soprattutto in fasi, come l’attuale, di febbrile riassestamento del quadro politico. Ma ci sarà poco da attendere: i non molti giorni che ci separano dalla fine dell’anno testimonieranno se, e come, avrà seguito concreto quell’impegno formale. Per intanto, ci misuriamo coi fatti. E i fatti hanno un’indubbia eloquenza. Il governo di centrosinistra - già perché la paternità del provvedimento è precisamente sua ha messo sul tavolo il varo di una brutta e rischiosa norma. Lo ha fatto dopo aver dato «parere favorevole» all’emendamento che inopinatamente la introduceva in un dispositivo nato con ben altre motivazioni. Quindi ha opzionato il ricorso al più potente dei mezzi di cui un governo dispone: la questione di fiducia. Una sequenza mozzafiato di decisioni. Accompagnata da un evento di cui è necessario tener memoria: i parlamentari di ispirazione cattolica eletti nel centrosinistra, con l’eccezione della senatrice Binetti, hanno in partenza rinunciato a combattere la battaglia per evitare quell’esito infausto, benché ci fossero le condizioni per far prevalere una posizione più ragionevole. Dispiace dirlo, ma per il Partito Democratico non è una bella partenza.
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