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Copenhagen, 19 dicembre 2009, ore 15:28: con 21 ore e 38 minuti di ritardo, si chiude il più inutile meeting che l'ONU abbia mai organizzato sul clima per approvare un nuovo protocollo dopo quello di Kyoto, quasi in scadenza. Invece, 193 paesi hanno litigato senza costrutto per 13 giorni di fila. Presenti 100 capi di stato e una pletora di partecipanti: 45000, una migrazione biblica da ogni angolo del pianeta che ha prodotto un nulla di fatto politico ma un inquinamento degno di restare alla storia tra i viaggi, spesso in jet privati, gli spostamenti in 1200 limousines di lusso e i bivacchi dei peones nell'area della conferenza. Nulli anche i risultati scientifici sul contenimento del fantomatico riscaldamento globale: nemmeno il limite dei due gradi centigradi, la cui validità era già allora fortemente contestata da molti esperti, è stato accettato dai partecipanti. L'indomani un pudico silenzio è sceso sul tema mentre scompariva dai giornali il grande sconfitto, lo IPCC, il Panel ONU che negli ultimi dieci anni ha fatto il buono e cattivo tempo sulle problematiche climatiche scatenando impetuose quanto poco credibili politiche di lotta ai cambiamenti che avevano, però, il pregio di mettere in moto migliaia di miliardi di dollari, tra lo sviluppo di tecnologie pulite e le transazioni finanziarie sui diritti dei paesi ad inquinare. Il gioco è valso la candela: l'IPCC ha ricevuto il Nobel, anche se solo per la Pace, e il suo presidente ha potuto costruirsi una molto ben remunerata carriera economica da consulente di governi e istituzioni internazionali. Colpevoli supporters di questa situazione i politici di ogni colore felici di cavalcare un'occasione che permetteva di vendere fumo all'elettore proponendosi come salvatori dell'umanità, anche se solo tra 50 anni, sotto pena di terribili catastrofi previste a breve se non si fosse agito celermente.
Su tutta questa costruzione, in massima parte artificiosa ma che solo poche voci fuori dal coro contestavano nel mondo scientifico, ha galleggiato l'IPCC possessore della verità assoluta per unzione divina. Il tutto accettato dai più in maniera ottusamente acritica ignorando che la scienza, in quanto tale, non possiede certezze ma cerca, misurando la natura, verifiche. Questo è tanto più vero per la climatologia, scienza molto giovane, i cui risultati osservativi sono ancora pochi e controversi, ma che si peritava, partendo da queste incertezze, di prevedere scenari sulla scala di 50 o 100 anni. Ma i nodi vengono al pettine, e quando la diga crolla l'acqua non si può più trattenere. Così nel 2007 alcune marchiane castronerie sostenute a spada tratta dai soloni di IPCC si sono rivelate delle sonore bufale. La migliore è stata la previsione del totale scioglimento dei ghiacci dell'Hymalaya entro il 2030 se il presunto riscaldamento globale in atto fosse continuato con lo stesso ritmo. Scoperto, il genio che aveva formulato la profezia ha poi ammesso candidamente di aver forzato volutamente dati e previsioni per spaventare i governi dell'area che non avevano reagito nella maniera dovuta alle sollecitazioni espresse dall'IPCC. Sono noti, nello stesso anno, i messaggi scambiati tra scienziati che discutevano il modo di adattare i dati omettendo quelli che confliggevano con le ipotesi di base a sostegno del cambiamento climatico.
Due le affermazioni gravi e contestate del report del 2007 dell'IPCC che afferma con sicurezza che "i cambiamenti climatici sono inequivocabili" e "molto probabilmente" dovuti all'attività umana: pietre miliari per lo sviluppo del business connesso al tema. Il vaso però era colmo, al montare delle critiche sempre più pesanti, mesi fa un Comitato di rappresentanti delle Accademie scientifiche di varie nazioni è stato messo in piedi dall'ONU per valutare l'operato del panel. I risultati ufficiali saranno presentati a dicembre a Cancun nella nuova conferenza prevista per arrivare a qualcosa di concreto dopo Copenhagen. Già però alcune notizie trapelano. Emergono critiche serie sulle modalità, scorrette e prive di base scientifica, con le quali sono utilizzati i dati, spesso privi di qualunque validazione da parte di comitati scientifici, com'è invece prassi nel mondo accademico. Il comitato sta anche valutando criticamente le modalità seguite per arrivare alle conclusioni che formano il report finale di IPCC del 2007 e le ragioni per le quali voci dissidenti sono state espulse da una struttura scientificamente monodirezionale e bulgara nella determinazione del consenso.
La difesa del coordinatore è debole e spocchiosa: invece di offrire le dimissioni per quanto successo ritiene suo dovere restare sino alla pubblicazione del nuovo report del 2014 affermando che si è trattato di errori marginali che non intaccano il risultato di base sul clima. Nel frattempo, la battaglia tra le due scuole di pensiero, critica dell'IPCC e sua difesa ad oltranza, va avanti. Quali che saranno le risultanze effettive dell'indagine, trattandosi di ONU ci aspettiamo comunque un documento finale edulcorato perché la filosofia dell'Organizzazione è quella di non fare onde per quanto possibile: la storia dei suoi scandali passati lo dimostra. Quello che, però, lascia perplessi è il fragoroso silenzio di stampa ed esperti nostrani di fronte a questa notizia. Erano orde che hanno discettato per anni su tutto e di tutto in una gara a chi era il miglior salvatore del clima, a chi era più verde. Tutti liquefatti sulla spiaggia agostana di Capalbio?
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