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« Torna agli articoli di Gianfranco Amato
Poco prima del sorgere dell'alba dell'1 dicembre 1970, al termine di una tra le sedute notturne più lunghe nella storia del Parlamento italiano, l'allora presidente della Camera dei deputati, il socialista Sandro Pertini, annunciò l'approvazione definitiva della contrastata proposta di legge "Fortuna-Baslini" (dal nome dei due deputati che l'avevano promossa), la quale prevedeva l'introduzione dell'istituto del divorzio in Italia. Esattamente cinquant'anni fa la Legge 1 dicembre 1970, n.898, legalizzava lo scioglimento del matrimonio.
In realtà, quell'evento costituì il primo passo della rivoluzione antropologica che stiamo tuttora vivendo. L'indissolubilità del matrimonio, infatti, rappresentava la linea Maginot di quella società che era ancora in grado di mantenere e garantire una certa solidità. Prima di ridursi nell'attuale forma liquida ben descritta da Zygmunt Bauman.
Lo aveva capito anche un toscanaccio come Amintore Fanfani, che il 26 aprile 1974 a Caltanissetta, durante un comizio, lo spiegò alla sua maniera e a prova di popolo: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l'aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!». Non ci volevano particolari doti divinatorie per comprendere come sarebbe andata a finire, e come, purtroppo, è poi andata a finire.
Anche per il divorzio, come successivamente per l'aborto e le altre "conquiste" della modernità, si utilizzò la logica del male minore e il falso presupposto di dover affrontare situazioni eccezionali e transitorie. Il caso francese, da questo punto di vista, è emblematico. In Francia, infatti, il divorzio fu introdotto per legge nel 1884, nonostante gli ammonimenti che Papa Leone XIII lanciò nella sua enciclica Arcanum Divinae del 10 febbraio 1880, nella quale evidenziava lucidamente le prevedibili conseguenze di quella legge. I sostenitori del divorzio dicevano il contrario: il divorzio avrebbe sciolto i matrimoni male assortiti che attendevano una soluzione, poi si sarebbe rientrati nella normalità. I fatti dimostrarono, invece, l'esatto contrario. Mentre nel 1883 si aveva in Francia una media annua di circa 700 separazioni legali, che sembrava potessero rappresentare la somma dei matrimoni infelici in cui la convivenza appariva impossibile, nell'anno seguente, con la nuova legge, si ebbero subito 1.675 divorzi, e questi, con una continua corsa ascendente, arrivarono nel 1921, quindi dopo trentasette anni, al numero di 32.557, mentre la natalità diminuiva spaventosamente.
LA DIGNITÀ DELLA DONNA NECESSITA DELL'INDISSOLUBILITÀ DEL MATRIMONIO
Resta oggettivo il fatto che, in tutto il mondo, il divorzio abbia reso le relazioni umane e la società molto più liquide e che la solubilità del matrimonio abbia incrinato la stessa stabilità della convivenza civile. Questo lo si deve onestamente ammettere, prescindendo da qualunque valutazione di carattere religioso, sacramentale, teologico. È possibile, infatti, parlare di matrimonio indissolubile anche da un punto di vista squisitamente laico. Pure un laico, per esempio, può comprendere che l'indissolubilità del matrimonio difende innanzitutto la dignità della donna, la parte più debole in caso di abbandono, che dopo aver dato al marito il meglio di sé, dopo aver sacrificato la propria vita per la famiglia, non merita certo di essere sostituita quasi fosse un prodotto scaduto. E tutti possono comprendere la necessità del matrimonio indissolubile per il destino dei figli, il loro sostentamento e la loro educazione. Abbiamo sotto gli occhi quotidianamente gli effetti devastanti del divorzio su intere generazioni di giovani.
Come sosteneva il grande filosofo-contadino Gustave Thibon «gli sposi non si impegnano soltanto l'uno verso l'altro, ma anche l'uno e l'altro verso una realtà di cui fanno parte e che li supera: la famiglia innanzi tutto, di cui sono la sorgente e il sostegno, e in seguito la Nazione e la Chiesa, corpi viventi di cui le famiglie sono le cellule». Ecco perché un'istituzione così importante come il matrimonio ha bisogno d'essere protetta contro le mille vicissitudini dell'istinto e dell'interesse personale, perché proprio il matrimonio costituisce il fondamento della comunità umana; se quello si spezza, questa si sfascia.
Ha proprio ragione Thibon: oggi noi assistiamo al sorgere, per reazione, di una specie di mistica del matrimonio, che si preoccupa più della qualità del vincolo personale tra gli sposi che delle sue conseguenze sociali. Viviamo in un'epoca in cui pare dilagare e dominare una sorta d‘iperestesia dell'io e di ugualitarismo grossolano, che considera la felicità dell'individuo un diritto «assoluto». Ma non è così. Se uno nella vita fa una scelta sbagliata sulla persona che ha deciso di sposare, non può presentare il conto alla collettività. Paga privatamente. Come paga privatamente l'imprenditore che fallisce. Tra il sacrificio individuale per un'errata decisione della sfera privata e l'interesse collettivo della società alla sua tenuta complessiva, è quest'ultimo che deve prevalere. Una persona adulta si assume la responsabilità delle proprie azioni e se sbaglia ne deve accettare le conseguenze. Una scelta, del resto, è davvero libera solo quando è responsabile.
GLI UTILI IDIOTI
Non vale neppure l'obiezione che l'indissolubilità del matrimonio si opponga all'amore. Anzi, è vero il contrario. Lo spiega bene lo stesso Thibon distinguendo la fase antecedente e quella successiva del matrimonio. Prima di sposarsi, infatti, l'individuo consapevole dell'irrevocabilità del matrimonio è «indotto a non avventurarsi alla leggera in quel vicolo cieco che ha il muro di chiusura alle spalle; come il conquistatore che brucia i suoi vascelli per togliersi prima della battaglia ogni possibilità di ritirata, i fidanzati che acconsentono a legarsi l'uno all'altro fino alla morte attingono a questa "idea-forza" una garanzia preliminare contro tutti gli eventi del destino che minacceranno il loro amore». Al contrario, «la sola idea del divorzio possibile prende dimora tacitamente nel profondo dell'anima, come un verme deposto da una mosca in un frutto in formazione e che ne divorerà un giorno la sostanza».
L'esperienza ha più volte dimostrato, infatti, che in alcune circostanze, specie quando si tratta di grandi prove, è sufficiente considerare una cosa come possibile perché essa divenga necessaria. Si tratta di un dato psicologico elementare che da solo basta a sfatare, tra l'altro, il mito del cosiddetto "matrimonio di prova". Dopo il matrimonio vero, invece, «il patto nuziale, situando una volta per sempre la sostanza dell'amore al di là delle contingenze, contribuisce necessariamente a decantare, a purificare l'amore; così come una diga non solo contiene il corso del fiume, ma rende le sue acque più limpide e più profonde; la necessità di subire e di superare la prova del tempo agisce sull'affetto degli sposi come vaglio che separa la pula dal chicco del frumento; essa lo spoglia a poco a poco dei suoi elementi accidentali e illusori e ne conserva solo il nocciolo incorruttibile, trasformando la passione in vero amore».
In questa triste ricorrenza del cinquantesimo anniversario dall'approvazione della legge sul divorzio, appaiono ancor più vere le parole del grande scrittore cattolico Igino Giordani: «Salvare la famiglia è salvare la civiltà. Lo Stato è fatto di famiglie; se queste decadono, anche quello vacilla».
Se lo ricordino bene i politici che si definiscono "cattolici", e che magari si sentono pure "adulti". La Storia ci ha mostrato, infatti, i danni che costoro sanno infliggere ad una nazione: fu proprio il governo guidato dal cattolico Emilio Colombo che introdusse in Italia il divorzio (1970), il governo del cattolico Giulio Andreotti che promulgò l'aborto (1978), e il governo del cattolico Matteo Renzi che approvò le unioni civili omosessuali (2016). [...]
Non c'è nulla da fare, servono sempre gli "utili idioti" per realizzare la rivoluzione antropologica della sinistra radicale e anticristiana.
Nota di BastaBugie: l'on. Carlo Giovanardi ha contestato l'espressione "utili idioti" usata nel precedente articolo per riferirsi ai leader DC che firmarono le leggi su divorzio e aborto. Gli risponde per le rime il direttore della Bussola, Riccardo Cascioli, facendo notare che l'ex democristiano dimentica che quella battaglia non fu veramente combattuta fino in fondo.
Ecco il botta e risposta pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 22-12-2020:
Caro direttore,
mi dispiace dover contraddire Gianfranco Amato ma l'aver definito i Democratici Cristiani "utili idioti" (clicca qui), in quanto supposti responsabili dell'introduzione nel nostro ordinamento di divorzio e aborto, è un falso politico, storico e culturale.
In Parlamento infatti la DC fu compatta nel contrastare la legge Fortuna Baslini, non contando nelle sue file neppure un dissidente, finendo poi per soccombere nel 1970 di strettissima misura (52,7% contro 47,7%).
Al referendum del 1974 quel 47,7% di no al divorzio si ridusse nel paese al 40.7% grazie anche alla massiccia mobilitazione dei cosidetti "cattolici per il no", in prima linea nel contestare la generosa campagna per l'abrogazione della legge da parte dell'allora Segretario della Dc Amintore Fanfani, che lo stesso Amato non può non riconoscere.
Lo stesso copione si è ripetuto per l'aborto che venne approvato alla Camera nel 1978 con il 51,1% dei voti favorevoli ed il 48,9% contrari, trasformatisi poi nel successivo referendum popolare in un umiliante 67,9% a favore della legge contro uno striminzito 32,1% contrario.
In ambedue i casi la DC si trovò contro in Parlamento non soltanto il Partito comunista e i radicali ma anche tutti i tradizionali alleati liberali, socialdemocratici, repubblicani e socialisti, essendo schierato per contrastare la legge, oltre alla DC, soltanto il Movimento Sociale Italiano.
Ancora più stravagante è l'accusa a Colombo ed Andreotti di aver controfirmato, come Presidenti del Consiglio, ai sensi dell'art 89 della Costituzione, la promulgazione di queste leggi già approvate dal Parlamento e firmate dal Capo dello Stato.
Si tratta di un atto dovuto in ossequio alla volontà popolare e alla sottoscrizione del Capo dello Stato: la sia pur rispettabile e sofferta decisione di Re Baldovino dei Belgi, che abdicò per due giorni nel 1990, perché fosse un altro a firmare la legge che legalizzava l'aborto in quel paese, per poi riprendere pienamente le sue funzioni, non sembra proprio si possa applicare nell'Italia Repubblicana nella quale, secondo l'art 1 della Costituzione, la sovranità appartiene al popolo.
Carlo Giovanardi
Caro Giovanardi,
la ringrazio della sua lettera. Le concedo che l'espressione usata da Amato possa essere un po' troppo semplicistica nel sintetizzare quanto avvenne per le leggi sul divorzio e l'aborto, ma credo che anche la sua ricostruzione cada in una eccessiva semplificazione quando - a proposito dei presidenti del Consiglio del tempo - se la cava con un assolutorio "non potevano fare altro".
Intanto, se è giusto ricordare la strenua battaglia dell'allora segretario DC Fanfani contro la legge sul divorzio, bisogna anche ammettere che per l'aborto non andò allo stesso identico modo (e non solo per il contemporaneo sequestro Moro). Ma soprattutto nessuno avrebbe impedito, davanti ai numeri del Parlamento, la decisione di aprire una crisi di governo. L'esperienza dice che a volte basta la minaccia per provocare ripensamenti, ma anche se non ci fossero stati era certamente preferibile la crisi di governo all'approvazione di leggi distruttive della società. Perché di questo stiamo parlando: non di leggi che non piacciono ai cattolici, ma leggi che - la realtà odierna lo dimostra - sono il motivo principale dei disastri sociali ed economici che sono seguiti.
Peraltro nella Prima Repubblica i governi avevano notoriamente breve durata e difficilmente le legislature arrivavano a compimento. Si aprivano crisi di governo per motivi ben meno importanti. Nel 1978, di fronte alla legge sull'aborto, la DC preferì non rischiare il governo, ma altri provocarono comunque la crisi poco dopo e nel 1979 si andò ad elezioni anticipate.
Tutto dipende da quanto riteniamo importante una questione.
Riccardo Cascioli
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