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Le milanesi edizioni Ares inaugurano una collana di biografie di santi (mi sia consentito il calembour) interes-santi sia perché moderni (di loro, infatti, non abbiamo il classico «santino» ma una foto vera e propria), sia perché i primi due editi sono medici. E con qualcosa da dire anche a noi contemporanei, visto che uno si ritrovò in tempo di guerra e l'altro di epidemia.
Il primo è mio, Riccardo Pampuri (con prefazione di don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione). La Chiesa cattolica si distingue da quelle protestanti anche per il culto dei santi, che essa propone ai credenti come intercessori e come esempi. Ebbene, ecco un esempio di Pampuri: si ritrovò nelle trincee della Grande Guerra, l'«inutile macello» (definizione di papa Benedetto XV) con cui l'Italia pagò con 600mila morti e uno sproposito di mutilati due sole città, Trento e Trieste, che l'imperatore d'Austria, Carlo I (beatificato) le aveva invano offerto gratis in cambio della neutralità.
I cattolici erano stati contrari all'interventismo, ma poi fecero il loro dovere di cittadini. Pampuri, dileggiato perché cattolico dai colleghi rodomonti in divisa, all'ora di Caporetto si ritrovò solo. I rodomonti erano tutti scappati, abbandonando un intero ospedale da campo. Lui, da solo, sotto le cannonate e la pioggia battente, caricò tutto il materiale su un carro tirato da un bue e lo portò in salvo. Ventiquattro ore alla velocità di un bue e sotto il temporale: ci si prese la pleurite che doveva poi spacciarlo poco più che trentenne. E una medaglia al valore, alla cui prebenda rinunciò in favore di altri più bisognosi. Lui aveva pensato ai commilitoni cui segavano gambe braccia senza morfina; i rodomonti, alle spacconate dannunziane.
A questo proposito, caviamoci un sassolino: StrisciaLaNotizia ha beccato il mezzobusto che diceva «ics mas» a proposito della X Mas. Due volte, proprio convinto. E meno male che non sapeva nemmeno l'inglese, sennò avrebbe detto «ChristMas». Un suo collega, sempre notiziario tivù, ha scritto «danzatrici balesi» anziché «balinesi». Ma li si mandi a declamare veline sul fronte ucraino.
E veniamo al secondo santo, Giuseppe Moscati, medico di Napoli che molti conoscono anche per lo sceneggiato con Beppe Fiorello detto «semprelui». La biografia è per giunta scritta da un medico, Paolo Gulisano. Ebbene, Moscati, primario a Napoli, nel 1911 dovette affrontare un'epidemia di colera. Vibrio cholerae, venuto (anch'esso!) dalla Cina sulle navi dell'impero britannico.
Parentesi: da piccolo ho avuto l'Asiatica, nomen omen. E ogni anno l'«influenza» viene da lì. Come ho scritto su questo blog, è dalla «peste antonina», inizio del declino romano, che tutto viene da lì. Xi ha forme di controllo inaudite ma a bonificare i potenziali focolai non ci pensa nemmeno.
Gulisano ci informa che il colera generò ben sette pandemie, che colpirono duro Napoli e la Sicilia «liberate» dai Savoia. Moscati, in assenza di antibiotici, ottenne che almeno le condizioni igieniche venissero migliorate: fogne, nuove case più salubri, piazze aperte al posto dei vicoli e dei tuguri. Ma soprattutto, non temeva di andare personalmente dai malati. Gulisano, medico, fa giustamente osservare che se è compito di un pompiere andare nelle fiamme, un medico non può nascondersi dietro computer e certificati e protocolli. Ma Moscati faceva anche di più: nel suo studio teneva un vaso con dei soldi, sul quale aveva scritto «Chi può, metta; chi ha bisogno, prenda».
A Grande Guerra finita, ecco la terrificante Spagnola, che non veniva dalla Spagna ma la Spagna, tra le poche nazioni neutrali, fu la sola a parlarne sulla sua stampa, essendo gli altri media sottoposti a censura di guerra. La portarono gli americani, che forse l'avevano presa dalla loro WestCoast. Ma, anche qui, reticenze belliche. Be', il resto leggetevelo, val la pena.
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