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« Torna agli articoli di Luisella Scrosati
Mangiare non è solo consumare cibo; almeno per l'uomo. L'atto del cibarsi porta infatti in sé il principio della relazione: relazione con il mondo materiale, che porto in me e assimilo; relazione con il prossimo, con il quale condivido la mensa; relazione con Dio, dal quale ricevo il nutrimento dell'anima e del corpo e al quale rendo grazie. È in questa tridimensionalità ordinata che avviene l'atto umano del cibarsi.
Dando un rapido sguardo alle Scritture e all'Insegnamento di quei grandiosi "psicologi" dei primi secoli dell'era cristiana, ovvero i Padri della Chiesa e i Padri del Monachesimo, ci accorgiamo che l'alimentazione occupa un posto centrale. Dalle prime pagine del libro della Genesi, Dio indica all'uomo il modo di nutrirsi (cf. Gen 1,29-30), mostrandogli fin da subito il limite che corrisponde alla sua natura (cf. Gen 2,15-17), al di fuori del quale non avrebbe conseguito un perfezionamento del proprio essere, ma sarebbe al contrario decaduto.
Il peccato originale è giustamente descritto dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n° 397) come una disobbedienza, alimentata dalla perdita della fiducia in Dio: "l'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nel suo Creatore e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio". E aggiunge che, "in seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà".
Disobbedienza, mancanza di fede, sono la sostanza del peccato originale e di ogni peccato; ma la sua materializzazione, quasi il detonatore dell'esplosione, e un altro , come chiaramente il testo della Genesi 3,1-6 indica. Qui compare per sette volte la parola "mangiare"; e poi nei versetti 11-13 per altre tre volte. Decisamente troppo per passare inosservato dai Padri. Evagrio Pontico è, al riguardo, piuttosto lapidario: "il desiderio di cibo ha generato la disobbedienza, e il dolce gustare ha scacciato dal Paradiso" (gli otto spiriti della malvagità 1). E non è il solo a collegare il peccato originale al desiderio di un alimento; Sant'Ambrogio, per esempio, nell'opera De Iacob et vita beata (I, 2-8), sottolinea che dal momento in cui i nostri progenitori "non mantennero la temperanza, i trasgressori di questa virtù fondamentale furono esiliati dal Paradiso, senza aver più parte all'immortalità".
IL DISORDINE RELAZIONALE DIVENTA ALIMENTARE
Insomma, l'atto del cibarsi porta in sé molto più di quanto non appaia a prima vista. Torniamo al racconto genesiaco. La fame è l'appetito primordiale, al quale è legato il mantenimento della vita e della salute del corpo; introdurre in sé un alimento indica poi un con la creazione molto intimo: significa far entrare in sé il mondo naturale, trasformarlo in sé. Ora, è chiaro che un disordine di questa dimensione concupiscibile significa disordine nel desiderio e nella relazione; il problema del peccato primordiale non è quello di mangiare un frutto, ma di disprezzare Dio, disubbidendo al suo comando con l'illusione di diventare come Lui. Il punto però è che, molto realisticamente, le Scritture ci indicano che questo disprezzo si consuma si consuma nell'atto di prendere cibo. Anche Esaù concretizzò il proprio disprezzo per la primogenitura - essere l'erede della promessa! - mangiando un piatto di lenticchie (cf. Gen 25, 29-34). E Giuda consumò il proprio tradimento mangiando il boccone datogli dal Maestro e Signore (cf Gv 13,27). Stringiamo ulteriormente la riflessione. Il cibarsi in modo disordinato nella bibbia è la cifra di un problema relazionale: i progenitori si distolgono si distolgono da un rapporto di fiducia con Dio e mangiano ciò che non devono ; Esaù non considera il bene più prezioso l'essere l'oggetto dell'elezione divina e si butta su un piatto di lenticchie; Giuda tradisce l'amore di Gesù e riempie il suo ventre del boccone del tradimento.
Non c'è disordine relazionale che non si traduca in un "problema alimentare". E viceversa la follia del ventre, la gastrimargìa, è vera e propria idolatria, come insegna San Paolo (cf Fil 3,19), e dunque mina, fino a distruggerlo, il rapporto con Dio e con il prossimo. Mangiare solo quello che piace, quando ne abbiamo voglia e quando ci pare: sono questi i tre campanelli d'allarme che tradizionalmente i padri indicano come spie della passione della gola, dell'idolatria del ventre.
I padri vi dedicano grande attenzione, così come ai rimedi dell'astinenza e del digiuno, perché ogni passione è una malattia dell'anima - che poi traduce anche in un malattia del corpo, si somatizza - , non solo le sue manifestazioni catalogate nel Dms.
Essi sanno molto bene che quando la sfera del concupiscibile cerca soddisfazione nei piacerei della carne - gola, lussuria, avidità, etc -, l'anima si "appesantisce" e Dio sparisce dall'orizzonte. Il desiderio dell'anima viene così sviato dal suo fine proprio: "l'occhio è stato creato per la luce, l'orecchio per i suoni, ogni cosa ha il suo fine e il desiderio dell'anima per slanciarsi verso Cristo" (Nicola Cabasilas, la vita in Cristo, II, 90). Il desiderio di cibo è il più primordiale nell'uomo: per questo il demonio ha tentato lì i progenitori; per questo la prima battaglia di ogni cristiano è quella di ripristinare il primato di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cf. M.t 4,4). Ed ancora per questa ragione il figlio di Dio diventa nostro cibo, per colmare ogni desiderio dell'uomo.
L'ILLUSIONE DELLA COMPENSAZIONE
Proviamo adesso a chiudere il cerchio. La persona con un disturbo alimentare è disperatamente affamata: il suo desiderio non riesce a trovare soddisfazione nell'apertura relazionare, che anzi è stata ed è una sofferenza. Nell'anoressia questo si traduce nel rigetto: il rifiuto della relazione che ferisce diviene rifiuto di cibo, controllo maniacale di ciò che entra in me, di ciò che in qualche modo penetra nella mia persona. La persona che ne soffre si difende chiudendosi a riccio, respingendo ogni forma di "intrusione" nella propria persona, che il cibo incarna perfettamente. La persona bulimica si una relazione contraria, ma in fondo c'è lo stesso problema: il tentativo di saziare la propria disperata fame primordiale di relazione si traduce questa volta nell'introdurre cibo in quantità e modalità sregolate, rigorosamente in solitudine, cercando così di occupare lo "spazio" vuoto della relazione; eccesso che poi viene "compensato" ricorrendo all'assunzione di lassativi, al vomito autoindotto e altre modalità. Compensazione che non si trova invece nella persona affetta da binge eating. Anoressia, bulimia, binge eating sono vere e proprie patologie che, nell'ottica delle Scritture e dei Padri, devono essere comprese come devastazioni del desiderio, che si incaglia nei beni sensibili per compensare un vuoto relazionale. Una compensazione ingannevole e insalubre, destinata al fallimento , poiché conduce verso l'oblio di Dio, relazione fondamentale, Sommo bene capace, solo, di dare pienezza al desiderio dell'uomo.
I disordini alimentari di ogni tipo devono essere riconosciuti, senza coprirli con una vergogna fallace, perché sono un campanello d'allarme che rivela questa dinamica di uno sviato amore di sé, brillantemente descritta da San Massimo Confessore: "più l'uomo andava verso cose sensibili attraverso i suoi soli mezzi, più l'opprimeva l'ignoranza di Dio; più era soggiogato dall'ignoranza di Dio, più si abbandonava al godimento delle cose materiali (...); più egli si impregnava di questo godimento, più eccitava la filautìa (amore disordinato di sé, n.d.a) che ne era la conseguenza; più coltivava la filautìa, più inventava molteplici modi per ottenere il piacere, frutto e scopo dell'amore di sé" (Questioni a Talassio, Prologo).
Rendersene conto non è la parola ultima di un fallimento, ma l'inizio prezioso e indispensabile del percorso di guarigione. Il cui esito è la piena comunione con Dio, che le Scritture descrivono come un banchetto di gustose e abbondanti vivande.
Dio colma con sovrabbondanza il desiderio dell'uomo.
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