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Nel terzo capitolo della Regola di San Benedetto, un lungo elenco di "strumenti delle buone opere", incappiamo in alcune raccomandazioni demodé: "temere il giorno del giudizio, provar terrore dell'Inferno, rivolgere ogni desiderio dello spirito alla vita Eterna, avere ogni giorno presente dinanzi agli occhi la morte"(RB,3,44-47). Morte, giudizio, Inferno, Paradiso: i novissimi devono essere una realtà viva, sempre presente alla memoria e all'attenzione del monaco. La nostra cultura è talmente decaduta da non saper far altro che scongiuri di fronte a un'affermazione del genere, o scuotere la testa per una concezione così "negativa" della vita. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessuno pensa alle conseguenze delle proprie azioni, tanto meno a quelle eterne. Si vive in una de-responsabilizzazione pressoché ordinaria, ritmata dai soliti ritornelli: "lo fanno tutti", "bisogna stare al mondo", "mi hanno detto di farlo", "ho obbedito".
E invece San Benedetto, raccogliendo l'insegnamento di Nostro Signore e la tradizione monastica a lui precedente, taglia corto: ricordati che dovrai rendere conto di ogni tua azione, di ogni tua parola, di ogni tuo pensiero volontario. Ricordati che l'inferno c'è, e non è così tanto scontato che tu non ci finisca dentro. Per l'eternità. Temilo e stanne lontano. Ricordati che questa vita passa e che, anche in ciò che essa ha di buono e bello, non è che un pallido riflesso instabile delle vita vera. Ricordati che la morta verrà di certo, molto prima di quanto tu pensi; non fare il fenomeno: per quanto tu sia in salute, abbia denaro conosca le persone che contano, abbia potere e intelligenza, potresti non arrivare a domani.
Queste verità non sono né dure, né tristi: sono verità. Riflettervi spesso e conformare la propria vita al vero è semplicemente saggezza; rimuoverle e deriderle, stoltezza. Quando queste verità penetrano nel cuore, dopo aver oltrepassato la spessa membrana di insipienza e inavvertenza, esse diventano anche grande fonte di consolazione. Perché questo giudice al quale dovremo rispondere di ogni cosa è lo stesso che si è immolato per noi; ed è veramente giusto: non lascerà che l'empietà trionfi, che l'iniquità possa perdurare, che colui che persevera nel male abbia un'eternità di gaudio. Perché quando si impara a temere l'inferno, viene meno la paura di tante altre cose di questa vita, che invece sono fonte di ansia per gli uomini. Perché quando si desidera la vita eterna, si apprezzano le cose di quaggiù per quelle che sono, e si acquista una grande libertà interiore. Perché quando pensiamo che la morte è accanto a noi, le pene di questa vita ci appaiono momentanee le preoccupazioni ridicole, la scalea dei valori nel giusto ordine. Ricordati perciò di "vigilare in ogni momento" sulla tua "condotta di vita" (RB, 3,48): ogni attimo pesa quanto l'eternità. Vivi sempre consapevole "che Dio ci vede in ogni luogo" (RB, 3,48): se quello sguardo diviene inquietante o consolante, dipende da te.
Bisogna notare come San Benedetto esorti a temere il giudizio e l'inferno, non la morte; nel contempo, bisogna pensare anche alla morte. Perché? Ce lo spiega questo squisito racconto tratto da Vitae Patrum: "Raccontano di un anziano che morì a Scete, e i fratelli si radunarono attorno al suo letto, lo vestirono e cominciarono a piangere. Egli aprì gli occhi e rise, e così fece una seconda e una terza volta. I fratelli allora lo supplicarono: "Dicci, padre, perché noi piangiamo e tu ridi?". Rispose loro: "La prima volta ho riso, perché voi temete la morte; la seconda, perché non siete pronti; la terza, perché dalla fatica io vado alla quiete" (5, 11, 52).
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