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« Torna agli articoli di Giacomo Samek Lodovici
All’Angelus di domenica scorsa il Papa ha ricordato che «i peccati che commettiamo ci allontanano da Dio, e, se non vengono confessati umilmente confidando nella misericordia divina, giungono sino a produrre la morte dell’anima». Ha poi aggiunto che «nel Sacramento della Penitenza Cristo crocifisso e risorto, mediante i suoi ministri, ci purifica con la sua misericordia infinita, ci restituisce alla comunione con il Padre celeste e con i fratelli, ci fa dono del suo amore, della sua gioia e della sua pace». Tuttavia moltissimi solitamente obbiettano: perché confessarsi con un sacerdote?
Perché non è sufficiente rivolgersi direttamente a Dio? Vediamo alcune ragioni teologiche ed antropologiche.
Per il credente dovrebbe essere vincolante la volontà di Gesù che, proprio nel giorno di Pasqua, ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimettere resteranno non rimessi» ( Gv 20, 22-23) Inoltre lo stesso Gesù affida a Pietro le chiavi del Regno dei cieli: 'a te darò la chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Anche San Paolo ( 2 Cor 5, 18-20) dice: «Lasciatevi riconciliare con Dio». Non dice: «riconciliatevi da soli»; bensì: «Lasciatevi riconciliare»; e spiega che «Cristo ha affidato a noi il ministero della riconciliazione». La mediazione del sacerdote scaturisce anche dal fatto che (qui il discorso sarebbe molto lungo) il cattolicesimo è una religione che coltiva la dimensione interiore ed inviolabile, personale del rapporto con Dio, ma non è solo un fatto privato tra il singolo e Dio, bensì comporta (per buone ragioni che non è qui possibile esporre) una dimensione comunitaria ed ecclesiale.
Dunque il peccato non è solo un’offesa a Dio, bensì rappresenta anche una ferita al Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, in cui ogni credente è inserito: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; è se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui», dice ancora Paolo ( 1 Cor 12, 26). E, come ha già magistralmente spiegato nel V secolo Sant’Agostino, nella polemica contro i donatisti, l’efficacia di ogni sacramento non dipende dalla santità o indegnità del ministro, bensì dalla potenza di Dio, di cui il ministro è strumento. Ancora: l’uomo non è un puro spirito, bensì una sintesi di spirito e corpo, profondamente compenetrati, che sono due dimensioni di un’unica sostanza. Da ciò allora deriva, anche sul piano antropologico, un motivo di ragionevolezza della confessione col sacerdote. Infatti, poiché siamo anche corporei, abbiamo bisogno di gesti e atti corporei per esprimerci, e abbiamo bisogno di gesti corporei nei nostri riguardi. Per esempio, l’amore (genitoriale, amicale, coniugale, ecc.) non è fatto solo di pensieri interiori, bensì si esprime anche attraverso l’abbraccio, il bacio, ecc. Per analogia si può comprendere che anche chi si confessa abbia bisogno di sentire materialmente con le sue orecchie fisiche che il sacerdote gli dica: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Ne ha bisogno per essere certo che Dio lo abbia davvero perdonato. Se la confessione fosse solo interiore come potrebbe egli sapere di essere stato perdonato? Solo se avesse una locuzione interiore. Ma, anche in questo caso, come sapere che non si tratta solo di un’autosuggestione?
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