L'ITALIA E IL PACIFISMO POLITICAMENTE CORRETTO MA DISGUSTOSO
L'italian way of war (e le sue conseguenze)
Autore: Anna Bono
In Italia ormai anche la guerra deve essere ‘politicamente corretta’. Perciò si vorrebbe addirittura che la forza impiegata dai nostri soldati fosse proporzionata a quella di cui è dotato il nemico: come se, quando scoppia un conflitto, non ci fosse in gioco la vita di chi sta combattendo e come se l’obiettivo dei contendenti non fosse la sconfitta dell’avversario; e, perciò, si aprono inchieste giudiziarie per chiarire le condizioni in cui i militari italiani uccidono durante gli scontri a fuoco: dunque, siamo una nazione che non soltanto è incapace di sopportare delle perdite in battaglia, ma che non ammette neppure di infliggerne ai nemici. Difatti, i nostri governi da anni negano che i contingenti italiani impegnati su fronti di guerra partecipino direttamente ad azioni offensive, cosa che in realtà avviene, e quasi a malincuore ne riconoscono il compito di supporto agli eserciti alleati durante gli attacchi condotti da questi ultimi. Si è arrivati persino al paradosso linguistico di parlare di guerra senza mai usare questo termine e usando al posto forme lessicali che includono tutte la parola ‘pace’, cioè il suo contrario: i nostri sono “soldati di pace” che svolgono “operazioni di pace” o, in alternativa, “missioni umanitarie”. Per dimostrarlo, si attua una costante selezione delle immagini e delle informazioni tesa a presentarli sempre intenti ad attività assistenziali a beneficio delle popolazioni locali. Conseguentemente, anche la parola ‘nemico’ è bandita dal vocabolario dei politici e dei vertici militari: nei comunicati stampa si preferiscono espressioni quali “uomini armati”, “elementi ostili”, “forze non identificate”. Di questo singolare modo italiano di condurre la guerra, e delle sue conseguenze, parla 'Iraq-Afghanistan. Guerre di pace italiane', il libro del giornalista ed esperto di difesa Gianandrea Gaiani appena pubblicato dalla casa editrice Studio LT2. Come suggerisce il titolo, l’analisi verte soprattutto sulle modalità di svolgimento delle due missioni alle quali l’Italia ha partecipato dopo aver aderito, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, all’alleanza dei paesi minacciati dal terrorismo islamico. È infatti su queste due missioni che ha pesato maggiormente l’influenza dello schieramento antioccidentale sostenuto dai partiti di estrema sinistra e principale responsabile di questa atipica italian way of war: uno schieramento che, dopo l’11 settembre, è diventato un vero e proprio fronte interno, capace di convincere vasti strati dell’opinione pubblica e di incidere sulle scelte del governo italiano in materia di politica estera e di difesa. Si devono al governo Berlusconi i primi caveat che hanno limitato l’operatività delle nostre truppe in Afghanistan, benché l’esecutivo di centro-destra certo non dubitasse dell’utilità di liberare Kabul dai talebani e ancor meno dell’appartenenza dell’Italia all’Occidente e della realtà della guerra dichiarata da al Qaeda alla nostra civiltà. Poi, con la vittoria nel 2006 della coalizione guidata da Romano Prodi, che ha portato al governo i portavoce delle formazioni antioccidentali e no global, la collocazione del nostro paese è diventata meno netta e si è accentuata la pericolosa posizione di faglia che l’Italia occupa a causa delle divisioni politiche e sociali che la caratterizzano. Il consenso alla guerra contro il terrorismo islamico si è quindi ridotto con ulteriori ripercussioni negative sul piano militare, ben documentate nella precisa e dettagliata ricostruzione di Gianandrea Gaiani. Il quadro che ne risulta è estremamente allarmante: per vincere bisogna almeno sapere di essere in guerra; per vincere riducendo al minimo i costi umani ed economici, bisogna dotare i propri combattenti di tutto il potenziale offensivo disponibile e permettere che lo usino secondo necessità. Finora l’Italia non lo ha fatto.
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