BastaBugie n�942 del 10 settembre 2025

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DON LEONARDO MARIA POMPEI, L'OBBEDIENZA CHE MANCA E L'ESEMPIO DEI SANTI
La sospensione a divinis è l'ovvia conseguenza della sua non sottomissione alla gerarchia ecclesiastica e il rifiuto di celebrare la Messa di Paolo VI
Autore: Daniele Trabucco

La sospensione a divinis comminata a don Leonardo Maria Pompei non è riconducibile a un singolo atto materiale di disobbedienza, ossia la violazione del precetto penale del 2 settembre 2025, ma trova il suo fondamento canonico, teologico e filosofico in una pluralità di fattori convergenti. Il provvedimento, infatti, non può essere letto solo come reazione a un atto di insubordinazione circoscritto: è la conseguenza di una scelta più radicale, ossia la dichiarata non sottomissione alla gerarchia ecclesiastica e il rifiuto di celebrare secondo il rito promulgato dall'autorità della Chiesa, che equivale a un atto di rottura della comunione gerarchica e liturgica.
Sul piano teologico, è bene ricordarlo, l'obbedienza gerarchica non è un mero vincolo disciplinare, dal momento che si radica nella costituzione divina della Chiesa, la quale, secondo Lumen gentium (n. 20-21 e, prima ancora, secondo la Mystici Corporis Christi del 1943 di Pio XII), è governata dai Vescovi in comunione con il Romano Pontefice e richiede dai presbiteri una sincera subordinazione e cooperazione. Rifiutare tale comunione significa porre in discussione l'unità visibile della Chiesa, che si manifesta appunto nella sottomissione al Magistero e alla disciplina ecclesiastica. La sospensione, pertanto, si presenta come misura volta a tutelare non solo l'ordine giuridico interno, quanto, soprattutto, la comunione ecclesiale.
L'obiezione secondo cui non si dovrebbe obbedire alla gerarchia quando questa «deraglia» non regge né sul piano canonico, né su quello teologico e filosofico. È vero che l'obbedienza non è cieca, ma ordinata alla Verità; tuttavia, la Chiesa cattolica insegna che l'assistenza dello Spirito Santo preserva indefettibilmente il Magistero da errori nei dogmi e questo resta un fatto innegabile: nessun dogma di fede è stato mai messo in discussione, neppure oggi.
La crisi attuale tocca orientamenti pastorali, documenti (si veda, a titolo esemplificativo, Fiducia supplicans) e indicazioni catechetiche, ma non ha scalfito il deposito della fede. In questi ambiti, che appartengono al magistero autentico ordinario e non al magistero solenne, il fedele e il sacerdote devono prestare l'«ossequio religioso dell'intelletto e della volontà» (Pio XII, Humani generis del 1950), cioè rispetto e adesione interiore proporzionata al grado dell'insegnamento, ma senza rinunciare ad interrogativi critici. Il can. 212, paragrafi 1-3, del vigente Codex iuris canonici del 1983, che riconosce ai fedeli il diritto di manifestare le proprie perplessità, impone che ciò avvenga sempre con rispetto e riverenza, mai con atteggiamenti di rottura.
La posizione, pertanto, secondo cui si può obbedire solo quando si ritiene che l'autorità «stia nella verità» conduce inevitabilmente alla dissoluzione dell'unità ecclesiale e a un criterio soggettivo che trasforma la Chiesa in una somma di opinioni private (lo stesso mondo della tradizione, pur nella sua ricchezza, è attraversato da particolarismi e personalismi, quasi una sorta di affannosa rincorsa a chi è più «tradizionalista» degli altri ed ha il seguito maggiore).

SUBORDINARE L'AUTORITÀ ALL'ARBITRIO INDIVIDUALE
Filosoficamente, questo equivale a subordinare l'autorità all'arbitrio individuale, negando il principio che l'autorità è mediazione dell'ordine oggettivo voluto da Cristo. Teologicamente, significherebbe ridurre la promessa di Cristo sulla indefettibilità della sua Chiesa a una formula vuota.  Eppure, è proprio Cristo che, come scrive l'apostolo Paolo, «factus oboediens usque ad mortem» (Fil 2,8). Canonisticamente, infine, rifiutare l'obbedienza al legittimo Ordinario per le ragioni sopra indicate rischia, sebbene il decreto di sospensione a divinis di Mons. Crociata non lo affermi formalmente, di perfezionare il grave delitto di scisma di cui al canone 751 sul quale, eventualmente, interverranno le autorità ecclesiastiche davanti alle quali don Pompei ha il diritto-dovere di difendersi.
Detto in altri termini, l'obbedienza, pur sofferta e a volte «martiriale», non è un atto di debolezza, bensì di fede nel Cristo che non abbandona la sua Chiesa. Senza questo sguardo soprannaturale, l'istituzione ecclesiale apparirebbe solo come un corpo umano, fragile e fallibile; ma con esso, si coglie che dietro e dentro le vicende della storia, spesso contraddittorie e sofferte, rimane sempre presente il Signore che ha promesso: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Neppure il ricorso al cosiddetto «criterio dell'eccezione» regge come fondamento per giustificare la posizione di don Pompei. L'idea di fondo, presa in prestito da categorie giuridico-politiche moderne, sarebbe che, in situazioni straordinarie di crisi, la coscienza del singolo o del gruppo possa sospendere l'obbedienza dovuta all'autorità legittima per salvaguardare la verità. Tuttavia, questo criterio, che può avere una sua funzione nello Stato, non è applicabile all'ordine ecclesiale. Dal punto di vista canonico, infatti, lo ius publicum ecclesiasticum non contempla uno «stato d'eccezione» che autorizzi a negare la sottomissione alla gerarchia.
La Chiesa non si fonda sul consenso dei fedeli, né su dinamiche emergenziali, quanto sulla promessa indefettibile di Cristo, che ne garantisce la continuità. Pretendere di sospendere l'obbedienza in nome di un presunto «stato d'eccezione» (e chi lo proclamerebbe?) significa misconoscere che il Signore non abbandona la sua Chiesa e che il deposito della fede non è stato, né può essere intaccato, anche quando vi sono documenti pastorali controversi. Filosoficamente, inoltre, il criterio dell'eccezione implica un primato del soggettivo sull'oggettivo, della volontà individuale sul principio ordinante dell'autorità. Applicarlo alla Chiesa significherebbe dissolverne la natura soprannaturale e ridurla a società umana che si regge sull'eccezione e non sulla grazia. La Chiesa, però, non è un ordinamento umano che si salva «nonostante» la regola: è sacramento universale di salvezza, che permane nella sua verità proprio attraverso la fedeltà al principio gerarchico, anche nei tempi di confusione e smarrimento.

SAN GIOVANNI BOSCO E SAN PIO DA PIETRELCINA
Gli esempi di san Giovanni Bosco (1815-1888) e di san Pio da Pietrelcina (1887-1968) mostrano con chiarezza come l'obbedienza, anche quando imposta in circostanze dolorose o umanamente incomprensibili, non sia mai vana, ma diventi via di santità e di fecondità ecclesiale. Don Bosco visse nel cuore del XIX secolo, un'epoca tutt'altro che compatta dal punto di vista ecclesiale: al tempo di Pio IX, pontefice dal 1846 al 1878, la Chiesa era attraversata da gravi tensioni interne ed esterne, dal conflitto con lo Stato unitario italiano alla questione romana, dalle controversie sul ruolo del Sillabo e del Concilio Vaticano I (mai concluso) alle divisioni tra intransigenti e conciliatoristi.
Lo stesso nuovo slancio delle opere educative e caritative suscitava diffidenze e sospetti: al santo torinese vennero imposti controlli e limitazioni, gli si chiese di non intraprendere iniziative senza l'esplicita approvazione dei superiori e dovette affrontare accuse di imprudenza e di eccessiva autonomia. Egli avrebbe potuto interpretare tali misure come ingiuste o come un soffocamento del carisma ricevuto, eppure scelse l'obbedienza, confidando che la Provvidenza avrebbe comunque fatto fiorire l'opera. Il risultato fu che proprio attraverso quell'umiltà, i Salesiani divennero una delle realtà più vaste e feconde della Chiesa.
Padre Pio da Pietrelcina, a sua volta, sperimentò un'epoca segnata da tensioni non meno profonde. Nel primo Novecento e nel pontificato di Pio XI e Pio XII la Chiesa fu attraversata da conflitti interni legati al modernismo, alla nuova teologia, alle reazioni disciplinari spesso dure, alle divisioni tra clero progressista e clero intransigente. Egli stesso fu vittima di provvedimenti severissimi: interdizione dalle celebrazioni pubbliche, proibizione di confessare, isolamento dal popolo, controlli medici umilianti e accuse infamanti. Anche qui sarebbe stato facile denunciare la gerarchia come ingiusta o corrotta; eppure, Padre Pio non dichiarò mai di non riconoscere l'autorità dei suoi superiori, ma obbedì in silenzio, vivendo quel tempo come un martirio nascosto. La sua fedeltà, nonostante la durezza delle misure, fu la chiave stessa della sua santità e rese più limpida la sua testimonianza davanti alla Chiesa e al mondo.
Nei due casi, dunque, non si può liquidare l'obbedienza dei santi con la debole obiezione che «allora c'era Pio IX» o che allora non c'era modernismo e la crisi attuale». In realtà, tanto nel XIX quanto nel XX secolo, la Chiesa era attraversata da tensioni dottrinali, disciplinari e pastorali di grande portata: le controversie sul primato papale, le diffidenze verso nuovi apostolati, le fratture sul modernismo, le contrapposizioni tra correnti teologiche.
Nonostante questo, don Bosco e Padre Pio scelsero di non rompere la comunione, di non erigersi a giudici della Chiesa, ma di vivere l'obbedienza come partecipazione al mistero di Cristo obbediente. Ignorare il loro esempio significa svuotare la santità di un tratto decisivo e illudersi che la disobbedienza sia soluzione alle crisi. Essi mostrano che la vera forza non sta nel contrapporsi alla gerarchia, quanto nel rimanere fedeli nella prova, credendo che Cristo non abbandona la sua Chiesa e che, anche attraverso i limiti umani dei suoi pastori, la grazia opera. Don Leonardo lo sa molto bene, in quanto presbitero ben formato, e per questo affetto e, soprattutto, preghiera non possono mancare.

Nota di BastaBugie:
Luisella Scrosati nell'articolo seguente dal titolo "Il caso di don Pompei: qual è la volontà di Dio?" parla della sospensione a divinis di don Leonardo Maria Pompei, sacerdote con grande seguito sui social. Il sacerdote rifiuta la comunione gerarchica della Chiesa per approdare a un non meglio precisato "mondo della tradizione". Una scelta oggettivamente sbagliata.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 8 settembre 2025:

Nella mattinata di giovedì 4 settembre, il vescovo della Diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, Mons. Mariano Crociata, ha emanato un decreto che sospende il rev. Don Leonardo Maria Pompei, fino ad allora parroco di S. Maria Assunta in Cielo in Sermoneta, «da tutti gli atti della potestà di ordine, da tutti gli atti della potestà di governo e dall'esercizio di tutti i diritti o funzioni inerenti all'ufficio». Il decreto precisa inoltre che «qualunque atto di governo dovesse essere posto dal presbitero in parola è da ritenersi invalido. Al Rev. Don Leonardo Pompei è concessa la dispensa dall'obbligo di portare l'abito ecclesiastico ed è chiesto di non presentarsi pubblicamente come sacerdote».
La sospensione del sacerdote, noto per la sua diffusa presenza sul web e sui social network, è stata motivata dal fatto che don Pompei ha violato un precetto penale che il proprio vescovo gli aveva imposto il 2 settembre scorso, precetto «che imponeva e ordinava al presbitero, sotto pena di sospensione, di non convocare alcun incontro o assemblea parrocchiali con i fedeli della parrocchia di S. Maria Assunta in Cielo in Sermoneta, e di sospendere qualunque tipo di attività sui social media». L'azione del vescovo è stata motivata dal fatto che il sacerdote aveva comunicato la sua volontà di diffondere tramite una diretta web le ragioni che hanno motivato la sua scelta di esercitare d'ora in avanti il proprio ministero sottraendosi alla giurisdizione del proprio vescovo, per unirsi ad un non meglio definito "movimento tradizionalista cattolico". La sera del 3 settembre, don Leonardo M. Pompei ha comunque tenuto l'annunciata diretta pubblica, esponendosi in tal modo alle sanzioni comminategli dall'Ordinario.
Sarebbe riduttivo e fuorviante pensare che mons. Crociata sia ricorso alla sospensione a divinis semplicemente perché don Pompei avrebbe disobbedito al suo ordine di sospendere ogni attività sui social. Crociata è l'Ordinario della diocesi di Latina dal 2013, e per oltre dieci anni non ha mai impedito al sacerdote in questione di esercitare il suo apostolato su internet. Il senso della sua decisione, in tutta la sua gravità, sta nel fatto che don Pompei aveva comunicato al vescovo la sua intenzione di dichiarare pubblicamente il suo atto che appare di natura scismatica. In una seconda diretta, trasmessa la sera del 5 settembre, il sacerdote ha infatti così riassunto il senso della sua comunicazione con il vescovo: «Eccellenza, io ho maturato la volontà di non continuare a esercitare il ministero dentro la comunione gerarchica con la Chiesa cattolica, per impossibilità oggettiva, e di unirmi al mondo della tradizione che esercita il sacerdozio cattolico di sempre, in circostanze del tutto eccezionali».
La dichiarazione, per quanto vaga e che dovrebbe essere precisata, lascia intravedere la dinamica sottesa ad ogni scisma: rifiuto della comunione gerarchica con la Chiesa cattolica e adesione ad una realtà, nel caso, un non meglio precisato "mondo della tradizione", che ha la caratteristica di rifiutare a sua volta tale comunione gerarchica. Non si tratta pertanto di esprimere un dissenso riguardo a pochi o molti punti dell'attuale corso ecclesiale, e nemmeno di disubbidienza nei confronti degli ordini di un'autorità, ma di volersi porre deliberatamente al di fuori della comunione della legittima gerarchia della Chiesa cattolica. Atto che lascia supporre che i provvedimenti del vescovo non si fermeranno alla sospensione a divinis. Occorrerà comunque verificare con attenzione se vi siano gli elementi tipici di uno scisma, quale per esempio, il rifiuto di ricevere i sacramenti da e con i ministri della Chiesa, in comunione con il Papa.
Allo stato attuale, Don Pompei non può più esercitare legittimamente il suo ministero, né può più porre atti di governo validi. Ciò significa che tutti i sacramenti da lui celebrati sono illeciti, e nessun cattolico vi può assistere. Inoltre, è importante ricordare che egli non può assolvere validamente in confessione né assistere validamente ai matrimoni; per la validità di questi due sacramenti non è infatti sufficiente l'ordine sacro, ma occorre anche che l'Ordinario ne conferisca le facoltà.
La comprensione sincera per le enormi difficoltà che un prete cattolico deve oggi affrontare per continuare ad esercitare il proprio ministero in modo legittimo non può condurre all'approvazione di una scelta come quella di don Pompei, per il semplice fatto che non esiste circostanza eccezionale che legittimi una separazione di principio e di fatto dalla comunione con la legittima gerarchia della Chiesa cattolica. Non è in discussione la sincerità soggettiva della sua scelta, ma la bontà oggettiva. Rimanere nell'unità visibile della Chiesa cattolica, mediante i vincoli giuridici del diritto canonico, è volontà di Dio imprescindibile; nessun vero bene della Chiesa e delle anime può essere raggiunto al di fuori di questa volontà. Va da sé che vi sono state e vi possono purtroppo essere sanzioni canoniche ingiuste, dalle quali è legittimo e doveroso difendersi; ma la dichiarazione di don Pompei di volersi sottrarre alla gerarchia cattolica e di voler rendere nota la propria decisione pubblicamente ai fedeli giustifica sia il precetto penale che la sospensione a divinis; e probabilmente anche una futura scomunica.
Due riflessioni ulteriori si impongono, dopo l'ascolto dei due video dell'ex-parroco. Più volte don Pompei afferma essere volontà di Dio per lui "essere apostolo", in particolare sul web. Egli non nasconde che, dopo il suo spostamento nella piccola parrocchia di Sermoneta (circa 700 anime), è stato letteralmente salvato da internet da una situazione in cui non aveva più nulla da fare, dal momento che i fedeli devoti erano sì e no una ventina. In cuor suo, egli ha avvertito che il Signore lo ha sempre chiamato ad una vita da apostolo, ossia ad una vita di predicazione, di ministero attivo. Non potendo più, a suo avviso, vivere in questo modo nella Chiesa attuale, almeno non senza "crepacuore", egli ha deciso di rompere i vincoli con la gerarchia legittima. E tuttavia, domandiamo, la volontà di Dio non si manifesta anche in ciò che capita contro la nostra volontà e i nostri desideri? La volontà di Dio significata non si esprime anche negli ordini dei legittimi superiori, purché non espressamente contrari alla legge di Dio? Rimanere nella comunione gerarchica, nonostante tutte le defezioni della gerarchia, non è forse volontà di Dio esplicita, più certa dell'idea che noi abbiamo della nostra stessa presunta vocazione? E non è forse la più feconda via della croce, quella che ci capita contro noi stessi, contro ogni nostro più intimo e buon desiderio?
Seconda considerazione. Un piccolo chiarimento sul nebuloso "mondo della tradizione", che don Pompei intende raggiungere, è doveroso. Si tratta di un mondo formato da un insieme di realtà e personaggi piuttosto diversi tra loro. Si va dalle realtà sedevacantiste "storiche", in Italia rappresentate soprattutto dall'Istituto Mater Boni Consilii di Verrua Savoia, alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, alla "resistenza", venutasi a creare con la scissione del vescovo lefebvriano, ora defunto, Mons. Richard Williamson, fino alla recente rete di sacerdoti che si sono legati alla persona del vescovo condannato per scisma dalla Santa Sede, Mons. Carlo Maria Viganò. Secondo alcune indiscrezioni e secondo quanto sembra trasparire dai suoi video, don Pompei sembrerebbe rientrare in quest'ultima realtà, composta per lo più da sacerdoti generalmente sospesi dal loro ministero, non incardinati, o ordinati in modo illegittimo.

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Titolo originale: Don Pompei, l'obbedienza che manca e l'esempio dei santi
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 9 settembre 2025

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