BastaBugie n�54 del 31 ottobre 2008

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1 IL PARLAMENTO EUROPEO PREMIA L’ATTIVISTA CRISTIANO HU JIA (IN PRIGIONE A PECHINO)

Autore: Bernardo Cervellera - Fonte: Fonte non disponibile
2 CHIERICHETTE? UNA PRATICA DA SCORAGGIARE

Autore: Andrea Galli - Fonte: Il Timone
3 E' MORTA SUOR EMMANUELLE, LA MADRE TERESA DEL CAIRO
Ne parlano tutti i giornali laicisti in Francia. In italia un accenno appena
Autore: Gerolamo Fazzini - Fonte: Fonte non disponibile
4 HOLODOMOR, LA CARESTIA INDOTTA DA STALIN CHE PORTÒ ALLA MORTE OLTRE SETTE MILIONI DI PERSONE

Fonte: Fonte non disponibile
5 IN SPAGNA È GIÀ REALTÀ LA SELEZIONE DEI BEBÈ
Il fermo no dei Vescovi
Fonte: Fonte non disponibile
6 LA RIFORMA GELMINI PER UNA SCUOLA MIGLIORE

Autore: Cristiana Vivenzio - Fonte: Fonte non disponibile
7 PISA: ASSOLTI I MEDICI CHE NON AVEVANO PRESCRITTO LA PILLOLA DEL GIORNO DOPO

Autore: Antonio Gaspari - Fonte: Fonte non disponibile
8 SOLO LA CHIESA BIASIMA IL SESSO PREMATRIMONIALE E LA CONTRACCEZIONE
Falso!
Autore: Giacomo Samek Lodovici - Fonte: Avvenire
9 ZICHICHI
Non bastano i numeri per leggere il libro della natura
Autore: Gianni Santamaria - Fonte: Fonte non disponibile

1 - IL PARLAMENTO EUROPEO PREMIA L’ATTIVISTA CRISTIANO HU JIA (IN PRIGIONE A PECHINO)

Autore: Bernardo Cervellera - Fonte: Fonte non disponibile, 25 ottobre 2008

Diritti umani in Cina la Ue fa la mossa giusta.
 
 Il Premio Sakharov che il Parlamento europeo ha deciso di consegnare all’attivista cristiano Hu Jia (attualmente nelle prigioni di Pechino) ha un valore altissimo. Anzitutto, per la stessa personalità del vincitore. Hu è noto per la sua lotta a favore dei malati di Aids ( il cui numero in Cina è «un segreto di Stato»), ma soprattutto perché egli è divenuto una sorta di punto di riferimento della dissidenza non violenta: quando era libero, ha raccolto documentazione, messo in contatto contadini espropriati di terre con avvocati volenterosi; ha inviato ai media internazionali e alle ambasciate materiale sulle violazioni dei diritti umani commesse dal Partito comunista; e, più recentemente, ha difeso i cittadini di Pechino le cui case sono state espropriate per preparare le Olimpiadi.
  Hu è divenuto il tessitore di una rete che abbraccia tutte le situazioni di ingiustizia e di impegno democratico in Cina, sfidando il potere che invece tenta di reprimere e soffocare ogni rivolta e ogni critica a livello locale, prima che si diffondano a livello nazionale. Da tempo controllato dalla polizia giorno e notte, è stato arrestato nel dicembre 2007 e condannato in aprile a 3 anni e mezzo di prigione, per «attività sovversiva». Sua moglie Zeng Jinyan e la loro figlia di pochi mesi sono agli arresti domiciliari, spesso impossibilitate anche a fare una passeggiata o la spesa. Agli occhi di Pechino Hu è «un criminale» e per questo ha fatto di tutto perché non venisse insignito del Premio Nobel per la Pace (cui era candidato), minacciando poi l’Unione europea di «pesanti conseguenze» se gli avesse conferito il Premio Sakharov. Il governo di Pechino ha affermato che l’onorificenza è «un’offesa al popolo cinese». I maggiori dissidenti, da Bao Tong a Gao Yaojie, hanno salutato l’attribuzione come «un forte incoraggiamento a chiunque lotti per la libertà e i diritti umani in Cina». Il valore del Premio sta anche nel fatto che è forse la prima volta che l’Unione europea dà un segno di apprezzamento a un dissidente della quarta generazione, quella del boom economico cinese. Dopo il massacro di Tiananmen e l’embargo sulle armi tecnologiche, l’Europa ha infatti posto i diritti umani all’ultimo posto nell’agenda dei rapporti con il gigante asiatico, divenuto un partner commerciale troppo importante. Per questo, a differenza degli Stati Uniti, non ha mai chiesto, se non in modo generico, maggiore democrazia e libertà per gli attivisti cinesi. La quarta generazione della dissidenza usa Internet, cerca le vie legali per combattere le ingiustizie, unisce rivendicazioni a impegno culturale e riflessione, scoprendo la fede cristiana come fondamento delle proprie rivendicazioni. Proprio ciò di cui Pechino ha paura: che si saldi un unico movimento di dissidenza e che esso si unisca ai movimenti religiosi. Ma senza dialogo con questi movimenti, in Cina c’è il rischio di un’implosione e di una guerra civile, che possono distruggere la forza economica acquisita. Appoggiare la dissidenza e valorizzarla come interlocutore del regime è una scelta lungimirante in funzione della stabilità del Paese. Non è un caso che il Premio sia stato dato ad Hu Jia proprio alla vigilia dell’incontro Europa- Asia a Pechino, dove circa 50 capi di governo dell’Europa e del continente asiatico – prima fra tutti la Cina – discutono di interventi per salvare il sistema finanziario mondiale. Forse l’Europa ha scoperto che difendere i diritti umani stabilizza l’economia prima e meglio di qualunque operazione di credito.

Fonte: Fonte non disponibile, 25 ottobre 2008

2 - CHIERICHETTE? UNA PRATICA DA SCORAGGIARE

Autore: Andrea Galli - Fonte: Il Timone, settembre-ottobre 2008

L’innovazione controproducente delle “ministranti femmine”, ministri straordinari dell’Eucaristia fuori controllo, sacerdoti “attori”: Monsignor Malcom Ranjith, segretario della Congregazione del Culto Divino, fotografa alcune diffuse derive liturgiche.

«In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un'autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile». Così Benedetto XVI descriveva, nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum, il clima che accompagnò in molte chiese locali la riforma liturgica. Un clima che - ne parliamo con monsignor Malcolm Ranjith, numero due della Congregazione che si i occupa di liturgia e disciplina dei sacramenti - è lungi dall'essere scomparso.
 Eccellenza, qua! E’ la posizione della Chiesa riguardo alle ministranti femmine, alle chierichette, che nel giro di pochi anni si sono diffuse a macchia d'olio in tutte le diocesi italiane?
«Si tratta di una prassi diffusasi in diversi Paesi, nata nell'atmosfera di una rivendicazione di pari diritti tra uomo e donna, un movimento di opinione che accanto a punti condivisibili ne presenta altri che possono essere problematici. La Congregazione ha pubblicato nella sua rivista Notitiae, nel numero di gennaio-febbraio 2002, una lettera inviata ad un vescovo in cui non si opponeva a tale prassi, ma ne parlava con toni cauti. Voleva che il vescovo, esercitando il suo ruolo di moderatore della liturgia nella sua diocesi, giudicasse bene la situazione locale, la sensibilità dei fedeli e le ragioni per introdurre le chierichette.
Nei Paesi in cui questa abitudine si è radicata si è infatti notato negli anni un aumento delle femmine fra i ministranti e una corrispondente diminuzione dei maschi. Questo probabilmente perché durante l'infanzia e la prima adolescenza molti maschi non si sentono a loro agio nello svolgere il servizio all'altare insieme alle coetanee femmine. Ma se si pensa che il servizio all'altare è sempre stato un momento molto importante per la nascita di vocazioni - è lì che un bambino percepisce, spesso in modo molto profondo, l'importanza dell'Eucaristia e il mistero della liturgia - si può capire quale sia l'effetto negativo di questo allontanamento dei maschi dall'altare. Difatti nella lettera sopra citata la Congregazione, alludendo ad una sua precedente lettera circolare sull'argomento, ricordava «l'obbligo di promuovere gruppi di fanciulli ministranti, non da ultimo, per il ben noto aiuto che, da tempo immemorabile, tali iniziative hanno assicurato nell'incoraggiamento di future vocazioni sacerdotali» (Litterae Congregationis, Prot. N. 2451/00/L del 27 luglio 2001, in Notitiae 38 [2002] 48). Essa raccomandava di consultare la Conferenza Episcopale, anche se il parere di quest'ultima non doveva togliere «la necessaria libertà di azione del singolo vescovo diocesano» (Ibid. p. 47). Inoltre, non si può dire che il maggior protagonismo delle bambine incrementi le vocazioni femminili alla vita consacrata: al contrario, l'esperienza insegna che dove si è diffusa questa pratica le vocazioni femminili sono calate ancor più della norma. In sostanza, anche solo per una ragione di prudenza o lungimiranza pastorale, direi che questa prassi è da scoraggiare».
 Accanto alla "novità" delle chierichette, si nota sempre più spesso una sciatteria nel servizio all'altare dei chierichetti in generale.
«Questo è un riflesso della crisi del senso della liturgia fra il clero, che è il vero problema. Non sono ovviamente i ministranti a decidere come devono vestirsi, come devono atteggiarsi, cosa devono fare. Il servizio del ministrante, quando io ero un ministrante, era curato con grande scrupolo dai sacerdoti. Si organizzavano dei ritiri appositi, c'erano prove rigorose prima delle cerimonie, ecc. Se un sacerdote ama il proprio sacerdozio si impegnerà nel curare la liturgia in tutti i suoi aspetti, compresa la formazione dei ministranti. Se non ama il proprio sacerdozio, che è incentrato sull'evento eucaristico, avrà un atteggiamento superficiale e approssimativo per quanto riguarda la liturgia. E ciò è una vera disgrazia per la Chiesa».
 Un'abitudine che si è diffusa tra i sacerdoti che celebrano con il Novus Ordo è quella di intercalare con propri commenti o battute qualsiasi momento della Messa.
«Qui c'è un problema che va al di là del protagonismo o del carattere estroso del singolo sacerdote: l'essere rivolto verso il popolo fa sì che il sacerdote si senta e sia percepito come il protagonista principale della Messa. È un po' come se salisse su un palcoscenico e si mettesse di fronte al pubblico: l'esigenza di soddisfare la platea diventa spontanea, è una dinamica psicologica. A questo punto, però, l'assemblea rischia di trasformarsi in un raduno puramente umano, dove l'elemento divino passa in secondo o terzo piano.
D'altronde quella di celebrare rivolti verso il popolo non è stata un'indicazione del Concilio e si può dire, dopo ormai molti anni, che ha causato diversi problemi per la liturgia. Penso che bisognerà fare qualcosa a questo riguardo. Ci possono essere certamente delle parti della Messa in cui il sacerdote si rivolge al popolo, come le letture o l'omelia, ma bisogna recuperare quell'orientamento al Signore che il Santo Padre ci sta indicando con la reintroduzione del crocifisso sopra l'altare. Nell'essere rivolto al Signore insieme all'assemblea, il sacerdote smette di essere l'attore principale sul palcoscenico e diventa un umile servo di fronte a Dio. Se non si fa questo cambiamento, il problema del celebrante che cerca di accattivarsi la simpatia dei fedeli e che improvvisa, insomma il problema di una liturgia "do it yourself" (fai da te) continuerà. Allo stesso tempo, mi permetta una sottolineatura, è necessario tornare ad insegnare anche ai fedeli cos'è la liturgia, è necessario spiegare loro perché il sacerdote attore o presentatore, che va di qua e di là durante la Messa con la chitarra al collo o il microfono in mano, e che magari a loro piace, è una figura che non ha nulla a che fare con la liturgia cattolica. Il protagonista principale di ogni atto liturgico non è nessun altro che Cristo, perché, come definisce la Sacrosanctum Concilium, la costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, la liturgia è "Actio Christi Sacerdotis" (SC 7)».
Può dirci qualcosa sugli avvisi dopo la Messa, che sembrano diventati a tutti gli effetti una parte della liturgia romana?
«Qui va seguito il buon senso. Direi che la cosa migliore è verificare se questi avvisi possono essere fatti appena prima dell'inizio della Messa, magari da un laico, oppure attraverso l'uso di notiziari o bollettini parrocchiali. Se non si possono adottare queste soluzioni, nel leggere gli avvisi dopo la comunione bisognerà usare sobrietà e poche parole».
In molte parrocchie si nota un uso regolare dei ministri straordinari dell'Eucaristia nel distribuire la comunione durante la Messa. Non si tratta di un abuso?
«Le norme emanate dalla Congregazione nel gennaio 1973, Immensae Caritatis, sono chiarissime: il ministro ordinario della comunione è il vescovo, a seguire il sacerdote e il diacono, (C/C 910 §1). Ministro straordinario può essere un accolito o un lettore, un seminarista, un religioso o una religiosa. Il catechista o un fedele, uomo o donna, lo possono diventare solo dopo un'apposita formazione e uno speciale permesso/mandato del vescovo. Ma, una volta che lo sono diventati, devono attenersi al loro ruolo, che è appunto straordinario. Intanto devono presentarsi all'altare vestiti in modo decoroso, ma soprattutto non devono distribuire la Comunione là dove non ce ne sia strettamente bisogno. Come dice il documento sopra citato, tale ministero viene esercitato solo se manchino il presbitero, il diacono o l'accolito, se non possono distribuire la Santa Comunione perché impediti da un altro ministero pastorale, o perché vecchi o malati, e se i fedeli desiderosi di comunicarsi sono talmente tanti da far prolungare in modo eccessivo la Messa. Devo dire che a questo riguardo spesso non si vede molta serietà. Capita di assistere a Messe con 50 parrocchiani e 4 o 5 ministri straordinari dell'Eucaristia che corrono all'altare al momento della distribuzione della Comunione, con il sacerdote che magari delega a loro il compito: una prassi completamente erronea. I ministri straordinari, lo dice il nome, devono essere impiegati in occasioni davvero eccezionali. E non tutti insieme».
Ci può ricordare quali sono i modi opportuni per comunicarsi?
«Quando ci si comunica stando in piedi, le norme stabiliscono che prima di ricevere il sacramento si faccia un atto di reverenza (Institutio Generate Missalis Romani, 160), per esempio un inchino o una genuflessione: perché non si sta andando a prendere un pezzo di pane, ma a ricevere Cristo in persona. La prassi più opportuna resta comunque quella di ricevere la comunione in bocca e preferibilmente in ginocchio, come il Santo Padre ci sta mostrando nelle liturgie che presiede. Quando un thailandese va dal suo re deve andarci in ginocchio, anche se è il primo ministro del Paese. Così se un giapponese viene ricevuto dall'imperatore, gli si avvicina con un alto senso di riverenza, dopo aver fatto inchini su inchini. Gesù Cristo è il Re dei re, il Signore Onnipotente. Ci si domanda: non si merita lui più di tutti un gesto di amore e riverenza?».

Fonte: Il Timone, settembre-ottobre 2008

3 - E' MORTA SUOR EMMANUELLE, LA MADRE TERESA DEL CAIRO
Ne parlano tutti i giornali laicisti in Francia. In italia un accenno appena
Autore: Gerolamo Fazzini - Fonte: Fonte non disponibile, 22 ottobre 2008

Come giudicare l’imbarazzante silenzio della stampa italiana sulla scomparsa, all’età di novantanove anni suonati, di suor Emmanuelle, la 'Madre Teresa del Cairo'? Una 'distrazione'? Un atto di censura nei confronti di un personaggio che, per quanto 'di frontiera', appartiene pur sempre alla Chiesa cattolica? O non si tratta, invece, di un imperdonabile esempio di provincialismo? Ben altro risalto ha avuto la notizia in Francia. E non parliamo del quotidiano cattolico 'La Croix' (che ha dedicato tre pagine alla religiosa), ma dell’austero e sempre citato 'Le Monde' che le ha tributato l’onore che il personaggio merita.
  Da noi, invece, un quasi totale black out. Peccato, perché ­ prima ancora di scomodare lo spessore cristiano della religiosa - la notizia c’era tutta.
  Per due anni consecutivi, soeur Emmanuelle (al secolo Madeleine Cinquin) era stata indicata - lei, alta e asciutta, con quel sorriso che illuminava il volto segnato da rughe sottili ­ come la donna più interessante per i francesi. Così aveva sentenziato un sondaggio di 'Elle', rivista glamour per definizione. Questa la motivazione del riconoscimento: «In lei si incarna l’interesse mai dimenticato delle donne francesi per l’azione umanitaria, l’altruismo, la compassione e la solidarietà».
  Suor Emmanuelle è stata una donna che aveva messo in gioco tutta se stessa per i poveri. Al punto da affermare, rovesciando il celebre detto di Sartre, che «il paradiso sono gli altri». Una donna che si era battuta per riscattare altre donne. Come lei stessa ha ricordato di recente su questo giornale, la sua massima felicità era stata l’inaugurazione di un liceo per ragazze nella bidonville del Cairo: «ragazze schiave, spose obbligate a 11 o 12 anni, che finalmente avrebbero cominciato a prendere in mano il loro destino e dato alle loro figlie un’educazione più moderna».
  Perché avesse deciso di avventurarsi nelle periferie maledette del Cairo all’età in cui avrebbe potuto concedersi un meritato riposo, lo aveva spiegato così a 'Mondo e Missione', qualche anno fa: «Avevo 62 anni e avrei potuto andare in pensione. Ma ho ottenuto di potermi stabilire in una bidonville egiziana per condividere la vita dei più poveri: mangiare come loro, alloggiare come loro in una capanna molto povera, essere come loro nella povertà radicale».
  Una radicalità figlia della consacrazione totale a Dio, che sta all’origine della sua vocazione missionaria. La radicalità di chi aveva trovato come colmare il vuoto esistenziale, «quel vuoto che 'azzannava' la mia giovinezza». Per riempirlo, spiegava, «ho cercato in Dio un amore duraturo e senza limiti.
  Quell’assoluto sarebbe stato l’amore di Cristo nel mio cuore, che avrei portato a migliaia di bambini messi da parte dal mondo...».

Fonte: Fonte non disponibile, 22 ottobre 2008

4 - HOLODOMOR, LA CARESTIA INDOTTA DA STALIN CHE PORTÒ ALLA MORTE OLTRE SETTE MILIONI DI PERSONE

Fonte Fonte non disponibile, 15-10-2008

  Non chiedono soldi, né risarcimenti, ma solo che il mondo si ricordi di loro. Gli ucraini discendenti delle vittime dell’Holodomor, la carestia indotta da Stalin che negli anni Trenta portò alla morte oltre sette milioni di persone, da anni si battono affinché la loro tragedia sia riconosciuta come uno dei grandi genocidi del Novecento. Anche gli ucraini d’Italia, i duecentocinquantamila immigrati regolari, chiedono al nostro Paese un gesto di solidarietà storica. Lo fanno attraverso una lettera aperta inviata ai presidenti delle Camere da Oleksandr Horodetskyy, presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia, che chiede al nostro Parlamento di riconoscere l’Holodomor come 'genocidio del popolo ucraino', di condannare il principale responsabile, Stalin, e – forse il punto più importante – di inserire la conoscenza di quel dramma nei programmi scolastici. In realtà, una bozza di risoluzione orientata proprio in questo senso giace già, da anni, nei cassetti della Camera: si tratta della risoluzione 7/00384 proposta da Gustavo Selva alla commissione Affari esteri e comunitari, con un «iter in corso» (mirabili eufemismi dell’anchilosata burocrazia parlamentare) dal 3 gennaio 2004. Gli ucraini d’Italia vorrebbero un passo più concreto. La catastrofica carestia che colpì l’Ucraina nei primi anni Trenta, raggiungendo il picco tra il 1932 e il 1933, fu la diretta conseguenza della collettivizzazione dell’agricoltura operata dal regime comunista; in Ucraina l’iniziativa si abbatté sulla struttura economica del Paese, largamente agricolo e ripartito in fattorie di proprietà individuale. Nelle campagne furono inviati coloni di stretta fede bolscevica, selezionati tra gli operai industriali delle città, per scalzare i tanti contadini ucraini che si opponevano alla collettivizzazione: i kulaki, come vennero spregiativamente definiti dal regime che li accusava di nascondere il grano. La produttività agricola crollò e il grano inviato a Mosca nel 1932 fu poco più di un terzo di quanto programmato: un deficit che scatenò la repressione bolscevica, prima diretta contro i kulaki e le loro famiglie, con oltre centomila condanne a morte, alla detenzione o alla deportazione nei gulag siberiani, poi con la deliberata decisione di affamare l’Ucraina. L’Unione sovietica aveva già conosciuto una grave carestia nel 1921-1923 e un’altra l’avrebbe afflitta nel 1947, ma mentre queste sono imputabili al collasso infrastrutturale seguito alla Rivoluzione bolscevica o alla Seconda guerra mondiale, quella ucraina del 1932-1933 fu causata da una precisa scelta politica, messa in pratica con apposite azioni amministrative. Stalin e i vertici comunisti 'punirono' l’Ucraina per le resistenze alla collettivizzazione agricola e per il mancato raggiungimento dei livelli di produzione previsti da Mosca, e infatti le misure restrittive si concentrarono contro i contadini di etnia ucraina: una commissione speciale guidata da Vjaceslav Molotov, il futuro ministro degli Esteri, ordinò il 9 novembre 1932 di requisire dai villaggi ucraini non solo il grano, ma anche barbabietole, patate, verdure e ogni altro tipo di cibo; il 6 dicembre il decreto fu rafforzato dal divieto di commerciare generi alimentari e dalla requisizione delle risorse finanziarie.
  Apposite brigate effettuarono incursioni nelle fattorie per portar via il grano raccolto, senza tener conto se i contadini avessero cibo sufficiente per nutrirsi o se si lasciavano sementi per la prossima semina; l’intera regione tra il Don e il Caucaso fu isolata dal resto del mondo dalle truppe dell’Nkvd, la polizia politica del regime, e al suo interno si iniziò presto a morire d’inedia. Il bilancio è ancora oggetto degli studi degli storici; la cifra generalmente accolta indica almeno sette milioni di vittime, ma esistono anche stime al ribasso (tre milioni) e al rialzo (fino a dieci milioni).
  Tema di dibattito è anche la possibilità stessa di applicare la definizione di 'genocidio' all’Holodomor: tramontate le difese ideologiche che minimizzavano la carestia e la imputavano non a scelte deliberate, ma a errori involontari (e agli stessi kulaki), resta da definire la volontà di colpire un determinato gruppo etnico, o piuttosto un certo gruppo sociale – una 'classe', nel lessico marxista. Anche quest’interpretazione appare però negli ultimi anni in ribasso, e trova sempre maggior credito una lettura dei fatti che insiste sulla specifica volontà di colpire gli ucraini in quanto tali, sia pure identificandoli con i kulaki «nemici del popolo». È questa la posizione sulla quale insistono non solo gli ucraini d’Italia, ma anche lo stesso governo di Kiev, che rimarcano come la carestia indotta si sia affiancata a un processo di russificazione culturale e sprituale che ancora oggi segna l’Ucraina, con un’ampia porzione del Paese ormai abitata da russofoni. Una spina nel fianco nel Paese della Rivoluzione arancione, in bilico tra Europa e Russia, che si appresta a celebrare, il quarto sabato di novembre, il settantacinquesimo anniversario delle stragi.
 Per Kiev l’ecatombe fu vero e proprio genocidio, perché prese di mira l’intera etnia ucraina, «rea» di essersi opposta alla collettivizzazione.

Fonte: Fonte non disponibile, 15-10-2008

5 - IN SPAGNA È GIÀ REALTÀ LA SELEZIONE DEI BEBÈ
Il fermo no dei Vescovi
Fonte Fonte non disponibile, 18/10/08

 I vescovi spagnoli si sono pronunciati contro la decisione di far nascere un bambino sano per poter curare il fratello, afflitto da una grave malattia ereditaria: la beta talassemia. Con una nota diffusa alla stampa, la Conferenza Episcopale spagnola ha criticato la distruzione di embrioni collegata al processo di fecondazione, necessario per la nascita del primo bebè selezionato geneticamente per curare suo fratello. I vescovi spagnoli sottolineano che si è data enfasi «alla felice notizia della nascita di un bimbo e sulla possibilità di curare la malattia del fratello», ma criticano che sia «passato sotto silenzio il fatto drammatico dell’eliminazione di embrioni malati e magari di quelli che, pur sani, non erano compatibili geneticamente». Nel documento, la Conferenza insiste che il suo obiettivo è chiarire alcune delle «implicazioni morali» di questo evento, accolto positivamente da gran parte della comunità scientifica.
  Domenica scorsa, a Siviglia, è nato Javier.
  Nonostante i suoi genitori siano portatori di un errore genetico che avrebbe potuto determinare anche in lui la grave malattia del fratello Andres, grazie alla selezione degli embrioni il piccolo non solo è nato sano, ma le cellule del suo cordone ombelicale sono compatibili con quelle del fratello, che tra pochi mesi potrà ricevere un trapianto di midollo con questo materiale, per curare la sua malattia. La nota della Conferenza Episcopale ricorda che la nascita di Javier è stata accompagnata dalla distruzione di altri essere umani, «i suoi stessi fratelli, i quali sono stati privati del diritto fondamentale alla vita»; e aggiunge che il nuovo nato «è stato privato del diritto di essere amato per quello che è». Per i vescovi non si può parlare di «un successo e un progresso scientifico», perché ritengono che la tecnica della diagnosi preimpianto riduca la dignità della persona a un puro valore utilitaristico: «I fratelli ai quali è stato negato il diritto a nascere sono stati distrutti perché non erano utili da un punto di vista tecnico, e in tal modo si è violata la loro dignità e il rispetto assoluto che tutta la persona merita in se stessa, a prescindere da qualsiasi considerazione utilitaristica». «L’evento felice della nascita di un bebè sano non può giustificare la strumentalizzazione a cui è stato sottoposto e non basta per presentare come un progresso la tecnica eugenetica che ha portato alla distruzione dei suoi fratelli generati “in vitro”», assicura l’organo collegiale dei vescovi spagnoli, che comunque concludono: «Con questi chiarimenti non si giudica la coscienza né le intenzioni di nessuno. Si tratta di ricordare i principi etici oggettivi che tutelano la dignità di tutto l’essere umano».

Fonte: Fonte non disponibile, 18/10/08

6 - LA RIFORMA GELMINI PER UNA SCUOLA MIGLIORE

Autore: Cristiana Vivenzio - Fonte: Fonte non disponibile, 19 Ottobre 2008

La Gelmini non ci sta e risponde alle contestazioni della piazza
 
Non fanno cortei  in piazza. Non gridano slogan. Non si sognano neanche di far sfilare i loro bambini dietro gli striscioni, non usano gli immigrati per la loro protesta e non cercano la pubblicità delle telecamere e dei giornali per amplificare il loro pensiero. Ma sono persone normali, con un lavoro normale, che probabilmente non consente neanche a loro di arrivare senza problemi a fine mese, che votano ma non sono politicizzate, che non amano lo scontro ideologico e che con ogni probabilità non sanno neanche di appartenere a quell’opinione pubblica senza identità cui tanto si sono affezionati Scalfari e Repubblica. Magari hanno votato Berlusconi o magari no. Però sentono, capiscono che il momento per il paese è cruciale. E orientano le loro scelte sulla base non della tessera del partito ma del buon senso. E indirizzate da quel buon senso decidono quello che è meglio per i loro figli e per la società in cui si troveranno a vivere in futuro.
Non sono intimoriti dagli spauracchi delle contestazioni né assordati dagli urli della protesta, ma esprimono in massa una richiesta di ritorno all’ordine, e nel farlo non pensano neanche per un attimo alla “deriva putiniana” di Berlusconi ma sentono che il nostro è un paese in crisi, che vive ormai da troppo tempo un’emergenza permanente e che questa emergenza riguarda  tutti così da vicino da coinvolgere per primi proprio i piccolissimi e poi i giovani e poi tutti coloro che dovranno costruire l’Italia del futuro.
Sono loro che nei giorni scorsi hanno risposto ai sondaggi sulla scuola. Che dicono con percentuali quasi bulgare - basta guardare il Corriere di oggi - di essere favorevoli al maestro unico, all’educazione civica, al voto in condotta e al grembiule. E sono loro che si sente di rappresentare il ministro Gelmini quando, nella cornice di Norcia, di fronte ad un pubblico “amico”, nel corso del convegno organizzato da Magna Carta su “Educazione e Libertà”, dice che le scelte del governo sono state orientate ad una presa di coscienza sulla realtà, che non lascia altra possibilità se non quella di compiere un passo indietro. Che – sostiene il ministro – significa restituire alla scuola la sua missione educativa, riuscire a ricreare quell’alleanza perduta tra studenti, insegnanti e famiglie. E significa ancora garantire nel processo educativo quella libertà che consente di poter scegliere tra scuola e scuola, tra modelli educativi e modelli educativi, rimettendo al centro una formazione adeguata e di qualità.
Il ministro era venuto a Norcia con un discorso tutt’altro che politico, ma, il giorno dopo la grande contestazione, ha scelto questa occasione per rispondere punto per punto alle accuse che nei giorni scorsi le sono state scagliate contro nei cortei e sui giornali. Forse non si aspettava neanche lei di dover affrontare un attacco tanto violento quanto ingiustificato. Ma sembra determinata ad andare avanti per la sua strada. Ed ha voluto di dimostrarlo quando, con una sequela di “non è vero”,  ha cercato di abbattere quel castello di false notizie che –ammette- anche per una cattiva comunicazione del governo sono quotidianamente strumentalizzate dall’opposizione più radicale.
Non è vero che saranno licenziati in massa gli insegnanti, non è vero che il governo vuole “scaricare” i precari, non è vero che verrà abolito il tempo pieno, che verranno chiuse migliaia di scuole in tutta Italia, che verrà tolto il sostegno ai bambini handicappati, che le classi-ponte saranno uno strumento per alimentare la segregazione e il razzismo. Tutto questo non è vero ma serve alla sinistra e al sindacato per difendere lo status quo, alimentando le paure della gente. Ma lo status quo, così com’è, non è più sostenibile, dice il ministro, non è più difendibile se non pagando un prezzo troppo alto per la società. Un prezzo che comporta la perdita di senso connaturata con la funzione educativa della scuola.
“È inutile quanto disonesto vendere illusione ai precari, le graduatorie sono già così lunghe che potrebbero essere esaurite in non meno di dieci anni”, dice il ministro. Il maestro unico “non è per mera esigenza di bilancio, ma perché a scuola i bambini non vanno solo per apprendere nozioni ma per essere aiutati a crescere nel percorso della vita e il maestro dei primi anni non ha solo l’incarico di insegnare delle discipline, deve essere soprattutto una guida”. Non è un caso che il maestro unico esiste in tutte le realtà europee tranne che in Italia. Il tempo pieno non verrà affatto abolito, ma anzi potenziato, impiegando gli insegnanti in esubero. “Questo – ci tiene a sottolineare il ministro – è un governo che sta attento alle esigenze delle famiglie. Che capisce le difficoltà che quotidianamente si trovano ad affrontare, che ascolta il bisogno delle donne che lavorano, e che sa che il tempo pieno risponde prima di tutto ad una funzione sociale ”. Le classi-ponte (definizione che il ministro non riconosce come sua e che stigmatizza) favoriscono l’integrazione non la discriminazione. Consentono ai giovani stranieri che vengono nel nostro paese di avere gli strumenti  per integrarsi il prima possibile “Non ho capito la levata di scudi sulle classi separate. Se un bambino straniero che non conosce l'italiano studia la lingua in corsi separati cos'è, razzismo o buonsenso?”.
E mentre il buon senso sta riportando una vittoria storica nel paese, la sinistra veltroniana resta a guardare. Paralizzata dalla paura dell’inesistenza delega al sindacato e a Di Pietro la sua rappresentanza, perdendo sempre più il contatto con quella parte del paese che sempre avrebbe bisogno di sentir rappresentato il suo sentire comune. Non condividiamo le parole del ministro quando dice questo, in fondo, “è un governo di sinistra” perché sta dalla parte dei più deboli. Ci sentiremmo vittime di un luogo tanto comune quanto ormai lontano dalla realtà. Ma siamo certi che se la strada è quella di voler uscire al più presto dall'emergenza educativa non è necessario fare scelte che siano connotate come di destra o come di sinistra. Il tempo stringe e alla scuola non si può rischiare di far fare la fine di Alitalia.

Fonte: Fonte non disponibile, 19 Ottobre 2008

7 - PISA: ASSOLTI I MEDICI CHE NON AVEVANO PRESCRITTO LA PILLOLA DEL GIORNO DOPO

Autore: Antonio Gaspari - Fonte: Fonte non disponibile, 26 ottobre 2008

Smontato il caso, nonostante la cattiva informazione.

Nonostante la disinformazione operata da tanti organi di stampa, i medici dell'A.S.L. di Pisa, che avevano affisso sulla porta del loro ambulatorio il diniego alla prescrizione della pillola del giorno dopo, non sono stati condannati.
Anzi sono stati assolti dall’accusa di rifiuto di prescrizioni mediche, mentre dovranno pagare una multa per l’affissione del cartello.
Intervistato,  l’avvocato Aldo Ciappi, Presidente dei Giuristi cattolici di Pisa e Presidente di Scienza & Vita di Pisa-Livorno, ha spiegato che  “i medici della ‘continuità assistenziale’ dell'A.S.L. pisana, sono stati assolti dall'imputazione, scaturita dalla denuncia di alcuni militanti radicali, recepita dalla Direzione sanitaria, di aver ‘contravvenuto al dovere di assicurare prestazioni non differibili ai cittadini residenti nel territorio afferente alla sede di servizio’”.
Il fatto di cronaca, risalente alla fine di marzo scorso, riguardava l'esposizione di un cartello affisso nei locali della Guardia medica con sopra scritto: “Non si prescrive la pillola del giorno dopo”.
In merito alla vicenda sono comparsi diversi articoli che adombravano abusi da parte del personale medico, che – secondo Ciappi –, per questo è stato “esposto alla gogna senza che alcuno - né i Dirigenti del Servizio sanitario, che anzi si faceva parte attiva nel procedimento, né il Collegio Provinciale dei Medici - abbia sentito il dovere di spendere una parola in difesa dei professionisti caduti in una vera e propria trappola mediatica”.
Il Collegio Arbitrale di Medicina Generale istituito presso la Giunta Regionale Toscana, con la deliberazione n. 11 del 25.09.08, ha dichiarato “non doversi procedere nei confronti di alcuni medici in servizio presso la A.S.L. di Pisa per avere la stessa A.S.L. ritirato la contestazione”.
Ed ha aggiunto, il “non doversi procedere nei confronti di altri medici per non essere loro addebitabili i fatti contestati”, applicando infine una simbolica sanzione pecuniaria nei confronti di un solo medico, ritenuto responsabile di aver affisso tale cartello, perché “affissione non autorizzata dalla Direzione”.
“La rilevanza di tale decisione collegiale, - ha illustrato il Presidente dei Giuristi Cattolici di Pisa - oltre che per aver ristabilito la piena dignità professionale ai medici ingiustamente denigrati, consiste nell'avere, l'organo amministrativo regionale, implicitamente ribadito un importante principio, da sempre ritenuto del tutto pacifico che però, al giorno d'oggi, è oggetto di un attacco concentrico da parte della ben nota e potente lobby cultural-politica, propriamente definita della ‘medicina del desiderio’ secondo la quale il paziente dovrebbe poter ottenere dalle istituzioni e dal medico del servizio sanitario, ciò che egli insindacabilmente ritiene buono ed utile per la sua ‘salute’ fosse anche una richiesta di morte”.
“Nel caso di specie – ha aggiunto Ciappi – in ossequio al cosiddetto ‘diritto alla salute riproduttiva’ dietro cui si cela l'inquietante ideologia ostile a tutto ciò che attiene alla sfera della vita umana nascente”.
“A questo proposito – ha sottolineato – è interessante rilevare che non ha avuto alcun seguito, l'originaria contestazione prospettata dai legali della ragazze a cui venne rifiutata la prestazione della pillola del giorno dopo (Norlevo) e dalla stessa Direzione dell'A.S.L. di Pisa, di abuso d'ufficio e/o interruzione di servizio pubblico, con le conseguenti presunte violazione dei doveri propri del medico della continuità assistenziale, avendo gli stessi esponenti ritirato dalla loro denuncia tali capi di accusa, così circoscritta alla sola presenza, non autorizzata, del riferito cartello affisso nei locali”.
L’avvocato Ciappi ha poi sottolineato che “resta riaffermato il principio cardine dell'esercizio della professione medica: quello della piena ed incondizionata libertà per il medico, anche nell'ambito del servizio prestato nella continuità assistenziale, o guardia medica, di prescrizione del farmaco”.
“Libertà – ha concluso – collegata esclusivamente alla preventiva e necessaria anamnesi del paziente da parte del medico ed al conseguente suo giudizio diagnostico ‘secondo scienza e coscienza’, rispetto alla quale non può avere alcuna rilevanza la richiesta del paziente di farsi prescrivere di un certo farmaco”.

Fonte: Fonte non disponibile, 26 ottobre 2008

8 - SOLO LA CHIESA BIASIMA IL SESSO PREMATRIMONIALE E LA CONTRACCEZIONE
Falso!
Autore: Giacomo Samek Lodovici - Fonte: Avvenire, 24/10/08

I filosofi stoici a difesa di etica e matrimonio.

 Così pensa una stragrande maggioranza di persone. Ma un bell’articolo di Ilaria Ramelli (sull’ultimo numero della rivista il Timone, pp. 26-27), fa un’interessante carrellata di autori antichi non cattolici che hanno espresso idee simili a quelle dell’etica familiare e sessuale cattolica. Alcune delle loro argomentazioni sono convincenti, altre meno (per esempio, talvolta c’è una condanna del piacere che la Chiesa – a dispetto di molti luoghi comuni – non condivide affatto); ma, per quel che ci interessa, esse dimostrano che il tema della purezza prematrimoniale e la riprovazione morale della contraccezione non sono un’invenzione dei cattolici e possono essere argomentate anche con la filosofia.
 Per esempio, Musonio Rufo (stoico romano-etrusco del I secolo d.C., vissuto in età neroniana, soprattutto a Roma, da cui Nerone lo esiliò quando scatenò la prima persecuzione dei Cristiani) si occupa estesamente della famiglia, della fedeltà e della castità richiesta a entrambi i coniugi.
  Specialmente nella Diatriba XII afferma chiaramente che le uniche unioni da considerarsi 'giuste' sono quelle tra sposi e, tra queste, esclusivamente quelle che mirano, non a perseguire il piacere, ma a generare un bambino: «Gli unici tipi di unioni che dovrebbero essere considerate giuste, sono quelle che hanno luogo all’interno di un matrimonio e sono finalizzate alla procreazione di bambini, in quanto sono anche legittime, laddove quelle che perseguono il mero piacere sono ingiuste e illegittime, anche qualora dovessero avere luogo all’interno di un matrimonio».
 Seneca (il massimo stoico romano del I secolo d.C.), loda l’amore sponsale contrapponendolo ad altre unioni da lui considerate contro natura ( Epistulae ad Lucillium, 116, 5; 123, 15). Nel suo De matrimonio insiste proprio sulla liceità delle sole unioni sponsali e finalizzate alla procreazione di bambini e raccomanda fortemente la castità e la moderazione agli sposi. Epitteto, analogamente, biasima le unioni non matrimoniali e approva solo quelle dirette alla procreazione ( Diatribe,  III 7, 21; II 18, 15-18; III 21, 13).
 Il pitagorico Sesto (I-II secolo d.C.) afferma (in Sent. 231-232E) che «ogni intemperante è l’amante della sua stessa moglie», anziché esserne lo sposo.
  Intemperante, secondo Sesto, è precisamente chi persegue soltanto il piacere senza avere l’intento di procreare: «Non fare mai nulla ai fini del mero piacere».
 La Ramelli, studiosa giovane eppur eruditissima e molto competente (e conosce numerose lingue antiche – per esempio il greco, il latino il siriano, l’aramaico, il copto, il persiano, il sanscrito – e diverse moderne), nell’articolo da cui abbiamo attinto fornisce anche una bibliografia dei suoi numerosi lavori scientifici sull’argomento di cui ci siamo oggi occupati (ad esempio: La tematica De matrimonio nello Stoicismo romano: alcune osservazioni, '’Ilu', 5 (2000), pp. 145-162).

Fonte: Avvenire, 24/10/08

9 - ZICHICHI
Non bastano i numeri per leggere il libro della natura
Autore: Gianni Santamaria - Fonte: Fonte non disponibile, 18/10/08

 «In questi ultimi tempi troppe persone si sono messe a parlare di scienza senza avere al loro attivo scoperte o invenzioni tecnologiche. Non hanno nessun titolo per parlare. E invece parlano». Il discorso non è in generale, tanto per dire. Non riguarda i massimi sistemi del mondo. O – visto che a esprimersi è il fisico Antonino Zichichi – dell’universo. No. Il presidente della Fondazione Ettore Majorana ce l’ha proprio con quei commentatori, fisici e astronomi che ieri non hanno perso l’occasione per criticare il richiamo del Papa a «non sostituirsi al Creatore». Osservazione che, per lo scienziato siciliano, invece è «molto attuale». Il vero scienziato – ha argomentato il professore di Erice alla Lateranense, aprendo la seconda sessione del convegno sulla Fides et Ratio, dedicata a «Fede ragione e scienza» – «non può dimenticare che questa grande conquista della ragione, cui diamo il nome di scienza, è nata da un atto di umiltà». Perché l’arroganza consiste proprio nell’«illusione di poter decifrare il libro della natura senza mai porre una domanda al suo autore». Parole che sono state accompagnate, al termine, da un lungo applauso. Anche da parte del cardinale George Cottier, ginevrino e «conterraneo » di Zichichi per via del Cern, che ha moderato i lavori della mattinata.
  «Non basta essere intelligenti per scoprire la logica di colui che ha fatto il mondo, perché il Creatore di tutte le cose visibili è più intelligente di tutti, nessuno escluso», ha proseguito Zichichi. E dunque «per venire a capo della logica che lui ha usato per creare il mondo c’è un solo modo: porsi domande in modo rigoroso, una alla volta e lavorare affinché i risultati siano riproducibili ». Insomma, alla platea il fisico di fama internazionale ha spiegato i fondamenti del metodo galileiano. Nato in seno alla Chiesa, ha ricordato il membro della Pontificia Accademia delle scienze, fondata dal principe Federico Cesi e dall’illustre pisano.
  La relazione ha, dunque, assunto i toni di un’appassionata lezione su Galilei, uomo di scienza e di fede, come riconobbe Giovanni Paolo II nel 1979. «Come si fa a dire che era contro la Chiesa se scoprendo le prime leggi della natura le chiama impronte del Creatore?», domanda polemico Zichichi. Era un credente, come i più grandi fisici della storia. «Che fossero atei è una storiella». L’elenco? «Maxwell, Newton, Planck, Heisenberg». In più Galilei non disse mai che basta la matematica per capire il mondo, come dicono «sbagliando» i logici matematici atei. «Se bastasse il rigore logico-matematico per capire com’era l’universo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big bang, non avremmo bisogno di costruire strutture complesse». Come la nuova macchina Lhc che tra poco entrerà in funzione al Cern di Ginevra, dove Zichichi lavora. Una pista magnetica lunga 27 km, per tentare di avere una risposta sul post Big bang. «Oggi questo lo sa solo colui che ha fatto il mondo, nel prossimo futuro lo sapremo anche noi. Altro che sostituirci al Creatore». Infatti «non riproduciamo il Big bang», ha detto Zichichi ribattendo agli «scienziati atei che non sanno di cosa parlano». Perché «ne siamo lontanissimi come tempi e come energia», nella misura di «milioni di miliardi».
  Come se non bastasse «il mio ex maestro, che si diverte a fare battute spiritose e nemmeno lui ci crede» ha coniato l’espressione «particella di Dio», a partire dalle scoperte di Higgs. «Non appena il nome di Dio appare nella cultura moderna, l’ateismo se ne impadronisce ». Per dimostrare ciò che non può, cioè la sua non esistenza, attribuendo il merito allo scienziato di turno. Queste, che sono «barzellette», diventano però «argomenti forti della cultura dominante, ecco perché Benedetto XVI fa bene a precisare quali sono gli obiettivi della scienza», ha concluso il fisico. Il filosofo francese Pierre Manent, invece, ha puntato il dito sull’individualismo egualitarista, del quale spesso si denunciano «le deleterie conseguenze sociali e morali». Ma «pur essendo meno visibili, non sono meno gravi le sue conseguenze intellettuali». E «la ricerca della verità perde semplicemente senso», se vige il principio del tutto è valido.
  Infine, ripercorrendo la Fides et ratio alla luce della Veritatis splendor e del pensiero filosofico di Giovanni Paolo II, il teologo della Lateranen­se Michael Konrad ha invitato a concentrarsi «non solo sulla moralità dei singoli atti ma su di essa come finalità della vita». Di metafisica si sono occupati poi Karol Tarnowski (Cracovia) e Jean Greisch dell’Institut Catholique di Parigi, moderati dal cardinale Paul Poupard.

Fonte: Fonte non disponibile, 18/10/08

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