BastaBugie n�288 del 15 marzo 2013

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1 E' MORTO IL PRESIDENTE VENEZUELANO HUGO CHAVEZ: GIORNALI E TELEVISIONI LO ESALTANO, MA LA REALTA'...
Amico dell'Iran e nemico della Chiesa, dopo aver abolito la proprietà privata lascia un Paese fra i più poveri dell'America del Sud (nonostante sia il maggior produttore di petrolio della regione) e con il più alto tasso di criminalità del mondo
Autore: Stefano Magni - Fonte: La nuova Bussola Quotidiana
2 IL MINISTERO DELLA SALUTE CI PROPINA LO SPOT PER L'USO DEL PRESERVATIVO
Comunque il vero tema non è il profilattico, ma la concezione dell'amore promossa in modo violento e martellante dalle potentissime lobby omosessuali
Autore: Costanza Miriano - Fonte: Blog di Costanza Miriano
3 ASSUNTO PER LA NUOVA SERIE DI SUPERMAN, MA E' CONTRO IL MATRIMONIO GAY E SALTA TUTTO
Dc Comics ha assunto lo scrittore pluripremiato Orson Scott Card, ma per la pressione delle lobby gay la nuova serie viene rimandata
Autore: Leone Grotti - Fonte: Tempi
4 BEPPE GRILLO? PARLA COME HITLER
''Chi è il responsabile? I partiti! Noi non siamo come loro! Mi hanno proposto un'alleanza: ancora non hanno capito di avere a che fare con un movimento completamente differente da un partito. E' un movimento che non si può fermare''
Fonte: il Sussidiario
5 IL SUICIDIO POLITICO DEI CATTOLICI
Il moralismo di don Gianfranco e di chi la pensa come lui
Autore: Vincenzo Sansonetti - Fonte: La nuova Bussola Quotidiana
6 LE STRATEGIE DELLA SINISTRA PER LA DISSOLUZIONE DELLA FAMIGLIA
Dicevano di occuparsi dei lavoratori, oggi puntano alla distruzione della famiglia, del cristianesimo e di tutti i valori morali: sono gli eredi dei partiti comunisti
Autore: Giacomo Sameck Lodovici - Fonte: Il Timone
7 GLI AIUTI ECONOMICI ALL'AFRICA SONO STATI INUTILI
I soldi donati dall'Occidente hanno devastato il Terzo mondo, perché hanno solo alimentato la corruzione, i conflitti interni e il potere dei regimi armati
Autore: Anna Bono - Fonte: Tempi
8 IL VATICANO II E L'IMPROPONIBILE CRISTOLOGIA DI DON GIUSEPPE DOSSETTI
Il suo vescovo (di Bologna) ricorda il politico e teologo autodidatta che difese la Costituzione Italiana considerandola sacra e inviolabile al pari della Bibbia
Autore: Giacomo Biffi - Fonte: Don Giuseppe Dossetti (Edizioni Cantagalli - 2013)
9 OMELIA V DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C - (Gv 8,1-11)
Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei
Fonte: Il settimanale di Padre Pio

1 - E' MORTO IL PRESIDENTE VENEZUELANO HUGO CHAVEZ: GIORNALI E TELEVISIONI LO ESALTANO, MA LA REALTA'...
Amico dell'Iran e nemico della Chiesa, dopo aver abolito la proprietà privata lascia un Paese fra i più poveri dell'America del Sud (nonostante sia il maggior produttore di petrolio della regione) e con il più alto tasso di criminalità del mondo
Autore: Stefano Magni - Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 07/03/2013

Morto all'età di 58 anni, da quasi due anni malato di tumore, l'ex presidente venezuelano Hugo Chavez lascia un'eredità politica difficile, a dir poco.
Nel 1992 il giovane tenente colonnello fu a capo di un tentativo di rovesciare il presidente liberale Carlos Andres Perez. Il movimento che guidava allora e con cui tentò il colpo di Stato, l'Mbr200 (Movimento Bolivariano Rivoluzionario 200), era costituito da marxisti dell'America Latina, reduci da una guerra fredda appena finita. Gli slogan dei rivoluzionari erano i soliti: lotta contro la corruzione, il Nord America e le multinazionali. Si trattava di una scena classica della politica sudamericana. Il fallimento del tentativo militare di presa del potere fu visto universalmente come il segno che la democrazia liberale avesse trionfato anche in quell'area del mondo.
Fu un errore di ottimismo. Chavez, dopo aver trascorso appena 2 anni di galera, ritornò sulla scena in veste di democratico, alla testa di un movimento (Quinta Repubblica) che mirava alla riforma presidenziale della Costituzione. Piacque all'estrema destra così come all'estrema sinistra e venne eletto nelle elezioni del 1998. Da subito iniziò, usando i mezzi della democrazia, a ritagliarsi un potere sempre più assoluto. Due furono gli eventi che accelerarono la svolta autoritaria. La prima fu la crisi economica argentina del 2001 diede ulteriore impulso alle sue politiche anti-liberali e lo spinsero ad intensificare il suo programma di nazionalizzazioni. La seconda fu il fallito tentativo militare di rovesciare il suo potere nel 2002, che gli diede l'opportunità di militarizzare la società (con la diffusione delle squadre di paramilitari bolivariani) e di assumere poteri straordinari.
Contrariamente ai dittatori tradizionali, Chavez è riuscito a conquistare il Venezuela dal basso all'alto, invece che limitarsi ad occupare il vertice. Il suo potere, proprio per questo motivo, è risultato molto più pervasivo rispetto ai classici autoritarismi. Lettore di Antonio Gramsci, l'ex golpista militare ha occupato tutte le cittadelle della società. Prima di tutto: i mezzi di produzione. Ha nazionalizzato il petrolio e tutte le industrie strategiche e, dopo il golpe del 2002 (che era appoggiato anche dai sindacati dell'opposizione), ha preso il controllo delle organizzazioni sindacali. In totale ha espropriato 1168 aziende, nazionali e straniere. Ha occupato le scuole, imponendo un programma di studi ideologicamente orientato e inquadrando il più possibile gli studenti nelle organizzazioni bolivariane.
Chavez ha occupato i media, imponendo loro palinsesti politicamente controllati, intimidendo i giornalisti vicini all'opposizione, facendo chiudere radio e Tv private (compresa la popolarissima Rctv) che considerava ostili. Ha occupato i quartieri poveri, le favelas di Caracas, dove ha mandato le sue "missioni" di consulenti cubani, ad aiutare e curare la gente, ma anche ad indottrinarla ideologicamente. Ha occupato le campagne, nazionalizzando 2,5 milioni di ettari di terreno. A questo punto non ha più avuto bisogno di conquistare il potere con la forza, come aveva tentato di fare nel 1992. La sua presa sulla società è stata sempre abbastanza stretta da consentirgli facili vittorie elettorali. Almeno fino al 2012, quando, indebolito dalla malattia, rischiava (per la prima volta) di essere battuto dall'opposizione democratica.
L'eredità del bolivarismo è un mistero anche per gli stessi bolivariani. E' uno strano miscuglio di ideologie. Hugo Chavez ha rivitalizzato l'indigenismo, l'esaltazione dei popoli indio visti come gli unici veri cittadini del Sud America. Il presidente venezuelano l'ha usato come il grimaldello contro la borghesia di origine europea e il capitalismo nel suo complesso. Nel suo programma elettorale del 2006, il presidente venezuelano aveva addirittura promesso l'abolizione della moneta e la sua sostituzione con forme tradizionali di scambio fra i villaggi rurali. Il bolivarismo, però, prende anche il suo stesso nome da Simon Bolivar, simbolo dell'indipendenza dalla Spagna, ma europeo a sua volta.
Chavez ha usato quell'icona per puntare alla cosiddetta "indipendenza economica" (nazionalizzazioni ed esportazione selettiva del petrolio concedendo prezzi politici agli alleati) ed alla riunificazione del continente sudamericano. La sua alleanza, l'Alba, è la principale alternativa locale alle aree di libero scambio. Benché si sia sempre detto cristiano, Chavez ha strizzato l'occhio all'Islam più radicale. Hezbollah è attualmente un'organizzazione politica ben radicata in Venezuela, rappresentata addirittura da un viceministro agli Interni dopo le elezioni del 2006. Anche in questo caso si è trattato di un'alleanza anti-americana: Iran e Venezuela hanno creato un asse contro gli "imperialisti", gli Usa soprattutto, ma anche la stessa Israele, oggetto di numerosi discorsi incendiari dello stesso Chavez.
A proposito del suo vantato cristianesimo, Chavez ha ingaggiato un duro braccio di ferro, lungo 15 anni, con la Conferenza Episcopale del Venezuela e con lo stesso Vaticano. Sempre per motivi di potere. I vescovi venezuelani, denunciando l'eccessiva concentrazione di potere nelle mani del presidente, già nel 2002 non avevano sostenuto il capo dello Stato nel corso del tentativo di golpe militare. La Chiesa è sempre stata critica, anche se mai esplicitamente ribelle o dissidente. Nel 2007, l'allora cardinale di Caracas Rosalio Castillo Lara, aveva avvertito: "Se il popolo venezuelano non riesce a comprendere la serietà della situazione e non riesce ad esprimersi a favore della democrazia e della libertà, ci troveremo soggiogati a un regime di tipo marxista-leninista". Il suo predecessore, Ignacio Velasco, nel 2002, diceva del rapporto fra Chiesa e Stato in Venezuela: "Ogni giorno porgiamo l'altra guancia, ma finiremo per non avere più guance". Quando Velasco morì, Chavez gli augurò di andare "all'inferno" e al funerale del cardinale i bolivaristi fecero un'irruzione con lanci di pietre. Nel secondo mandato presidenziale (2006-2012), Chavez ha ulteriormente alzato i toni contro la Chiesa cattolica.
Nel 2009 era scoppiato un grave conflitto, quando la Conferenza Episcopale si era opposta alla riforma dei governatorati, che avrebbe ridotto i poteri delle amministrazioni locali. Nel 2010 aveva proposto di rivedere il concordato. Da notare che fu solo nel 1964, durante il governo di Romulo Betancourt, mediante la firma e la ratifica del concordato con la Santa Sede, che si pose fine al regime del Patronato Real che subordinava le attività Chiesa al controllo dello Stato. L'accordo confermava il finanziamento pubblico per le missioni cattoliche presso le popolazioni indigene e le misure generali di supporto finanziario. Tutti i settori in cui Chavez voleva avere l'esclusiva assoluta. Il presidente ha sempre considerato quella libertà come un "privilegio" nei confronti delle altre religioni. E in quell'occasione, disconobbe Benedetto XVI: "E' il capo di Stato del Vaticano, non l'ambasciatore di Cristo sulla terra: Cristo non ha bisogno di ambasciatori, Cristo è nel popolo e tra quelli che lottano per la giustizia e la libertà degli umili". Contro l'arcivescovo di Caracas, Jorge Urosa Savino, ne aveva dette di tutte, nel corso del suo show presidenziale a reti unificate. E intanto chiudeva Vale Tv, la televisione di proprietà della Chiesa, per "restituirla al popolo". Il presidente bolivariano ha sempre tentato di introdurre nel Paese la "sua" versione del cristianesimo, collettivista, pauperista, anti-capitalista, nel solco della tradizione della Teologia della Liberazione.
In 15 anni di bolivarismo, tuttavia, non ha neppure tracciato alcun progetto di lungo termine. L'ideologia di Chavez è un insieme di argomenti a contrario: ha usato l'indigenismo contro il capitalismo e la borghesia di origine europea, il bolivarismo contro gli Usa e le multinazionali, l'alleanza con l'Iran ed Hezbollah contro gli Stati Uniti. Ma alla fine, dopo 15 anni di dominio, il bolivarismo ha lasciato un Paese fra i più poveri dell'America del Sud (nonostante sia il maggior produttore di petrolio della regione), il più violento in assoluto (120mila omicidi dal 1999 ad oggi, il più alto tasso di criminalità del mondo) e una società in cui non esiste più il concetto di proprietà individuale, né alcun governo della legge. La sua eredità consiste nell'aver messo i venezuelani gli uni contro gli altri per dominarli meglio. Fino alla sua morte, che probabilmente sarà foriera di nuove violenze: già i suoi discepoli accusano gli Stati Uniti.

DOSSIER "SIC TRANSIT GLORIA MUNDI"
Personaggi morti dal 2009 al 2019

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Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 07/03/2013

2 - IL MINISTERO DELLA SALUTE CI PROPINA LO SPOT PER L'USO DEL PRESERVATIVO
Comunque il vero tema non è il profilattico, ma la concezione dell'amore promossa in modo violento e martellante dalle potentissime lobby omosessuali
Autore: Costanza Miriano - Fonte: Blog di Costanza Miriano, 07/03/2013

Rivoglio i soldi che il Ministero della Salute finanziato anche dalle mie tasse ha speso in mio nome per pagare lo spot per l'uso del preservativo. Non so a quanto ammonti la mia quota, fosse anche un centesimo la rivoglio, è sempre una monetina che si può usare per scopi più nobili, che so, tirarla a un piccione, appiccicarla sulla fronte con una pressione della mano per vedere se con una botta alla nuca cade. Sono cose importanti, rivoglio il mio centesimo.
Non con la stessa drammatica urgenza con la quale rivoglio i soldi – molti, molti di più, questi – spesi dal servizio sanitario nazionale per uccidere bambini piccolissimi nelle sale operatorie pubbliche, ma comunque rivoglio anche questo, il mio piccolo centesimo.
Lo spot sembra "solo" per promuovere il preservativo, e già si potrebbe discutere su questo (l'unica protezione davvero, certamente sicura dal virus Hiv è una condotta sessuale fedele, perché il lattice si rompe, non è mica titanio). Ma la verità è che lo spot parla solo marginalmente di questo. In realtà quello che vuole far passare è che l'"amore" – mai parola più abusata – è bello perché è vario, lui e lui, lei e lei, non ci facciamo tanto caso, basta che ci proteggiamo. E anche qui ci sarebbe da discutere: l'amore è proprio il contrario di proteggersi, è consegnarsi senza rete a una sola persona per sempre, e se non è un rischio questo...
Tra parentesi, così, tanto per chiedere, non so se sono troppo inesperta io, forse sì, ma che se ne fanno due femmine di un preservativo? E poi, qui sono un po' più esperta, posso dire con certezza che una donna incinta – c'è anche lei nello spot (non ci facciamo mancare niente, con quel centesimo) – non se ne fa davvero niente di un preservativo, a meno che non stia per fare l'amore con uno che non è il padre del bambino.
Ma guardiamoci negli occhi: il vero tema non è il profilattico, ma la concezione dell'amore, e ovviamente non è quella banale, scontata, noiosissima, che noi continuamente ci ostiniamo a proporre con poca fantasia: un uomo e una donna. È invece quella  promossa in modo violento e martellante dalle potentissime lobby omosessuali. Dico che sono potentissime perché rispetto alla diffusione del fenomeno riescono sempre, anche in momenti di emergenza politica e sociale, a mettere la questione in agenda (ma con un paese nel nostro stato, sull'orlo del baratro, può essere  tra i problemi più urgenti?).
Ma il vero capolavoro è quello che dicono il padre e la madre che accarezzano il pancione (di lei; no, lo dico, perché qui non si è più sicuri di niente): "l'unica cosa che vogliamo trasmettergli è la protezione della vita". A parte che se c'era un virus da trasmettere è stato trasmesso col concepimento, credo (se c'è un medico tra i lettori e mi sto sbagliando me lo dica, sono pronta a imparare nuove cose). Ma che vuol dire la protezione della vita? Il preservativo è proteggere la vita del bambino? Io avevo capito che serviva a non concepirlo.
E nella fiera della follia, c'è stato anche chi (la Lega Italiana Lotta all'Aids) ha avuto da protestare contro lo spot. Ma indovinate perché. Perché la parola preservativo non viene detta, e il simpatico oggetto viene solo mostrato. Il Ministero riconosce l'errore, adducendo motivi tecnici, e si affretta a mettere online la versione integrale. Mi raccomando.
Io comunque rivoglio il mio centesimo (e ringrazio fra Roberto che mi ha fatto notare la follia).

Fonte: Blog di Costanza Miriano, 07/03/2013

3 - ASSUNTO PER LA NUOVA SERIE DI SUPERMAN, MA E' CONTRO IL MATRIMONIO GAY E SALTA TUTTO
Dc Comics ha assunto lo scrittore pluripremiato Orson Scott Card, ma per la pressione delle lobby gay la nuova serie viene rimandata
Autore: Leone Grotti - Fonte: Tempi, 06/03/2013

Chris Sprouse è un artista del fumetto e Dc Comics l'ha incaricato di guidare la creazione della nuova serie di Superman. Ieri, però, Sprouse ha deciso di dimettersi dichiarando di «non sentirmi a mio agio» con le incessanti critiche che hanno colpito l'importante casa editrice americana per avere scelto come autore delle storie della nuova serie Orson Scott Card.

GRANDE AUTORE MA CONTRO LE NOZZE GAY
Card non è uno qualunque, è l'autore di Ender's Games, best seller di fantascienza vincitore di moltissimi premi. Perfetto, dunque, per il lavoro che Dc Comics gli ha commissionato. Ma c'è un problema: Card è un membro della direzione del National Organisation for Marriage, organizzazione non profit fondata nel 2007 che si batte per la difesa della famiglia tradizionale e si oppone alla legalizzazione del matrimonio gay.

LICENZIATE CARD
Moltissimi fan del fumetto, ritenendo inaccettabili le convinzioni dell'autore, hanno minacciato Dc Comics che non avrebbero più comprato Superman se Card non fosse stato licenziato. Le critiche fomentate dalle lobby Lgbt hanno fatto solo vacillare Dc, che non ha licenziato Card e ha rilasciato questo comunicato: «Come creatori di contenuti noi difendiamo fermamente la libertà di espressione, anche se le visioni personali degli individui associati a Dc Comics non sono quelle dell'azienda».

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE IN PRIVATO
Il comunicato non è piaciuto e la casa editrice è stata accusata di «codardia e debolezza». «Dovrebbero licenziarlo» è la campagna che viene costruita contro Card, come riporta il quotidiano inglese Guardian. «Quest'uomo fa campagna contro i diritti dei gay. Il problema non è quello che pensa, ma il fatto che lui cerchi di diffondere in pubblico la sua idea». Card non dovrebbe esercitare la sua libertà di espressione in pubblico. Lo sostiene anche Jono Joarett, membro del gruppo pro gay Geeks OUT, che scrive: «È sorprendente che Dc continui a difendere Card, un bigotto il cui attivismo contro i gay fa a pugni con il tentativo del suo editore di conquistare fan nella comunità LGBT». Sommersa dalle critiche, Dc Comics ha rilasciato un altro comunicato, più comprensivo nei confronti delle ragioni di chi, come Sprouse, non vuole lavorare con una persona, per quanto brava, che è contraria ai matrimoni gay:  «Appoggiamo, capiamo e rispettiamo completamente la decisione di Chris Sprouse di fare un passo indietro e non disegnare le Avventure di Superman». La nuova serie, per ora, è stata rimandata, con buona pace per la libertà di espressione.

Fonte: Tempi, 06/03/2013

4 - BEPPE GRILLO? PARLA COME HITLER
''Chi è il responsabile? I partiti! Noi non siamo come loro! Mi hanno proposto un'alleanza: ancora non hanno capito di avere a che fare con un movimento completamente differente da un partito. E' un movimento che non si può fermare''
Fonte il Sussidiario, 01/03/2013

Dopo il grande successo elettorale, Beppe Grillo deve tornare a fare i conti con chi puntualmente tenta di mettergli i bastoni tra le ruote. Stavolta la minaccia proviene proprio dalla Rete, la stessa dove il Movimento 5 Stelle è di fatto nato e dove ha trovato principale linfa vitale per diventare l'importante realtà che è oggi. Da diversi giorni, in particolare su Facebook, sta infatti circolando il video di un discorso di Adolf Hitler del 1932 che, secondo qualche utente, ricorderebbe in modo preoccupante i concetti espressi più volte proprio dall'ex comico genovese. Il video è ovviamente diventato virale ed è ora sulla bocca di tutti: "I contadini, gli operai, i commercianti, la classe media, tutti sono testimoni – recita parte del discorso di Hitler - invece loro preferiscono non parlare di questi 13 anni passati, ma solo degli ultimi sei mesi. Chi è il responsabile? Loro! I partiti! Per 13 anni hanno dimostrato cosa sono stati capaci di fare. Abbiamo una nazione economicamente distrutta, gli agricoltori rovinati, la classe media in ginocchio, le finanze agli sgoccioli, milioni di disoccupati. Sono loro i responsabili!". E ancora: "Io vengo confuso: oggi sono socialista, domani comunista, poi sindacalista, loro ci confondono, pensano che siamo come loro. Noi non siamo come loro! Loro sono morti e vogliamo vederli tutti nella tomba!", afferma Hitler nel suo discorso. "Io vedo questa sufficienza borghese nel giudicare il nostro movimento, mi hanno proposto un'alleanza. Così ragionano! Ancora non hanno capito di avere a che fare con un movimento completamente differente da un partito politico. Noi resisteremo a qualsiasi pressione che ci venga fatta. E' un movimento che non può essere fermato, non capiscono che questo movimento è tenuto insieme da una forza inarrestabile che non può essere distrutta. Noi non siamo un partito, rappresentiamo l'intero popolo, un popolo nuovo".

Fonte: il Sussidiario, 01/03/2013

5 - IL SUICIDIO POLITICO DEI CATTOLICI
Il moralismo di don Gianfranco e di chi la pensa come lui
Autore: Vincenzo Sansonetti - Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 06/03/2013

A poco più di una settimana dall'esito (a sorpresa) delle urne, e mentre ci si arrovella su come dare un governo al Paese, resta l'interrogativo: come può essere accaduto? Di chi è la colpa? Di un sistema elettorale che dà il 55 per cento dei deputati a una coalizione, il centrosinistra, che ha meno del 30 per cento dei voti validi e ha sopravanzato la coalizione avversaria per uno zero virgola? Dei vecchi partiti che non hanno saputo cogliere i bisogni dei cittadini? Della corruzione e del malaffare dilaganti? Dei costi della politica? Della crisi economica? Di Grillo e della sua grande forza di persuasione basata sul nulla?
No, signori; il responsabile della pericolosa situazione di ingovernabilità che si è creata è di un certo don Gianfranco e di chi la pensa come lui. Vediamo perché.

L'APPELLO DI UNA SENATRICE
Qualche settimana prima del voto una senatrice umbra uscente del Pdl, Ada Spadoni Urbani, manda una lettera a tutti i parroci della regione, spiegando il motivo per cui si ricandida e quali sono i suoi ideali. Iniziativa forse poco ortodossa, che sa di vecchie, ammuffite, liturgie democristiane, ma pur sempre legittima. Libera la signora di scrivere, liberi i parroci di cestinare la sua lettera o di prenderla in considerazione. La senatrice si mostra preoccupata perché il nuovo Parlamento dovrà affrontare «parecchi argomenti che riguardano temi etici importanti e delicatissimi». Ed esemplifica: «le disposizioni sul fine vita, la legge sul matrimonio per le coppie omosessuali, l'adozione di bambini nelle stesse coppie omosessuali, le problematiche sull'uso degli embrioni, l'apertura all'aborto eugenetico». In pratica cita (quasi) tutti i principi negoziabili così vivacemente richiamati dal Magistero proprio in vista delle elezioni. La senatrice aggiunge di aver fondato, insieme con altri colleghi, l'Associazione parlamentare per la Vita, formata da una sessantina di deputati e senatori di vari schieramenti, e precisa che il suo partito, il Pdl, «sui temi etici è sempre stato unito e coerente».
La lettera si conclude con l'impegno a respingere «la modificazione dei valori di fondo della nostra società» e con l'auspicio «che nel futuro Parlamento ci sia un numero di persone sufficienti a non far passare leggi contro la famiglia, l'uomo e la sua vita». Ada Spadoni Urbani chiede a ogni parroco il sostegno, ringraziando «per tutto quello che riterrà di fare».

AL ROGO! AL ROGO!
Lettera inusuale, anacronistica, quella della senatrice (che non verrà rieletta), magari poco opportuna, ma sincera, che fotografa la realtà per quello che è; e soprattutto prende le mosse dalle autorevoli indicazioni dei vescovi. Ebbene, la reazione di un certo don Gianfranco Formenton, parroco a Spoleto, ma di origini venete, già noto alle cronache per le sue viscerali campagne antiberlusconiane, è stupefacente: anziché riflettere, anche criticamente, sui contenuti della lettera, la rimanda al mittente con argomenti risibili, mette il tutto in rete, e chiama alla rivolta il Paese contro il Nemico di Arcore, facendo partire una sorta di catena di Sant'Antonio, nel segno del livore e della ribellione di stampo giacobino.
Per l'ineffabile don Gianfranco i «cosiddetti» temi etici richiamati dalla lettera (il fine vita, le unioni omosessuali, gli embrioni, l'aborto) non sono altro che «luoghi comuni»; sono ignorati invece ben altri «valori non negoziabili», quelli inerenti a «comportamenti di vita, di etica pubblica e di testimonianza». E arriva la ciliegina: «mentre nel Vangelo non c'è una sola parola sulle unioni omosessuali, sul fine vita e sull'aborto» (sic!), invece ci sono «monumenti innalzati alla tolleranza, alla nonviolenza, all'accoglienza dello straniero, al rifiuto delle logiche della furbizia e del potere». Dopo aver imputato al Cavaliere la maggior responsabilità nell'affermazione del relativismo morale, grazie al suo strapotere mediatico (?!) e dopo aver condannato la vicinanza della senatrice «a tutta una serie di personaggi che coltivano ideologie razziste, populiste, fasciste che sono assolutamente anticristiane, antievangeliche, antiumane», il parroco conclude rifiutando l'aiuto richiesto dalla senatrice pidiellina, tacciandola di esibire «presunte credenziali di cattolicità» e vantandosi per il fatto che, anzi, le farà una campagna contro suggerendo alle «pecorelle» del suo gregge di non votarla.

IL DEMONE DEL MORALISMO
In una successive intervista, lo stesso don Gianfranco ribadirà, rincarando la dose, che la sua risposta alla senatrice è stato un «dovere morale» e che, entrando nel merito, «sul fine vita e sull'aborto i cristiani spesso fanno un grosso errore: si preoccupano della parte iniziale e finale della vita, senza pensare che in mezzo c'è tutta l'esistenza di un uomo». Infine invita Berlusconi a farsi da parte, come «gesto di misericordia, dopo tutti i cattivi esempi dati in questi anni». Fin qui il prete umbro, che rifiuta l'etichetta di «prete comunista». Ha ragione. E' peggio. E' un sacerdote che, anziché aiutare il popolo cristiano che gli è stato affidato, orientandolo con un intelligente criterio di fede, di fatto lo ha gettato tra le braccia del più banale moralismo, il vero peccato mortale di tanti cattolici del nostro tempo. Cita la frase, che Bagnasco prima delle elezioni aveva buttato lì come risposta alle domande incalzanti della stampa («gli elettori cattolici non si faranno abbindolare»), interpretandola a senso unico come un invito a non votare centrodestra, ignorando totalmente (anzi irridendo) l'indicazione magisteriale a individuare forze politiche e candidati attenti ai «valori non negoziabili» (liquidati come «luoghi comuni»), preoccupazione espressa con forza, e in modo ufficiale, dallo stesso presidente della Cei, cui don Gianfranco si richiama con tanta superficialità.
Probabilmente molti suoi parrocchiani avranno votato convinti e sereni Grillo, perché l'ex (o ancora) comico non ama sculettamenti televisivi e igieniste mentali, è integerrimo e incorruttibile e sicuramente sarà in grado di risolvere con la sua bacchetta magica i drammatici problemi dell'Italia. Ciò che conta è che non abbia vinto il cattivo Cavaliere nero, causa di tutti i mali: peccato non averlo completamente annientato...

UNA NEFANDA OPERA DISEDUCATIVA
Ciò che sfugge completamente ai numerosi (ahimè) don Gianfranco in giro per le parrocchie italiane, e che tanti danni arrecano alla Chiesa e al Paese, è una visione corretta del significato profondo della politica, che è fatta di uomini e di donne in carne e ossa (non di mostri immaginari biechi razzisti e fascisti) e di scelte concrete legate a precise antropologie: non è la stessa cosa, ad esempio, dovendo scegliere, indirizzare fondi pubblici ad associazioni pro nozze gay o a favore di chi vuole aiutare le mamme in difficoltà nel portare avanti una gravidanza...
In altre parole, manca lo sguardo attento a cogliere che cosa sia davvero il bene comune, soprattutto in una prospettiva a lungo respiro. Il risultato di questa nefanda opera diseducativa? Due sono gli esiti. Uno è sotto gli occhi di tutti: l'ingovernabilità dell'Italia per il successo del movimento Cinque Stelle, considerato una forza giovane e innovatrice, in realtà foriera di inquietanti svolte autoritarie, giustizialiste e avanguardiste. L'altro esito, ancor più grave, è la dissoluzione della presenza dei cattolici sulla scena politica, ridotta a poche, eroiche testimonianze individuali.
Già era poca cosa la pattuglia dei «cattolici democratici» nel Pd, con scarsissimi spazi di manovra in un partito che andava, e che va, da tutt'altra parte; ora abbiamo un pattuglione di grillini cui non importa proprio nulla dei valori cristiani; anzi, alla prima occasione saranno ben felici di combatterli. L'unica, residua speranza era di poter contare su una presenza significativa di parlamentari attenti a questi valori all'interno del centrodestra e del centro.
Sicuramente la senatrice umbra tanto svillaneggiata dal parroco inquisitore era una di questi: seria, chiara nel dichiarare i suoi ideali, pronta a battersi per il bene comune e disposta al dialogo. Nossignori!
Questa senatrice è da mettere al rogo o per lo meno da tenere fuori dalle Camere perché è in un partito guidato dal più pericoloso criminale che si sia mai visto nel panorama politico italiano, forse mondiale. Questo è quello che pensa il nostro caro don Gianfranco, che si è comportato di conseguenza, è venuto meno ai suoi doveri di pastore attento alla realtà e di fatto ha contribuito alla disgregazione del quadro politico. Magari lui è ben contento di questo risultato; noi diciamo che se l'Italia è piombata nell'ingovernabilità, la colpa è anche sua.

Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 06/03/2013

6 - LE STRATEGIE DELLA SINISTRA PER LA DISSOLUZIONE DELLA FAMIGLIA
Dicevano di occuparsi dei lavoratori, oggi puntano alla distruzione della famiglia, del cristianesimo e di tutti i valori morali: sono gli eredi dei partiti comunisti
Autore: Giacomo Sameck Lodovici - Fonte: Il Timone, Febbraio 2013

Perché i partiti eredi del marxismo sono così ostili alla famiglia, tanto da proporsi ormai tra i loro obiettivi irrinunciabili il "divorzio breve", l'equiparazione delle coppie di fatto a quelle sposate, il "matrimonio gay", ecc.? Sono coerenti con il pensiero di Marx?
 
UNA FILOSOFIA DELLA RIVOLUZIONE
A ben vedere, all'origine il marxismo è fondamentalmente una filosofia della rivoluzione il cui scopo è prendere il potere: pensiamo alla celeberrima XI tesi di Marx su Feuerbach: «I filosofi finora si sono variamente sforzati di interpretare il mondo; si tratta [piuttosto] di cambiarlo», cioè bisogna rovesciare la situazione attuaIe e ot-tenenere i mezzi di produzione per conquistare il potere. Ebbene, il rivoluzionario di tutti i tempi si avvale di diverse tecniche per conseguire il potere e la supremazia (in buona parte di quanto diremo siamo debitori a Emanuele Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi, cfr. bibliografia). E, certamente, la tecnica più efficace è una tecnica per così dire scissoria, cioè una tecnica che, invece di contrastare il nemico muro contro muro, cerca piuttosto di seminare divisione al suo interno: «divide et impera», come dicevano intelligentemente i romani.
 Il marxismo ha saputo proprio diffondere una mentalità scissoria (dialettica), cioè ha abituato le persone a pensare i rapporti umani e la società in termini di contrapposizione, invece che di composizione e collaborazione: per esempio tra studenti e insegnanti, tra genitori e figli, tra uomini e donne, tra clero e laicato, ecc.
 
INIMICIZIA TRA MARXISMO E FAMIGLIA
Se questo è vero, allora il marxismo vede nella famiglia un ostacolo da abbattere per (almeno) tre motivi.
 
1. Il marxismo vuole sciogliere i legami affinchè l'individuo trovi rifugio e riparo nel partito o nel sindacato. Rispetto a questo progetto, la famiglia rappresenta allora un ostacolo da eliminare perché è il principale luogo di comunione, è la cellula della coesione sociale e quindi (come dice già Aristotele) è la cellula fondamentale della società.
 
2. Il marxismo predica l'uguaglianza radicale (nella società comunista tutti saranno uguali), quindi vede ogni gerarchia e ogni autorità sempre come espressioni di dispotismo: per contro, la famiglia è proprio la dimostrazione che gerarchia e autorità possono essere non già dispotiche, bensì una forma di servizio, per il bene dei figli. Infatti, in una famiglia armonica (ovviamente ci sono anche molte famiglie patologiche) i genitori hanno sì l'autorità, ma non esercitano il dispotismo. Anzi, di più, la famiglia dimostra che l'uguaglianza radicale provoca danni, perché quando i genitori si mettono sullo stesso piano dei figli, si verificano presto o tardi esiti molto negativi.
 
3. Il marxismo, come tutte le filosofie rivoluzionarie, rifiuta limite, in quanto ritiene di poter creare la società perfetta, l'uomo nuovo, la Gerusalemme mondana, il paradiso in terra. Se il marxismo rifiuta il limite, la famiglia è invece il luogo del limite per molti motivi:
a. Perché in famiglia si sperimenta il senso della dipendenza, in quanto ognuno dei figli esperisce di dover dipendere dai genitori.
b. Per la presenza dell'anziano (dove c'è ancora l'anziano ovviamente), in quanto egli è una sorta di monito: la sua stessa presenza e la sua fragilità (dovute all'età e alla non infrequente malattia) sono dei moniti chiarissimi del fatto che ciascuno di noi è destinato a deperire: così, l'anziano è un memento contro tutte le ambizioni di poter creare un uomo perfetto, senza limiti e senza fragilità. L'anziano, inoltre, rappresenta un monito perché custodisce la memoria storica, cioè è memore del fatto che, in molti casi, le varie promesse utopiche - che ha sentito risuonare durante la sua vita - di rigenerazione della società non sono state mantenute. Quindi è in grado di raffreddare gli entusiasmi e di provocare un disincanto nei confronti di tutti quei progetti che credono di poter realizzare una palingenesi della società.
 
LE STRATEGIE DI DISSOLUZIONE DELLA FAMIGLIA
Se questi sono tre motivi per cui il marxismo vede nella famiglia un ostacolo da abbattere, allora esso, via via nel corso della sua storia, in modo diverso nei diversi paesi in cui si è affermato, ha articolato e individuato delle strategie di dissoluzione della famiglia. Ce ne sono almeno tre, di cui la più efficace è la terza. La prima strategia è quella del terrore: la strategia, cioè, che adotta una politica repressiva (finanche concentrazionaria), che cerca di seminare divisione nella famiglia, di distruggerla. Per esempio, imponendo di denunciare i propri famigliari che fossero anticomunisti, mettendo quindi figli contro genitori, genitori contro figli, fratelli contro fratelli e via dicendo.
C'è poi una seconda strategia, quella legislativo-istituzionale e urbanistica, cioè quella, quasi da subito iniziata nell'Unione Sovietica, che oggi anche noi ben conosciamo, perché pervade le legislazioni europee: la strategia che promuove leggi che minano l'istituto familiare, con l'introduzione del divorzio, dell'aborto, l'equiparazione delle coppie sposate alle coppie di fatto e a quelle omosessuali, ecc. Poi c'è, per esempio, la politica urbanistica dei piccoli alloggi, con la costruzione di case dove non può più sussistere la famiglia allargata, la famiglia dove ci sono gli anziani e diverse generazioni, dove possono vivere molti figli; invece nei piccoli alloggi, per ragioni di spazio, il nucleo familiare può essere solo ristretto. Ma queste due strategie non sono quelle più efficaci, perché la famiglia può resistere a questi attacchi; la strategia più efficace è quella della Rivoluzione sessuale, che si compie e deflagra nel '68, ma che è preparata già dai teorici del marxismo classico, da Marx ed Engels.
 
VELENO PER LA FAMIGLIA GIÀ IN MARX
In effetti, se andiamo a vedere bene i testi di questi due autori, possiamo rilevare che Marx distingue nella sua disanima la famiglia borghese dalla famiglia proletaria. Riguardo alla famiglia borghese Marx è estremamente critico, perché la considera una sorta di riproduzione in miniatura della società capitalista, dove si ritrovano sfruttatori e sfruttati, dove c'è un padre-marito padrone e ci sono figli e mogli sottomessi e oppressi. Quindi Marx proclama e auspica l'abolizione della famiglia borghese. Ha, invece, un atteggiamento positivo nei riguardi della famiglia proletaria, che considera sostanzialmente sana.
Sennonché, nel marxismo c'è un principio che è decisamente corrosivo nei riguardi di qualsiasi tipo di forma e di istituto familiare (nonostante questo favore nei confronti della famiglia proletaria), un principio che è il volano della Rivoluzione sessuale che poi si compirà progressivamente: è il cosiddetto materialismo storico. Semplificando un po', il materialismo storico è l'equivalente di ciò che oggi chiamiamo relativismo etico, cioè afferma che i valori morali sono tutti transitori, che non esistono valori morali immutabili, che i principi del bene e del male sono completamente connessi all'epoca in cui vengono sostenuti e pronunciati. Allora, già nei teorici del marxismo classico, al posto dell'affermazione dell'immutabilità per lo meno di alcuni beni e di alcuni valori morali che devono essere criterio dell'agire, si fa piuttosto strada il principio del piacere, cioè il principio per cui la regola della condotta, il criterio dell'agire morale, è quello della ricerca del proprio piacere, del proprio godimento. Citazione da Marx e da Engels: «i comunisti non predicano alcuna morale, aspirano soltanto a rendere possibile il soddisfacimento di tutti i loro bisogni».
Nel marxismo, si fa progressivamente strada il principio del piacere e quindi già è chiara l'aspirazione ad una società comunista in cui scomparirà la famiglia monogamica, dove il matrimonio sarà regolato soltanto dalla durata dell'attrazione reciproca e l'educazione dei figli sarà compito dello Stato, perché l'unico principio della condotta è appunto quello del godimento. Per questo, già nel Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels possono esclamare: «abolizione della famiglia!». Quindi non c'è da stupirsi che, poi, Lenin, in Unione Sovietica, abbia promosso delle leggi per la legalizzazione del divorzio, per l'equiparazione del matrimonio alle coppie di fatto, la legge sull'aborto e così via. Scrive Lenin: «è impossibile essere socialisti, senza chiedere fin da oggi l'intera libertà di divorzio e senza proporsi di esigere l'abrogazione di tutte le leggi che vietano l'aborto, o vietano la pubblicazione di scritti medici riguardanti i contraccettivi».
Ora, il Partito Comunista Italiano, all'inizio, non fu un partito relativista; così facendo era in contraddizione con Marx, ma c'erano varie motivazioni per esserlo: per esempio, i suoi dirigenti capivano di non dover entrare da subito in rotta di collisione col senso comune morale degli italiani, che allora era tutto sommato cristiano; progressivamente è diventato sempre più coerente. Oggi, ormai, i suoi eredi sono i partiti radicali, piccoli o di massa (per usare l'espressione di Augusto del Noce).

Fonte: Il Timone, Febbraio 2013

7 - GLI AIUTI ECONOMICI ALL'AFRICA SONO STATI INUTILI
I soldi donati dall'Occidente hanno devastato il Terzo mondo, perché hanno solo alimentato la corruzione, i conflitti interni e il potere dei regimi armati
Autore: Anna Bono - Fonte: Tempi, 04/01/2013

A partire dal secondo dopoguerra la cooperazione internazionale allo sviluppo ha usufruito di immense risorse finanziarie, tecnologiche e umane destinate a combattere la povertà nei paesi del terzo mondo. Tuttavia ha mancato l'obiettivo proprio dove più si è impegnata e dove maggiore era il bisogno: in Africa, a cui in poco più di mezzo secolo sono andati oltre mille miliardi di dollari, erogati a vario titolo e con diverse modalità, una sorta di "Piano Marshall" inaugurato all'indomani delle indipendenze per dotare i nuovi governi dei capitali, delle tecnologie e delle competenze professionali indispensabili.
Alle risorse della cooperazione, per l'Africa, si aggiungono quelle ricavate dalla vendita di materie prime e raccolti e dalle concessioni su miniere e giacimenti. Inoltre l'Africa indipendente ha potuto contare fin dall'inizio sulle rimesse degli emigranti, divenute così cospicue da rappresentare oggi per molti Stati una voce consistente del Pil e tali da superare in valore sia gli investimenti esteri che gli aiuti internazionali. Dopo l'anno nero, il 2009, a causa della crisi finanziaria internazionale, nel 2010 le rimesse degli africani emigrati in altri continenti hanno ripreso a crescere superando i 21 miliardi di dollari. Per il 2011 si prevede un totale di 22 miliardi e per il 2012 la previsione è di 24 miliardi.
Eppure in Africa la povertà è aumentata proprio mentre il continente disponeva di una quantità di risorse straordinaria, incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi altra epoca precedente. Tra il 1970 e il 1998, il periodo in cui ha ricevuto i maggiori contributi dall'estero, la povertà è passata dall'11 per cento al 66 per cento. Casi esemplari, tra gli altri, sono il Burkina Faso e il Burundi, due degli stati più poveri del mondo (rispettivamente 181° e 185° su 187 stati classificati nell'Indice dello Sviluppo Umano 2011 dell'Undp): 30 anni fa il loro Pil pro capite era superiore a quello della Cina. Un altro esempio: il Kenya nel 1961, quando ancora era colonia britannica, aveva un Pil pro capite superiore a quello della Corea del Sud; adesso il suo Pil è di 1.622 dollari l'anno e quello della Corea del Sud è di 29.326 dollari.
Oggi gli agricoltori africani producono, su base pro capite, il 19 per cento cento in meno rispetto al 1970. È così in quasi tutta l'Africa subsahariana, nonostante gli sforzi e le cifre spese. Le cause solitamente addotte per spiegare come mai (conflitti etnici, dittature, corruzione, inflazione, Aids, difficoltà di accesso ai mercati…) in realtà sono quasi irrilevanti. Prima di tutto la produzione agricola è stagnante perché non sono stati realizzati i necessari progressi tecnologici: sementi selezionate, fertilizzanti chimici, corrente elettrica, sistemi di irrigazione, macchinari e attrezzi moderni.
Nel settore industriale, anche nei paesi in cui gli investimenti si sono concentrati per decenni sul suo sviluppo, è successo lo stesso.
Le attività di cooperazione si sono articolate su tre fronti d'intervento: il superamento delle economie di sussistenza, tramite l'industrializzazione dei settori produttivi e la costruzione di infrastrutture; la creazione di sistemi scolastici e sanitari efficienti e accessibili a tutti, per crescere generazioni di giovani in buone condizioni di salute, autosufficienti economicamente e in grado di decidere di sé e di scegliere il loro futuro; e infine l'assistenza alle popolazioni in difficoltà, in particolare se minacciate da conflitti e calamità naturali, volta a garantire loro, per quanto possibile, protezione, mezzi di sostentamento e cure mediche.
Sulla carta doveva funzionare. Ma così non è stato, come dimostrano le attuali condizioni di vita nel continente, l'indebitamento degli Stati, gli indicatori di sviluppo che collocano quasi tutti i paesi africani agli ultimi gradini delle classifiche economiche e sociali.
La spiegazione che va per la maggiore è che occorreva più denaro, che quello stanziato non era abbastanza, che i paesi industrializzati devono aumentare la quota del Pil dedicata ai paesi poveri vincendo egoismo e indifferenza. Ma negli ultimi anni si è andata affermando l'idea che non sia affatto una questione di denaro – neanche i paesi africani che godono della remissione del debito estero nell'ambito del progetto Hipc mostrano segni convincenti di ripresa e progresso – bensì di come viene speso e da chi.
«La peggior decisione della moderna politica dello sviluppo: la scelta degli aiuti come soluzione ottimale al problema della povertà in Africa»: questo è in sintesi il bilancio di Dambisa Moyo, l'economista originaria dello Zambia divenuta famosa in tutto il mondo per le sue drastiche critiche agli aiuti allo sviluppo, esposte nel libro in Italia pubblicato da Rizzoli con l'eloquente titolo La carità che uccide.
Il fatto è che, mentre un flusso immenso di denaro e di risorse si riversa da decenni nel continente, miliardi di dollari ne escono, depositati in banche straniere, usati per investire in immobili e in imprese finanziarie e spesi per acquistare beni di lusso fabbricati in altri continenti. Complessivamente ogni anno i capitali sottratti alle casse statali dai politici africani e dai loro entourage ammontano, secondo calcoli dell'Unione Africana, a oltre 100 miliardi di euro, circa il 25 per cento del Pil globale dell'Africa.
Anche le rimesse degli emigranti si rivelano una potenzialità  tutto sommato sprecata. Quasi tutto il denaro infatti viene speso in beni di consumo e tutt'al più in attività nel settore informale, non in imprese economiche tali da creare sviluppo.
L'errore fondamentale, ma non l'unico, è stato dar credito ai governi africani susseguitisi a partire dalla fine dell'epoca coloniale europea e affidare a loro capitali e risorse: corruzione e malgoverno hanno dilapidato patrimoni immensi e continuano a farlo. Peggio ancora, la cooperazione allo sviluppo contribuisce alla sopravvivenza dei regimi autoritari che fanno razzia delle ricchezze nazionali. Parte degli aiuti, opportunamente stornati, oltre ad accrescere i beni e i capitali privati dei leader africani e delle loro clientele, vengono usati per armare e remunerare lautamente forze dell'ordine, servizi segreti e guardie presidenziali: così si mantiene il potere in Africa, più che grazie al consenso popolare. Ma anche il consenso, o se non altro l'ordine pubblico, devono molto agli aiuti internazionali che da decenni attenuano le tensioni sociali e politiche generate dalle difficili condizioni di vita delle popolazioni rurali e delle masse urbane mitigando gli effetti dolorosi delle crisi economiche, ambientali e sociali provocate dalla disattenta e irresponsabile amministrazione della cosa pubblica. I generi di prima necessità offerti dalla cooperazione internazionale rimandano l'ennesima protesta per l'aumento dei prezzi di mais, grano e riso, i progetti di sviluppo alimentano illusorie speranze di progresso e sicurezza, i servizi sanitari e scolastici creati dalle Ong e dagli istituti missionari rimediano all'inefficienza e all'inadeguatezza di quelli statali.
Anche sotto questo profilo, quindi, gli aiuti allo sviluppo diventano parte del problema, come sostiene Dambisa Moyo: il sostegno pubblico internazionale allo sviluppo «distrugge ogni slancio alle riforme, allo sviluppo, alla capacità di creare ricchezza nazionale e di esportarla. Alimenta la corruzione e i conflitti interni e favorisce il mantenimento di regimi pluriennali».

Fonte: Tempi, 04/01/2013

8 - IL VATICANO II E L'IMPROPONIBILE CRISTOLOGIA DI DON GIUSEPPE DOSSETTI
Il suo vescovo (di Bologna) ricorda il politico e teologo autodidatta che difese la Costituzione Italiana considerandola sacra e inviolabile al pari della Bibbia
Autore: Giacomo Biffi - Fonte: Don Giuseppe Dossetti (Edizioni Cantagalli - 2013)

Il 13 febbraio 2013 si compie il primo centenario dalla nascita di (1913-1996), politico e giurista bolognese che dopo aver militato nella Resistenza e aver partecipato attivamente alla Costituente fu parlamentare democristiano, compagno di partito e avversario di De Gasperi. Monaco e sacerdote, fondò la Piccola famiglia dell'Annunziata a Monteveglio e fu una presenza importante del Concilio Vaticano II. Docente universitario e storico, fondò anche, a Bologna, l'Istituto per le scienze religiose.
Nella ricorrenza, il cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, ne ricorda la "straordinaria" ma anche "complessa personalità" e ripropone una raccolta di tutte le pagine che gli ha dedicato nelle sue Memorie e digressioni di un italiano cardinale (Cantagalli, 2010). Il nuovo libro-estratto s'intitola Don Giuseppe Dossetti – Nell'occasione di un centenario ed esce anch'esso per i tipi di Cantagalli. In accordo con l'editore ne pubblichiamo qui integralmente il IX capitolo.

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Giuseppe Dossetti è stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella "sacra doctrina"?
La questione non è semplice, data la complessa personalità del protagonista, e richiede un discorso articolato. Mi limiterò, richiamando qualche notizia utile, a formulare alcune osservazioni che riguarderanno prima di tutto l'ecclesiologia, poi la cristologia e infine la metodologia propria e inderogabile della "sacra doctrina".

UN'ECCLESIOLOGIA POLITICA
Il 19 novembre 1984, in una lunga conversazione con Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, don Dossetti si è lasciato andare a qualche considerazione che deve renderci avvertiti. Egli legge sorprendentemente il suo apporto al Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della Costituente: «Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso».
Parrebbe da questa frase che egli non percepisse l'assoluta eterogeneità dei due eventi.
Ma come è possibile – a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa – confrontare e porre in relazione un'accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli, assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato? Senza dire, che un presbitero ammesso, fosse pur legittimamente, alle loro discussioni non può ritenere di avere la funzione di "manovratore strategico" (tanto meno quella di "capovolgere"). La sua presenza è per aiutare i vescovi, se gli riesce, a chiarirsi e ad enucleare al meglio quella verità rivelata che essi (soli maestri, in senso rigoroso e pertinente, del popolo di Dio) già possiedono, sia pure implicitamente.
Di più, nella stessa circostanza Dossetti addirittura si compiace di aver «portato al Concilio – anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell'esperienza politica fatta». Ma che tipo di "ecclesiologia" poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse "mondane"?
"Anche se non fu trionfante"
Questo inciso, sommesso e un po' reticente, evoca con discrezione la fine dell'attività conciliare di don Giuseppe; e merita che lo si chiarifichi nella sua rilevanza.
Egli era stato introdotto legittimamente nell'assise vaticana con la qualifica di esperto personale dell'arcivescovo di Bologna. Il 12 settembre 1963 il nuovo papa, Paolo VI, comunica la sua decisione di designare quattro "moderatori", nelle persone dei cardinali Lercaro, Suenens, Dopfner e Agagianian, con il compito di presiedere a turno l'assemblea conciliare per conto del papa. Era, come si vede, un incarico che ciascuno dei designati avrebbe dovuto esercitare soltanto singolarmente.
Lercaro persuade invece i suoi colleghi ad accettare don Giuseppe Dossetti come loro comune segretario; e con questa nomina si configura in pratica una specie di "Consiglio dei Moderatori", che finisce con l'avere indebitamente una funzione molto diversa da quella prevista e intesa, con un'autorità ben più ampia della sua indole originaria. È il momento della massima influenza di Dossetti; ma non poteva durare. Si trattava, in fondo, di un arbitrario colpo di mano che alterava la struttura legittimamente stabilita. Il Concilio aveva già una Segreteria Generale, presieduta dal vescovo Pericle Felici, il quale non tarda a lamentarsi della situazione irregolare che si era creata. Di più, l'attivismo del segretario sopraggiunto e le tesi innovative da lui propugnate cominciano a suscitare qualche naturale inquietudine. "Quello non è il posto di don Dossetti", è il commento del papa. "Alla fine don Dossetti – afferma il cardinale Suenens – a causa dell'atmosfera ostile e per tatto verso il papa, si ritirò spontaneamente evitandoci una situazione imbarazzante".
Su quell'incidente dell'attività conciliare mette conto di conoscere il giudizio del Segretario Generale, Pericle Felici, che egli ha espresso nella relazione annuale consegnata a Paolo VI il 12 dicembre 1963: "Gli Em.mi Cardinali Moderatori all'inizio dei lavori del secondo periodo hanno creduto di poter agire da soli, indipendentemente dalla Segreteria Generale, servendosi dell'opera del Rev. Don Giuseppe Dossetti.
A seguito dell'intervento del Santo Padre, i rapporti con la Segreteria Generale sono migliorati.
"È mancato però per tutto il secondo periodo una intesa tra gli Em.mi Moderatori ed il Consiglio di Presidenza ed a volte i primi hanno preso iniziative assai impegnative e di grande importanza per il Concilio senza avvertire tempestivamente i Membri della Presidenza, come avvenne per i famosi quattro punti sulla 'collegialità', che furono annunziati all'Assemblea e proposti alla votazione su affrettata e unilaterale iniziativa degli Em.mi Moderatori... È stato inoltre rilevato come sia poco consono con la propria funzione che i Moderatori esprimano sulle questioni più dibattute idee personali: averlo fatto ha posto i Moderatori in posizione di dirigenti non imparziali, diminuendo nei Padri la fiducia nella loro azione. Sembra perciò opportuno che in futuro si astengano dal partecipare ai dibattiti".
Le apprensioni di Paolo VI però non erano soltanto di natura procedurale e organizzativa.
Egli sentiva acutamente la sua responsabilità di salvaguardare in pienezza, pur nella cordiale accettazione della collegialità episcopale, la verità di fede del primato di Pietro e del suo totale, incondizionato e libero esercizio. Questa è la ragione che lo spinge a proporre la famosa Nota esplicativa previa, nella quale offriva alcuni criteri interpretativi inderogabili di lettura e comprensione del capitolo III della Lumen gentium (che pur veniva accolto integralmente). Così tranquillizzò tutti i padri sinodali e ottenne l'approvazione praticamente unanime del documento nella votazione del 21 novembre 1964: 2.151 placet e solo 5 non placet. "Con il suo intervento diretto e risoluto aveva evitato il rischio di possibili future interpretazioni contrarie alla dottrina tradizionale"; e aveva salvato il Concilio.
C'è anche da dire che papa Montini, per il suo naturale temperamento e per la sua abitudine al rispetto dell'interlocutore e alla gentilezza del tratto, non doveva avere una grande simpatia per l'aggressività del linguaggio che talvolta manifestavano gli appartenenti all'ambiente dossettiano. Sono indicativi, a questo riguardo, i giudizi che si leggono nel diario della sua attività conciliare (!) di Angelina Nicora Alberigo al giorno 19 novembre 1963: "Uomini insignificanti come Carli, vescovo di Segni", "uomini inintelligenti e teologicamente vuoti come Siri", "uomini conservatori e reazionari come Ottaviani, Ruffini e alcuni nord-americani". Così erano impietosamente squalificati dei legittimi successori degli Apostoli, i quali non avevano altro demerito che quello di non condividere in coscienza le posizioni ideologiche della signora Nicora, che non aveva altra oggettiva autorevolezza che quella di essere moglie del prof. Giuseppe Alberigo, al quale Dossetti era legatissimo.

UNA CRISTOLOGIA IMPROPONIBILE
Alla fine di ottobre del 1991 Dossetti mi ha cortesemente portato da leggere il discorso che gli avevo commissionato per il centenario della nascita di Lercaro (cui già s'è fatto cenno in queste pagine). «Lo esamini, lo modifichi, aggiunga, tolga con libertà», mi ha detto. Ed era certamente sincero: in quel momento parlava l'uomo di Dio e il presbitero fedele.
Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato; ed era l'idea, presentata con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, la Torah (la Legge mosaica) è, anche attualmente, la strada alla salvezza per gli ebrei. L'asserzione era mutuata da un autore tedesco contemporaneo, e gli era cara probabilmente perché ne intravedeva l'utilità ai fini del dialogo ebraico-cristiano.
Ma, come primo responsabile dell'ortodossia nella mia Chiesa, non avrei mai potuto accettare che si mettesse in dubbio la verità rivelata che Gesù Cristo è l'unico Salvatore di tutti.
Per superare la mia opposizione, egli cercò di attenuare la frase in questi termini: «Non sembra che risulti ancora abbastanza fondata la proposta delle due vie di salvezza, cioè Cristo per i gentili e la Torah per Israele». Era, come si vede, un maldestro compromesso ideologico; non era la fede di sempre. «Don Giuseppe, – gli dissi – ma non ha mai letto le pagine di san Paolo e la narrazione degli Atti? Non Le pare che nella prima comunità cristiana il problema fosse addirittura quello contrario? In quei giorni era indubbio e pacifico che Gesù fosse il Redentore degli ebrei; si discuteva caso mai se anche i gentili potessero essere pienamente raggiunti dalla sua azione salvifica».
Basterebbe tra l'altro – dicevo tra me – non dimenticare una piccola frase della Lettera ai Romani, là dove dice che il Vangelo di Cristo "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco" (cfr. Rm 1,16).
Dossetti non era solito rinunciare a nessuno dei suoi convincimenti. Ma qui alla fine cedette davanti alla mia avvertenza che, nel caso, l'avrei interrotto e pubblicamente contraddetto; e accondiscese a pronunciare questa sola espressione: «Non pare che sia conforme al pensiero di san Paolo dire che la strada della salvezza per i cristiani è Cristo, e per gli ebrei è la Legge mosaica». Non c'era più niente di errato in questa frase, e non ho mosso obiezioni, anche se ciò che avrei preferito sarebbe stato di non accennare nemmeno a un parere teologicamente tanto aberrante (che, tra l'altro, non aveva nessun nesso con il centenario di Lercaro).
Questo "incidente" mi ha fatto molto riflettere e l'ho giudicato subito di un'estrema gravità, pur se non ne ho parlato allora con nessuno. Ogni alterazione della cristologia compromette fatalmente tutta la prospettiva nella "sacra doctrina": in un uomo di fede e di sincera vita religiosa, come don Giuseppe, era verosimile che l'abbaglio fosse conseguenza di una ambigua e inesatta impostazione metodologica generale.

DUE TRAGUARDI, UNA SOLA TENSIONE
"C'era in Dossetti il monaco nel politico e il politico nel monaco". Questa breve espressione, enunciata da uno che gli è stato per diverso tempo vicino e ha collaborato con lui, coglie con rapida sintesi una personalità singolare e complessa. Chi ha studiato la lunga e multiforme vicenda di questa personalità straordinaria, non può non riconoscere la validità e la pertinenza di tali parole.
Dossetti nel suo intimo era già "monaco" quando partecipava attivamente alla Resistenza emiliana. Ed era ancora un "politico" nel 1974, quando noi sacerdoti milanesi ordinati nel 1950 siamo andati a trovarlo a Gerico. Ormai da diciotto anni egli aveva abbracciato la vita religiosa e da un anno si era dato alla meditazione e alla preghiera in Terra Santa. Eppure ci ha intrattenuti soltanto sulla "catastrofica" politica italiana: nelle sue parole abbiamo avvertito il rammarico, ancora vivo in lui, di non essere riuscito a far prevalere la sua linea su quella alternativa di De Gasperi (che era morto da vent'anni).
Nei suoi ultimi giorni non esitò a uscire dal suo ritiro e a rompere il silenzio monastico per salvare la "sua" Costituzione, dicendo di seguire in questo l'esempio di san Saba, l'archimandrita del deserto di Giuda che nel VI secolo abbandonò il suo eremo per difendere l'ortodossia calcedonese e combattere il monofisismo (quasi che nei due casi si trattasse di valori omogenei e paragonabili).
La coesistenza – se non l'identificazione – dei due traguardi (quello "politico" e quello "teologico"), inseguiti simultaneamente e col medesimo impegno, è all'origine di qualche incresciosa confusione metodologica. Egli proponeva le sue intuizioni politiche con la stessa intransigenza del teologo che deve
difendere le verità divine; ed elaborava le sue prospettive teologiche mirando a finalità "politiche" (sia pure di "politica ecclesiastica").
E qui c'è anche il limite intrinseco del suo pensiero e del suo insegnamento. Perché la teologia autentica è essenzialmente contemplazione gratuita e ammirata del disegno concepito dal Padre prima di tutti i secoli per la nostra salvezza e per il nostro vero bene; e solo in quel disegno si trovano e vanno esplorate le luci e gli impulsi che potranno davvero giovare alla Sposa del Signore Gesù, che è pellegrina nella storia.

I "TEOLOGI AUTODIDATTI"
Dossetti ha avuto uno svantaggio iniziale: è stato teologicamente un autodidatta.
Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d'Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella sacra doctrina e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo, così da esercitarsi nell'arte teologica sotto la guida di un vero maestro; un maestro, soggiunse, come per esempio Alessandro di Hales.
La sentenza a prima vista meraviglia un po': ci si sarebbe aspettati prima di tutto il suggerimento di un percorso culturale e libresco; di buone letture personali; di esplorazione degli scritti dei padri e degli scrittori sacri; di ricerche esegetiche, filosofiche, storiche. E invece ancora una volta il Dottore Angelico rivela la sua originalità, la sua saggezza, la sua conoscenza dell'indole sia della sacra doctrina sia della psicologia umana. Nella sua concretezza egli vedeva il rischio non ipotetico degli autodidatti: quello di ripiegarsi su se stessi e di ritenere fonte della verità le proprie letture e la propria acutezza; più specificamente il rischio di finire col compiacersi di un sapere incontrollato, e perfino di arrivare a un'ecclesiologia incongrua e a una cristologia lacunosa.
È stato appunto il caso di don Giuseppe Dossetti, che nell'apprendimento della "scientia Dei, Christi et Ecclesiae" non ha avuto maestri adeguati. A chi gli avesse chiesto da dove avesse preso le sue idee, le sue prospettive di rinnovamento, le sue proposte di riforma, egli avrebbe ben potuto rispondere (e non facciamo che usare le sue parole): «dalla mia testa e dal cuore».

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Fonte: Don Giuseppe Dossetti (Edizioni Cantagalli - 2013)

9 - OMELIA V DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C - (Gv 8,1-11)
Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei
Fonte Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 17/03/2013)

I farisei cercano di mettere in difficoltà Gesù, presentandogli una donna sorpresa in flagrante adulterio. La Legge mosaica imponeva la lapidazione per donne del genere, e ora i farisei chiedono il parere a Gesù. Se avesse apertamente detto di no alla lapidazione, Egli sarebbe andato contro la Legge mosaica; se avesse detto di sì, avrebbe trasgredito la legge romana che proibiva la lapidazione, e inoltre sarebbe andato contro il suo stesso messaggio di misericordia.
Inizialmente Gesù si mette a scrivere con il dito per terra. Questo particolare, apparentemente indifferente, ha anch'esso la sua importanza: prima di tutto esprime tutto il suo disinteresse per le trame dei farisei e, in secondo luogo, si riferiscono probabilmente a quanto scriveva il profeta Geremia: «Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore» (17,13). Con questo gesto simbolico Gesù fa capire ai suoi interlocutori che anch'essi erano pieni di peccati, che avevano anch'essi abbandonato il Signore, la fonte di acqua viva.
Gesù allora dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). A questa risposta di Gesù viene in mente quanto scrive, nella sua Regola, san Francesco d'Assisi: «Ciascuno giudichi e disprezzi se stesso». Non possiamo condannare il nostro prossimo quando siamo noi ad essere carichi di peccati. Sempre pronti a puntare il dito contro il nostro fratello, noi siamo molto bravi a scusare i nostri difetti. Sull'esempio dei Santi dobbiamo fare invece il contrario.
Dopo questa frase di Gesù, se ne andarono tutti via, «uno per uno, cominciando dai più anziani» (Gv 8,9). Rimangono allora soli, la misera e la Misericordia, come scriveva sant'Agostino. Gesù non condanna la donna peccatrice e neppure l'approva, ma l'incoraggia sulla via del ritorno, della conversione, dicendole: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Gesù perdona la donna peccatrice e questa frase: «Va' e d'ora in poi non peccare più», Gesù la ripete anche a noi ogni volta che ci accostiamo al sacramento della Confessione. Siamo peccatori e, in quella donna adultera, c'eravamo anche noi, che troppe volte siamo infedeli a Dio, ci allontaniamo dalla Fonte d'acqua viva e ci imbrattiamo nel fango della nostra miseria.
Il Vangelo di oggi è un invito a una profonda conversione, a iniziare una vita nuova e a lasciarci dietro le spalle il nostro passato fatto di peccati e di infedeltà. Nella prima lettura abbiamo ascoltato le parole del profeta Isaia il quale esortava: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche» (43,18); e, ancora più chiaramente san Paolo, nella seconda lettura di oggi, così scriveva ai Filippesi: «Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14).
Dimenticarsi dei peccati passati significa pentirsi profondamente e avere un sincero proposito di non commetterli mai più, costi quel che costi. Come Dio li dimentica, così anche noi dobbiamo cancellarli definitivamente e iniziare una vita nuova.
Il Vangelo di oggi ci insegna inoltre a non considerare il peccato del prossimo, a non condannare il fratello. Questo è il giusto atteggiamento da prendere nei confronti dei peccatori. Gesù odia profondamente il peccato, ma ama immensamente il peccatore. Così dobbiamo fare anche noi: rispettare e amare il peccatore, ma combattere senza mezze misure il peccato.

Fonte: Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 17/03/2013)

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