BastaBugie n�81 del 17 aprile 2009

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1 ECCO PERCHE' NON E' POSSIBILE IL DIALOGO SCIENTIFICO CON GLI ISLAMICI

Autore: Silvia Scaranari - Fonte: 4 marzo 2009
2 CLIMA, SVOLTA AL SENATO ITALIANO
Passa mozione anti-catastrofista
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte:
3 DARWINISMO, L'ARIANESIMO DEL XX SECOLO

Autore: Roberto de Mattei - Fonte: 3 aprile 2009
4 OMOSESSUALI NON SI NASCE
Sono medico e curo i gay, la metà vuole cambiare
Autore: Andrea Morigi - Fonte: 15 marzo 2009
5 KATYN 1
Le scomode verità del grande regista Wajda
Autore: Roberto Persico e Annalia Guglielmi - Fonte: Tempi
6 KATYN 2
Lo sterminio (censurato) di oltre 25 mila polacchi da parte dei sovietici
Fonte: Corriere della Sera
7 IN DIFESA DEL VINO
Per salvare questa delizia della creazione, segno della civiltà cristiana
Autore: Antonio Socci - Fonte: 4 aprile 2009
8 QUANDO GRAMSCI PROFETIZZÒ IL SUICIDIO DEI CATTOCOMUNISTI

Autore: Antonio Gaspari - Fonte: 17 marzo 2009
9 UNA STORIA CHE TOCCA TUTTI NOI
Ecco perche' non possiamo dimenticare Eluana
Autore: Claudio Mésoniat - Fonte: 12 febbraio 2009

1 - ECCO PERCHE' NON E' POSSIBILE IL DIALOGO SCIENTIFICO CON GLI ISLAMICI

Autore: Silvia Scaranari - Fonte: 4 marzo 2009

«Cercate la scienza foss'anche in Cina» recita una frase di Muhammad, sempre ripetuta nel mondo islamico, e circa 750 versetti del Corano (più o meno un ottavo del Libro) esortano i credenti a studiare. In effetti il "Profeta" ripete spesso che il sapere è da ricercare sempre e che la cultura è un dovere per ogni buon credente, uomo o donna che sia. E si hanno esempi molteplici di centri culturali in cui anche le donne sono iniziate alle scienze più diverse fin dai primi secoli dell'islam.
L'islam eredita dal mondo greco-cristiano un immenso patrimonio che dal VII al X secolo studia, copia e traduce in arabo, e da cui acquisisce le principali informazioni. Il contributo che da è la rielaborazione delle nozioni trovate e soprattutto l'attenzione al particolare, attenzione forse meno cara al mondo antico. L'originalità sta proprio nell'aver saputo integrare e dotare di nuova fisionomia elementi che non erano di sua invenzione.
 L'islam introduce la puntigliosa ricerca del calcolo esatto, l'idea della misurazione precisa, l'attenzione all'esperimento, soprattutto con Ibn Sina (Averroè). Secondo Alessandro Bausani, il suo pensiero è anticipatore di quello che Alexandre Koyré definisce «l'universo della precisione», cioè l'impostazione che si affermerà in Europa dal secolo XVII. Questo atteggiamento, importantissimo per il successivo sviluppo della tecnologia anche in Occidente ma nello stesso tempo potenzialmente distruttivo rispetto ai fondamenti ultimi della scienza, proviene in larga parte da un'impostazione coranica.
II Corano e la scienza
Secondo il Corano, tutto è ascrivibile a Dio e tutto avviene per puntuale intervento divino. Ne consegue che affermare l'esistenza di leggi astratte e immutabili come quella di causa-effetto o spiegare i fenomeni naturali con le causae secundae è atteggiamento inaccettabile perché implica porre dei limiti all'assoluta libertà di Dio. L'unica legge certa è quella di Dio che però è assolutamente imprevedibile e guidato solo dalla sua libera volontà. Il suo agire non può essere incatenato ad alcuna legge né codificato dalla mente umana.
Quella che a noi sembra una relazione causale certa è in realtà solo un'abitudine di Dio che tende a far seguire certi effetti a certe cause, ma se volesse potrebbe in qualsiasi momento cambiare il normale corso della natura. Il Corano insegna, ad esempio, che il sole ogni giorno sorge ad Oriente, ma che in qualsiasi momento, e forse lo farà alla fine dei tempi, Dio potrebbe farlo sorgere ad Occidente. Mentre in una mentalità cristiana il miracolo è visto come una sospensione delle leggi naturali per intervento divino, in arabo si dice kharq al-'àdàt. cioè "rottura della consuetudine".
Non si può mai essere sicuri della verità di un fenomeno fino a quando lo si verifichi con l'osservazione diretta: da qui l'attitudine sperimentale della mentalità islamica.
Ad esempio, lo scorrere del tempo, che ha una grande importanza anche religiosa perché in base alla luna e al sole si regolano tutti i tempi legali della preghiera o il succedersi dei mesi, non può essere stabilito in anticipo, ma solo con l'esatta osservazione del fenomeno. Questo ha fatto spesso avvicinare la mentalità islamica a certe forme di occasionalismo diffuse in Europa nel XVII secolo o alla filosofia di Hume.
Ma la scienza può fondarsi solo sull'esperimento. Lo sviluppo dell'Occidente sembra negare questo presupposto. Se l'esperimento è importante per verificare una legge, solo dalla convinzione che l'universo sia stato creato secondo un progetto razionale e quindi abbia in sé delle leggi che la mente umana (essa pure razionale ad immagine e somiglianza di quella del Creatore) può conoscere, può nascere una vera ricerca scientifica.
Oltre a questo presupposto fondamentale, occorre guardare come si è sviluppato il rapporto tra sapere e religione nel mondo islamico. Per indicare la scienza si usa la parola 'ilm che però indica, senza chiare distinzioni, sia lo studio dell'uomo, sia la ricerca della Tradizione del  “Profeta”, sia ancora lo studio delle regole per la recitazione coranica.
Il fatto che le tre aree siano confuse causa uno scivolamento graduale ma inevitabile verso uno sguardo di tipo religioso e fideista sulla natura. Secondo Giovanni Canova, per secoli lo studio della natura nell'islam ha avuto un aspetto principalmente devozionale. Se Jabir ibn Hayyan (Geber) nelI'VIII secolo, ha messo a punto l'uso della bilancia intuendo il passaggio da un sistema qualitativo a uno quantitativo nelle scienze, è pur vero che per secoli i suoi discepoli hanno tentato di usare la bilancia soprattutto per pesare la presenza dell’ “Anima del Mondo” nelle sostanze.
 E in un altro campo, Ibn al-Haytham (vissuto nell'X-XI secolo nell'attuale Iraq) ha messo a punto le principali nozioni di ottica scoprendo le leggi della visione e ha anticipato il principio di tempo minimo di Fermat, spiegando che «Un raggio di luce, passando attraverso un mezzo, prende la via più semplice e più veloce». Ma in terra islamica il suo sapere è stato prima di tutto usato per lo sviluppo della mistica della luce, e solo in Europa ha ricevuto un'attenzione che ha portato a sviluppi propriamente scientifici.
Nel mondo islamico, poi, con la nascita delle scuole teologiche e giuridiche nei secoli IX e X e il loro successivo consolidarsi, la scienza (‘ilm) ha perso sempre più il suo carattere di studio del mondo e dell'uomo per spostare la sua attenzione sullo studio della Tradizione e della recitazione del Corano. Questo ha provocato lo slittamento dell'attenzione dalla ricerca sulla natura allo studio di ciò che è utile per la pratica religiosa. Per conoscere il mondo - cioè la volontà di Allah e i suoi modi d'intervento nell'universo - ci si è rivolti sempre di più quasi esclusivamente al Corano, anziché usare la ragione.
 L'islam e l'uso della ragione
Vi è inoltre un altro aspetto non marginale da considerare. Nel libro della Genesi è scritto «(...) il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gen 2, 19-20).
L'uomo è chiamato da Dio stesso a prendere conoscenza della creazione e ad avere su di essa una certa sovranità (dare il nome indica in qualche modo un possesso). Dio, in un certo senso, affida la creazione all'uomo perché questi la usi, in modo ragionevole e giusto, a proprio vantaggio. Da questa convinzione è nato il costante tentativo dei cristiani di "umanizzare" il mondo, di trasformare l'ambiente in cui operano in un ambiente gradevole e confortevole, e per far questo l'ingegno umano deve continuamente cercare di andare oltre, di ampliare il suo sapere, di varcare nuove frontiere alla scoperta di quel magnifico dono che Dio gli ha fatto.
Una scoperta non illimitata ma guidata dalla ragione e dalla consapevolezza che questa non può mai essere autonoma dal suo Creatore, unico e vero Logos del mondo.
La scienza è quindi, per il cristiano, l'applicazione della ragione umana su una creazione effettuata secondo un piano razionale e per questo conoscibile. Il mondo è a vantaggio dell'uomo e la scienza è per l'uomo, per rendere migliore la sua vita e quella del prossimo. Tante scoperte sono proprio frutto del desiderio di operare a vantaggio del prossimo, prospettiva che purtroppo nella spiritualità islamica è veramente marginale.
Come papa Benedetto XVI ha mostrato nel celebre discorso del 12 settembre 2006 a Ratisbona, gli sviluppi della scienza in Occidente non sono casuali. Le radici del divorzio tra islam e scienza nell'epoca moderna non sono dovute, come pensa qualche marxista, a ragioni economiche, ma alla teologia.
Se Dio non ha creato né governa il mondo secondo leggi razionali (che possono essere talora sospese dal miracolo, cioè dal Suo intervento straordinario, ma che ordinariamente l'uomo può conoscere), anzi può modificare continuamente i principi che regolano l'universo, allora non vi può essere una ricerca teoretica che fondi la vera scienza e il prezzo che l'islam paga è la negazione dei fondamenti del vero sapere scientifico.

Fonte: 4 marzo 2009

2 - CLIMA, SVOLTA AL SENATO ITALIANO
Passa mozione anti-catastrofista
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte:

E’ stata approvata il 1° aprile al Senato la mozione presentata da 34 senatori del Popolo delle Libertà che impegna il governo a considerare – a livello nazionale e internazionale – la crescente opposizione del mondo scientifico alla teoria del riscaldamento globale di origine umana. Primo firmatario il presidente della Commissione Ambiente Antonio D’Alì, la mozione è un gesto coraggioso quanto atteso che ha il merito di gridare “il re è nudo” anche nell’arena politica dove il muro dell’ideologia è più difficile da superare.

La mozione molto semplicemente mette a confronto gli straordinari sforzi chiesti dall’Europa quanto a politiche del clima (vedi pacchetto clima-energia) e tutte le incertezze scientifiche sulla relazione tra emissione antropica di gas serra (a cominciare dall’anidride carbonica) e cambiamenti climatici, che pure è la base delle politiche suddette. La mozione impegna perciò il governo a farsi interprete di questo dibattito scientifico in sede di Commissione Europea e di G8, per evitare che vengano destinate ingenti risorse economiche ad obiettivi “ideologici” che distolgono dalla ricerca scientifica e dall’obiettivo di migliorare la qualità di vita di tutti i cittadini del pianeta. In questa prospettiva si chiede inoltre la revisione del Protocollo di Kyoto, proprio perché totalmente inadeguato alla realtà scientifica ed economica (peraltro nel libro “Che tempo farà”, di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, edizioni Piemme, si trova ampia documentazione dei falsi allarmismi sul clima e del progetto culturale e politico che sta dietro a questa massiccia propaganda catastrofista).

L’iniziativa dei senatori PdL ha fatto chiaramente centro, come si evince anche dalle reazioni scomposte e becere dei gruppi ambientalisti e di senatori, quali Roberto Della Seta (Pd), che agli argomenti ben documentati e scientificamente fondati, sanno rispondere soltanto insultando e bollando con etichette odiose che ricalcano i bei metodi dello stalinismo e del maoismo.

Nessuna risposta seria al fatto inconfutabile delle centinaia di scienziati che allo studio del clima hanno dedicato la propria vita e che contestano la tesi del riscaldamento globale di origine antropica. Oltre 600 di loro vengono citati nel Rapporto presentato nei mesi scorsi al Senato americano, ma non contano per Della Seta che, evidentemente, come ex presidente di Legambiente pensa di aver il sacro diritto non solo al posto in Parlamento ma anche a fregiarsi del titolo di climatologo. Per lui quello che conta è il consenso dei governi (peraltro solo quelli occidentali) al Protocollo di Kyoto, come se la verità e la realtà potessero essere decise a colpi di maggioranza.

Eppure come si è visto anche recentemente a livello di Unione Europea, la voce dei 34 senatori firmatari della mozione non è isolata in Europa; e la prudenza del governo italiano sull’applicazione del pacchetto clima-energia ha raccolto a livello continentale molti più consensi di quanto Della Seta e compagni cerchino di far vedere. Ma non si preoccupino: le loro urla scomposte non riusciranno a tenere a lungo in piedi il muro della menzogna.


3 - DARWINISMO, L'ARIANESIMO DEL XX SECOLO

Autore: Roberto de Mattei - Fonte: 3 aprile 2009

Nella storia della Chiesa uno dei secoli più terribili fu il quarto, il secolo dell’arianesimo. L’Editto di Costantino del 313 aveva concesso libertà al Cristianesimo che rifioriva in tutte le regioni dell’Impero, quando esplose la prima grave crisi interna alla Chiesa, promossa dal presbitero Ario.
Ario minava alla radice il dogma centrale della nostra fede, affermando che il Verbo, seconda Persona della Santissima Trinità, non era uguale al Padre, ma creato da Lui, come termine medio tra Dio e l’uomo. Il Concilio di Nicea, riunitosi nel 325, condannò l’arianesimo, affermando che il Figlio di Dio, il Verbo, era “consustanziale” al Padre, uguale a Dio per sostanza e natura. L’arianesimo si diffuse però progressivamente e le tenebre dell’eresia calarono sul IV secolo. La fiaccola dell’ortodossia e della fedeltà alla Chiesa fu rappresentata da sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, che con la sua indomita resistenza all’arianesimo preservò dalla dissoluzione l’unità e l’integrità della fede cristiana.
Tra il “partito romano” di sant’Atanasio e quello degli ariani si fece strada però un “terzo partito”, quello dei “semi-ariani” che riconoscevano una certa analogia tra il Padre e il Figlio ma negavano che egli fosse «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre», come affermava con chiarezza il credo di Nicea che ancora oggi recitiamo nelle nostre chiese. I semi-ariani accusavano i “niceni” di voler rinchiudere il Cristianesimo in formule troppo rigide, come quella del “consustanziale”, e accusavano sant’Atanasio di fanatismo e di intolleranza, oggi diremmo di mancanza di “spirito di dialogo” verso gli ariani.
San’Atanasio fu duramente perseguitato dai suoi stessi confratelli e per ben cinque volte, tra il 336 e il 366, fu costretto ad abbandonare la città di cui era vescovo, passando lunghi anni di esilio e di strenue lotte in difesa della fede. Papa Benedetto XVI, il 24 luglio 2007, ha affermato che la situazione della Chiesa dopo il concilio di Nicea era quella di un caos totale, ricordando le parole di san Basilio, che paragona quest’epoca a una battaglia navale nella notte, dove nessuno conosce più l’altro, ma tutti sono contro tutti. Spuntò finalmente l’alba e i cristiani riconobbero come dogma di fede la divinità del Figlio di Dio, in tutta la sua pienezza. Il semi-arianesimo scomparve come dottrina teologica, ma sopravvisse come atteggiamento psicologico di compromesso e di “negoziazione” con i nemici della Chiesa.
Di fronte alla Rivoluzione Francese, il Cattolicesimo si divise in due fronti: gli “intransigenti”, sostenuti dai Sommi Pontefici del XIX secolo, come il Beato Pio IX, affermarono l’incompatibilità tra i principi della Chiesa e quelli della Rivoluzione; i “liberali”, o “moderati” accettarono come un fatto irreversibile le dottrine contrarie, sognando la “conciliazione” tra la Chiesa e il mondo moderno nato dalla Rivoluzione.
La tattica era quella della “scomposizione” del pensiero avversario, rifiutandone una parte, ma accettando il veleno dell’altra. Così i “semi-ariani” dell’Ottocento distinguevano tra due Rivoluzioni, quella “liberale” del 1789 e quella “giacobina” del 1793, affermando che non con la seconda, ma con la prima, il Cattolicesimo avrebbe potuto trovare l’accordo.
Lo stesso accadde nel secolo successivo di fronte al marxismo. Accanto ai cattolici anticomunisti che lo combattevano a viso aperto, si formò il partito dei “semi-ariani” che si proponevano di realizzare uno storico “compromesso” tra la Chiesa e il comunismo, distinguendo tra la filosofia materialistica di Marx, che rifiutavano, e la sua analisi socio-politica, che giudicavano conciliabile con il Cristianesimo. Oggi semi-ariani sono, ad esempio, i cattolici filo-evoluzionisti, che cercano di conciliare il Cristianesimo con la teoria dell’evoluzione, utilizzando la solita tattica della “scomposizione”.
L’evoluzionismo è un insieme composto da una ipotesi scientifica, conosciuta come “teoria dell’evoluzione” e da un sistema filosofico, che possiamo definire evoluzionismo in senso stretto, per distinguerlo dalla teoria dell’evoluzione.
La teoria scientifica si riferisce alla serie di trasformazioni che avrebbero portato la vita dell’universo da strutture primordiali a strutture sempre più complesse: l’evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale teorizzata da Darwin e dai suoi seguaci. La teoria filosofica è quella materialistica di un universo materiale in perenne mutamento secondo la formula della “trasformazione della quantità in qualità” elaborata da Friedrich Engels nella sua Dialettica della natura (1883). Teoria scientifica e teoria filosofica formano due aspetti distinti di un unico complesso, che hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere, e si sorreggono a vicenda.
 L’ipotesi scientifica, che non è mai stata dimostrata, si nutre del sistema filosofico; la tesi filosofica, per giustificarsi, si fonda a sua volta sulla presunta teoria scientifica. Malgrado molti evoluzionisti ammettano il fallimento del darwinismo, non mancano i cattolici che accettano come scientifica la teoria dell’evoluzione, pur respingendone le implicazioni filosofiche materialistiche. I semi-ariani del IV secolo negoziavano con l’Imperatore Romano di Oriente; i semi-ariani dei nostri giorni negoziano con il potere politico e mediatico contemporaneo.
Benedetto XVI, nel discorso citato del 24 luglio 2007, ha paragonato i tempi successivi al Concilio Vaticano II a quelli posteriori al Concilio di Nicea: una dura battaglia nella notte. Non a caso, l’ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini, scritto a “quattro mani” con padre Georg Sporschill è intitolato Conversazioni notturne a Gerusalemme (Milano, 2008): si tratta di un manifesto semi-ariano, dal punto di vista teologico e morale, in cui si tenta di conciliare l’inconciliabile e della notte si fa l’apologia affermando che essa «è un momento di oscurità, di immaginazione», in cui «i sensi si affinano».
Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di figure fulgide come sant’Atanasio che illuminino la notte e riconducano verso il porto sicuro dell’ortodossia la navicella di Pietro in balia delle onde e dei colpi che le provengono dall’interno più ancora che dal suo esterno.

Fonte: 3 aprile 2009

4 - OMOSESSUALI NON SI NASCE
Sono medico e curo i gay, la metà vuole cambiare
Autore: Andrea Morigi - Fonte: 15 marzo 2009

... Sfidare i pregiudizi sull’omosessualità è possibile,  perfino da una prospettiva insolita e dichiarata inaccettabile da parte dei movimenti gay.
Dal 1967, quando discusse la  sua tesi di laurea ad Amsterdam, lo psicologo olandese Gerard van den Aardweg mette in discussione la teoria che indica un’origine genetica dell’orientamento omosessuale. «Non c’è nulla di  innato, è soltanto disinformazione», spiega a Libero, «Dopo 15 anni di ricerche sui gemelli, monozigoti e no, non è stato dimostrato proprio nulla. Anzi, tutto indica il contrario, cioè che il contributo genetico all’omosessualità è pari a zero».
Van den Aardweg è in Italia per un corso organizzato da una decina di associazioni che propongono un’alternativa al coming out. Invece di seguire la teoria affermativa (“accettati per quello  che sei”), si dà una possibilità di cambiare. A chi vuole, si intende.
Eppure anche gli effetti della terapia  riparativa sono discussi. Perché  alcuni ritengono che sia addirittura  pericolosa?
«Non c’è nessun pericolo. Magari alcuni abbandonano la terapia per un motivo qualsiasi, poi vanno  in crisi per altre ragioni indipendenti e sprofondano di nuovo nel loro peccato».
Lo definisce peccato?
«Certo. È la conseguenza di un  complesso di inferiorità rispetto  alla propria mascolinità nel caso degli uomini o della propria femminilità  nel caso delle donne. Ma  è soprattutto una menzogna verso  se stessi. E il cattivo comportamento  sessuale che ne  deriva è peccato. E si  tratta di un sentire assolutamente  universale,  in tutte le società,  non soltanto  in quelle di tradizione giudeo-cristiana.  Anche nella cultura  cinese e in  quella africana  non è  considerato lecito. Ed è segno che il rifiuto  sociale dell’omosessualità deriva  dal senso comune».
Come mai in Occidente si fanno  tanti sforzi per rendere socialmente accettabile l’omosessualità, allora?
«È dagli anni Settanta che i movimenti gay hanno compreso che,  se si riesce a vendere l’idea dell’omosessualità innata, si può provocare un cambiamento sociale. Perciò cercano sempre nuove indicazioni che, puntualmente, dopo qualche anno sono smentite. Io le chiamo le “teorie della farfalla”, perché catturano l’attenzione dei media ma poco dopo muoiono».
Se i movimenti gay vogliono provocare  un cambiamento sociale, significa che hanno un progetto  politico?
«Sono il retroterra di un progetto più grande, come quello dei movimenti anti-famiglia e anti-natalista, che hanno ottenuto successi politici riuscendo per esempio a convincere gli Stati a sostenere i programmi di sterilizzazione. La normalizzazione dell’omosessualità si innesta in questa tendenza: se si riescono a crescere generazioni convinte che l’omosessualità sia accettabile, si avranno anche nuove risorse per combattere la guerra psicologica e di propaganda che condurrà a una drastica diminuzione del tasso di natalità. Da soli, i movimenti gay non avrebbero avuto la forza di affermarsi, perché non hanno il consenso della popolazione. Perciò cercano, e in parte vi sono riusciti, di deviare l’opinione pubblica con la loro propaganda».
Quali argomenti utilizza per contrastare quella propaganda?
«Semplicemente la diffusione di informazioni veritiere e la promozione di relazioni familiari e matrimoni migliori. Questo mi pare il momento buono. Nei Paesi Bassi si avverte già una saturazione crescente riguardo alla propaganda gay, un’ideologia che ha esagerato. Era molto più influente trent’anni fa, quando se ci si dichiarava omosessuali si era oggetto di una discriminazione positiva e si ottenevano i posti di lavoro migliori. Ora si assiste a una certa, lieve, controtendenza. Il ministro della Sanità olandese, pur essendo di sinistra, ha concesso sussidi triennali a gruppi di ex-gay che aiutano le persone a orientarsi nella direzione giusta. Potrebbe rappresentare un inizio per chi è davvero discriminato».
Chi intende?
«Coloro che soffrono da soli e in silenzio, quel 50 x cento di giovani che scoprono di avere quel tipo di sentimenti, ma non vogliono precipitare nella vita omosessuale. Vorrebbero cambiare, ma intorno a loro tutto sembra renderglielo impossibile, perché i gruppi militanti e i politici li discriminano».
Anche grazie alle leggi anti-discriminatorie? Pensa che restringano gli spazi della libertà di opinione?
«Certo che li restringono. Creano difficoltà concrete in alcune professioni per chi non accetta le parole d’ordine pro-gay. Ormai è come ai tempi del nazismo: chi era contro le leggi razziali veniva isolato».

Fonte: 15 marzo 2009

5 - KATYN 1
Le scomode verità del grande regista Wajda
Autore: Roberto Persico e Annalia Guglielmi - Fonte: Tempi, 23 Febbraio 2009

È appena tornato da Berlino, dove il suo Tatarak ha vinto il premio speciale della giuria per un’opera che «apre all’arte cinematografica nuove prospettive». «Pensi – dice sorridendo all’inviato di Tempi nei suoi studi a Varsavia – che il riconoscimento lo hanno dato ex-aequo a me e a un regista argentino poco più che trentenne al suo primo film». Lui, Andrzej Wajda, di anni ne ha ottantatré, e di regie alle spalle ne conta oltre tre dozzine. Ma ha ancora l’entusiasmo di un giovanotto e il gusto di usare la macchina da presa per continuare a raccontare le gioie e i dolori della vita, oggi come trent’anni fa, quando opere come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e Danton filtravano attraverso la cappa di piombo del socialismo reale e facevano sentire anche in Occidente la voce di un uomo libero, che non ha mai rinunciato a guardare la realtà coi suoi occhi rifiutando le lenti deformanti dell’ideologia. L’arrivo nelle sale italiane, dopo lunghe peripezie, di Katyn, il film sull’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi, è l’occasione per incontrare Wajda e parlare con lui di cinema. E di molto altro.
Andrzej Wajda, cominciamo dalla pellicola che sta riproponendo il suo nome in Italia. Da dove nasce l’idea di fare un film sul massacro di Katyn?
Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell’esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c’era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattuto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche.
Che cosa ha voluto dire allora per lei girare un film come questo?
Ho sempre avuto in mente che un film su Katyn avrei potuto e dovuto farlo io: farlo ha voluto dire saldare un debito con mio padre e mia madre, far conoscere a tutti l’eccidio compiuto sugli uomini e la menzogna perpetrata nei confronti delle loro donne.
Ci risulta, però, che l’opera abbia avuto qualche “problema di circolazione”. È vero?
Guardi, in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, posso dire di essere soddisfatto. Del resto era un’opera che la gente aspettava da sessant’anni. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla televisione di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Distribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che «l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche». Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune. Il caso più clamoroso, comunque, è quello della Russia.
Per quali ragioni?
Perché in Russia, ancora oggi, Stalin è amato. Compare ancora in cima alle classifiche dei personaggi più popolari. Si sa che ha ucciso decine di milioni di persone, eppure molti russi ritengono ancora che lo abbia fatto per il bene del suo paese. Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Pensi che gli organizzatori della Settimana del cinema polacco, in Ucraina, a Kiev e Charków (mi stava a cuore soprattutto questa proiezione, perché proprio in quella città fu ucciso mio padre nella primavera del 1940 e là è sepolto), si sono visti recapitare una una lettera della Televisione Polacca di questo tenore: «Telewizja Polska – l’unico e solo titolare dei diritti di distribuzione del film – non è a conoscenza di NESSUNA proiezione di Katyn in programma per la Settimana del cinema polacco in Ucraina. Per favore, abbiate la cortesia di ritirare il titolo dalle vostre programmazioni, e di comunicarci nome e contatti della persona o dell’organizzazione che vi ha fornito i diritti per la proiezione». Un tono piuttosto minaccioso, non le pare?
Chi si oppone alla circolazione di Katyn? Gli stessi che hanno pilotato il processo che ha portato alla scandalosa assoluzione degli assassini di Anna Politkowskaya?
Non ho ancora fatto in tempo a valutare fino in fondo la notizia a cui ha accennato. Però certo mi fa impressione che in un paese che pretende di essere democratico ritornino gli assassinii politici, come ai tempi della dittatura. È un fatto che non può non preoccupare vivamente.
In Italia qualcuno dice che Katyn sarà un flop perché non interessa, è una storia datata. Perché riproporla adesso che il comunismo è finito da vent’anni?
In Polonia il perché è chiarissimo: perché non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine. I tedeschi hanno compiuto crimini peggiori, ma i loro governanti lo hanno riconosciuto, e ora i nostri rapporti con la Germania non sono più avvelenati dal rancore. Non ci può essere amicizia fra due popoli se non si riconoscono i torti commessi.
Le sue opere sono state armi importanti per la lotta dei polacchi contro il regime. Come giudica il mondo che da quella lotta è nato, la Polonia e l’Europa di oggi?
Non solo i miei film, ma tutto il cinema polacco ha sempre fatto di tutto per costruire un ponte con l’Occidente. La Polonia è parte dell’Europa, i polacchi si sono sempre sentiti occidentali. Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche. Dove c’è una chiesa gotica vuol dire che è arrivata non solo la religione cattolica, ma la civiltà mediterranea. Noi polacchi, pur con tutti gli ostacoli, le difficoltà che abbiamo incontrato nella storia, apparteniamo pienamente a questa cultura, a questa civiltà.

Fonte: Tempi, 23 Febbraio 2009

6 - KATYN 2
Lo sterminio (censurato) di oltre 25 mila polacchi da parte dei sovietici
Fonte Corriere della Sera, 23 Febbraio 2009

«Perdonateci, se potete»: fu con queste parole che nel 1992 il presidente russo Boris Eltsin consegnò alla Polonia i documenti che attestavano la piena responsabilità dell’Unione Sovietica nel massacro di Katyn, cioè nello sterminio di oltre 25 mila prigionieri polacchi avvenuto nel 1940. Si chiudeva così una lunghissima vicenda, intessuta di falsificazioni e opposte verità, che viene ora ricostruita da Victor Zaslavsky in un libro che presenta molti motivi di interesse. Anzitutto, se l’eccidio di Katyn non fu che uno dei tanti crimini del regime sovietico, è anche vero - come giustamente osserva Zaslavsky - che esso riflette un carattere della dittatura staliniana che è stato a lungo imbarazzante riconoscere, per i vertici dell’Urss ma anche per una parte della cultura occidentale: vale a dire certe affinità che collegavano il regime stesso all’altro grande totalitarismo dell’epoca, quello nazista. Il massacro, infatti, doveva servire ad eliminare una parte cospicua dell’élite polacca (nella vita civile quegli ufficiali erano professionisti, giornalisti, professori universitari) nel quadro di una spartizione della Polonia tra Germania e Urss già prevista dal patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939.
Un patto che Stalin considerava non solo un trattato di non aggressione, ma una vera e propria alleanza: nel 1940 il dittatore sovietico giunse a chiedere a Hitler di poter aderire al Patto tripartito che legava Germania, Italia, e Giappone. È appunto una tale complicità con il nazionalsocialismo, precedente il repentino mutamento di fronte provocato dall’attacco tedesco del giugno 1941, che viene richiamata dal massacro di Katyn. Di particolare interesse è la lunga disputa sulle responsabilità della strage, iniziata fin da quando le truppe germaniche, nell’aprile 1943, informarono il mondo del ritrovamento nella zona di Katyn dei corpi di migliaia di ufficiali polacchi che risultavano fucilati tre anni prima, ciò che incolpava necessariamente i sovietici. Da allora l’Urss si impegnò per accreditare a costo di qualunque manipolazione la versione opposta. Rioccupata che ebbero la zona, i sovietici costituirono una commissione compiacente che spostò in avanti la data di morte delle migliaia di cadaveri, così da collocarla nel periodo dell’occupazione tedesca. Terminata la guerra, l’Urss cercò, anche se senza successo, di far accreditare la strage come nazista dal tribunale di Norimberga, non arrestandosi di fronte a nulla, neppure all’assassinio di uno dei giudici russi, che appariva restio ad avallare la falsificazione. Tentò anche di intimidire i medici che avevano fatto parte della commissione internazionale costituita nel 1943 dalla Germania e avevano accertato la responsabilità dell’Urss. In Italia, nel 1948, fu il Pci che organizzò su incarico dei sovietici una pesante contestazione di un membro di quella commissione, il professor Vincenzo Palmieri, che venne accusato d’essere stato un «servo dei nazisti».
Tutt’altro che irrilevante fu la disponibilità di Stati Uniti e Gran Bretagna ad accettare la versione sovietica. Finché il conflitto era in corso, appariva inevitabile che gli angloamericani accantonassero la questione di Katyn, «di nessuna importanza pratica» come con cinico realismo dichiarò Winston Churchill. Ciò che appare sorprendente, semmai, è che gli inglesi abbiano continuato a fingere di non conoscere la verità addirittura fino al 1989. Gli Stati Uniti invece, terminata la guerra, accolsero le conclusioni di una commissione del Congresso di Washington che aveva verificato l’esistenza di prove «definitive e inequivocabili» della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn. Gran parte dell’opinione pubblica europea seguì per decenni più la posizione ufficiale inglese che quella americana, sostenendo dunque che la questione della responsabilità rimaneva controversa.
Proprio la disponibilità dell’opinione pubblica occidentale ad accogliere una versione palesemente infondata, scrive Zaslavsky, è stata una delle cause della pervicace ostinazione con cui l’Urss ha continuato anno dopo anno a sostenere il falso. Fino, ed è la parte più incredibile di tutta la vicenda, all’inventore stesso della glasnost (che in russo vuol dire «trasparenza»), Mikhail Gorbaciov. Se non ci trovassimo di fronte all’occultamento di un crimine, verrebbe da dire che in epoca gorbacioviana la lunga storia delle omissioni e falsificazioni attorno a Katyn assunse perfino aspetti farseschi.
Nel 1987 Gorbaciov accettò la costituzione di una commissione storica polacco-sovietica, continuando però a dichiarare che i documenti originali riguardanti Katyn non si riusciva a trovarli. A quell’epoca il leader sovietico era invece una delle tre persone che ne conoscevano l’esistenza. Nell’ottobre 1990 porse le scuse ufficiali del suo Paese ai polacchi, continuando però a sostenere che i documenti cruciali - il testo del patto tra Stalin e Hitler e l’ordine del marzo 1940 con il quale il Politburo ordinava che si fucilassero 25 mila polacchi senza neppure avanzare contro di loro un capo di imputazione - non si sapeva dove fossero.
Conclusasi ai tempi di Eltsin, la vicenda sembra aver avuto di recente un’appendice che getta una luce non proprio rassicurante sul modo in cui la Russia di oggi guarda al passato, ma dunque anche al proprio ruolo presente e futuro. Apprendiamo infatti dal libro di Zaslavsky che nel 2004 la procura militare della Federazione russa ha deliberato di porre il segreto di Stato su una cospicua parte dei documenti che aveva raccolto sul massacro di Katyn. Una decisione evidentemente surreale, poiché lo Stato che un tale «segreto» dovrebbe proteggere, l’Urss, da tempo non esiste più. Ma anche una decisione che conferma la tendenza dell’attuale presidente della Russia, Vladimir Putin, a collocare il suo Paese lungo una linea di ideale continuità - in chiave di esaltazione della potenza russa - con tutta la storia precedente, dall’impero zarista all’espansionismo staliniano.

Fonte: Corriere della Sera, 23 Febbraio 2009

7 - IN DIFESA DEL VINO
Per salvare questa delizia della creazione, segno della civiltà cristiana
Autore: Antonio Socci - Fonte: 4 aprile 2009

Pare che i politici abbiano individuato la crociata di cui l’Italia di oggi ha bisogno: quella contro il vino. Sì. Siamo in piena crisi economica, inondati di cocaina (specie nei quartieri alti) e altre sozzerie (nei bassifondi), siamo rincoglioniti dai rumori, dai media, nevrastenici e pieni di ossessioni, ansie e paure, ci riempiamo di psicofarmaci, ma il Nemico è diventato lui: il frutto della vite.
E il Parlamento pare stia per dichiarare guerra al vino. Non ai superalcolici – come qualcuno sostiene – ma proprio al vino perché il tasso alcolico imposto per legge a chi guida l’automobile non è tarato sul superalcolico bevuto al pub o in discoteca, ma sul bicchiere di vino bevuto a cena. Tanto che, dopo aver già fissato un limite estremo come lo 0,5 g/litro, assurdo e proibitivo, ora si sta tentando addirittura di imporre lo 0,2 e il “tasso zero”. Dunque guerra totale al vino. Tolleranza zero.
Poco importa, a questi legislatori, che, secondo le statistiche, gli incidenti stradali provocati da abuso di alcol siano una percentuale piccolissima. Stando ai dati Aci-Istat nel 2007 si sono avuti 230.871 incidenti, con 5.131 morti e 325.850 feriti. Ebbene il 93,5 per cento di tali incidenti sono stati provocati da errori di guida (come il non rispetto della precedenza, la guida distratta e la velocità). La voce “stato psico-fisico alterato del guidatore” incide solo per il 3,1 per cento dei casi e comprende l’assunzione di sostanze stupefacenti, il malore, il sonno e infine l’ebbrezza dal alcol. Ciò significa che appena il 2 per cento dei casi è addebitabile a chi ha alzato troppo il gomito e si tratta quasi sempre di superalcolici e di alcolisti veri e propri, non certo del consumo normale e abituale del vino nel corso dei pasti. Dunque il vino (il vino che fa parte della nostra civiltà e della nostra cultura) è pressoché irrilevante fra le cause di incidenti. E’ insomma innocente. Eppure è proprio contro il vino che si bandisce la crociata. Dimenticando, per fare un esempio, che il 5,5 per cento degli incidenti sono provocati dalle pessime condizioni della strada e il doppio dall’uso del cellulare senza auricolare. Ma questo non suscita impressione nel Palazzo.
Il limite attuale, lo 0,5 g/litro, dicevamo, è già proibitivo. Basta cenare assaggiando due bicchieri di vino e si è fuorilegge. Praticamente, ha lamentato ieri il ministro Zaia, questa norma “ha fatto sparire le ordinazioni al ristorante di vini da dessert e produzioni come le grappe”.
Stando così le cose non si capisce per quale misterioso motivo in Parlamento si sta tentando di portare quel limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo zero assoluto. Perché? Risulta forse agli onorevoli legislatori che lo 0,5 si sia rivelato insufficiente e che siano accaduti una quantità di terribili incidenti provocati da gente che aveva un tasso alcolico nel sangue compreso fra lo 0,5 e lo 0, ovvero gente che a cena aveva bevuto appena un bicchiere di vino? No. E’ una casistica inesistente. Ma allora che senso ha abbassare il limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo 0 assoluto? Nessun senso. E nessuna efficacia. Come il drastico 0,5 non ha avuto alcuna efficacia nella prevenzione degli incidenti, non l’avrà nemmeno il suo inasprimento.
In compenso però assesterà un colpo micidiale alla nostra produzione vitivinicola, già provatissima da queste normative e dalla crisi economica che si sta facendo sentire nel settore. Si deve infatti sapere che l’Italia è fra i maggiori produttori europei e mondiali di vino. Ha un’offerta di altissima qualità con 477 vini Doc e Docg (il settore agricolo, che ha un milione di imprese, produce nel suo insieme un valore di 45 miliardi di euro l’anno, secondo solo al comparto manifatturiero).
La crescita della qualità del vino, a scapito della quantità, in Italia è andata di pari passo con una crescita culturale. Infatti il consumo di vino pro capite è passato dagli antichi 120 litri agli attuali 45. Perché cento anni fa il vino, di qualità bassa, era tracannato, un po’ per stordirsi, così come oggi una gioventù ignara del senso della vita ricorre alle droghe o ai superalcolici o al chiasso delle discoteche per lenire la disperazione e la solitudine.
Oggi invece la nostra gente ha imparato a gustare il vino cercando la qualità del sapore e non la quantità che riempie la pancia. Un giorno sentii dire da un vero maestro di vita, don Luigi Giussani, che il vino non si beve per sete, ma per gusto, per assaporare la bontà della creazione. Infatti è fiorita una vera cultura del vino e un’educazione al gusto. Corsi, guide, enoteche. Degustazioni spesso associate alla musica e alla letteratura. O ai prodotti tipici. Oltretutto la produzione vitivinicola è anche quella che, da secoli, ha dato forma e bellezza alle nostre campagne – penso in particolare alla Toscana – e fa letteralmente parte del paesaggio come le pievi romaniche, i borghi, i casolari e le città turrite. Ha quindi una ricaduta anche nel turismo.
Michele Satta, bravissimo produttore della zona di Bolgheri, che esporta i suoi fantastici vini anche in America, in Cina e in Australia, vede in questa assurda mentalità non solo un suicidio economico, ma anche un suicidio culturale: “si va verso una vera e propria criminalizzazione del vino e del suo consumo. E’ una regressione culturale che azzera millenni di civiltà senza alcun motivo fondato, senza alcuna ragione”.
In effetti di questo passo si rischia di considerare il vino, che è una ricchezza culturale ed economica, alla stregua di un vizio, come il fumo. O peggio alla stregua delle sostanze allucinogene. Si finirà per considerare le nostre belle vigne variopinte quasi come le piantagioni di oppio dell’Afghanistan? Vogliamo sperare proprio di no (il Parlamento ascolti ministro Zaia).
Il vino ha accompagnato letteralmente la civiltà umana, tanto che la Bibbia (Gen. 9, 20-27) fa risalire la scoperta del processo di lavorazione del vino addirittura a Noè. Il nome stesso, “vino”, pare venga dal verbo sanscrito “vena”, che significa “amare” da cui infatti proverrebbe anche il nome latino della dèa dell’amore, Venere. Il vino fa parte della civiltà ebraica, greca e romana e la sua gaia bontà tracima nella letteratura di tutti i tempi.
Ma soprattutto ha assunto un significato sacro nella storia cristiana. Il primo miracolo di Gesù, registrato nei Vangeli, è quello del vino alle nozze di Cana. Il vino è il segno di quella convivialità fraterna e festosa del banchetto a cui Gesù stesso ha paragonato addirittura il segno dei Cieli. Il vino fu poi al centro di quella drammatica “ultima cena” nella quale egli istituì il sacramento della sua presenza tangibile nella storia: “sarò sempre fra voi, fino alla fine dei tempi”. I segni scelti da Gesù furono proprio il vino e il pane, segno del suo darsi in pasto e bevanda agli uomini per abbracciarli, sostenerli, salvarli e divinizzarli.
La millenaria liturgia della Chiesa in qualche modo ha una sua mistica espansione nelle nostre campagne dove in giugno si alterna l’oro dei campi di grano al verde dei filari di vite, come se la terra stessa, fecondata dal lavoro umano, celebrasse l’offerta del cosmo intero a Dio, nei segni eucaristici del pane e del vino.
Benedetto XVI ha detto una volta: “Il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell'amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino”.
Devo questa citazione a Michele Satta che peraltro – lavorando nelle terre del Carducci – espone nel suo sito anche i versi del poeta mangiapreti, dimostrando che i filari di vite mettono d’accordo tutti: “Della natura tua, forte e cortese,/l'ombra restò nel memore pensiero,/ come il tuo vino, o mio dolce paese,/ il mio verso fervea gentile e austero”.

Fonte: 4 aprile 2009

8 - QUANDO GRAMSCI PROFETIZZÒ IL SUICIDIO DEI CATTOCOMUNISTI

Autore: Antonio Gaspari - Fonte: 17 marzo 2009

L'aspetto più paradossale della politica italiana ed anche di quella europea e statunitense è il caparbio impegno e la militanza di cattolici nelle file di formazioni post-comuniste. Nonostante l'evidente contrasto che certe formazioni politiche manifestano contro quelli che il Pontefice Benedetto XVI ha indicato come valori non negoziabili, cioè difesa della dignità delle persone dal concepimento alla morte naturale, sostegno e riconoscimento della famiglia naturale e libertà di educazione, i politici che si definiscono cattolici continuano a militare, sostenere e addirittura dirigere formazioni politiche come il Partito Democratico.
L'evidente contraddizione si era apertamente manifestata già in occasione delle primarie del Pd, quando suore, preti, dirigenti di associazioni cattoliche e addirittura un vescovo avevano in maniera pubblica sostenuto e appoggiato la nomina di Walter Veltroni. Quel Veltroni che, tra le altre cose, in un libro dal titolo Forse Dio è malato, pubblicato in prima edizione nel 2000, aveva chiesto che la Chiesa cattolica distribuisse contraccettivi abortivi e profilattici nei paesi poveri. Quel Veltroni che aveva speso milioni di euro per organizzare un concerto mondiale per ridurre il debito dei paesi poveri, ma che non aveva destinato neanche un euro per sostenere i progetti di aiuto concreto e mirato portato avanti da missionari e associazioni di volontariato. In occasione delle primarie del Pd, monsignor Giuseppe Betori, allora Segretario Generale della Conferenza Episcopale italiana (Cei) espresse il suo non gradimento per le suorine che erano andate a votare, e osservò di non «esaltare oltre misura l'affluenza alle primarie» perché «esiste ancora l'apparato dell'ex Pci, poi Pds e ora Ds e se i militanti sono chiamati, rispondono come un tempo» (Il Giornale, mercoledì 17 ottobre 2007).
La sensibilità utopistica dei cattolici che hanno militato e che sostengono i partiti postcomunisti è una contraddizione che la Chiesa conosce da tempo. Non è un caso che il 1° luglio del 1949 la Congregazione del Sant'Uffizio pubblicò un Decreto conosciuto come «scomunica ai comunisti», con cui la Chiesa cattolica prendeva esplicitamente le distanze dall'ideologia comunista. Da allora, secondo il diritto canonico, i cristiani che professano, difendono e propagano la dottrina comunista si trovano ipso facto in situazione di scomunica, perché aderendo ad una filosofia materialistica e anticristiana sono diventati apostati. In quella dichiarazione è scritto che «fa peccato mortale e non può essere assolto: chi è iscritto al Partito Comunista. Chi ne fa propaganda in qualsiasi modo. Chi vota per esso e per i suoi candidati. Chi scrive, legge e diffonde la stampa comunista. Chi rimane nelle organizzazioni comuniste: Camera del Lavoro, Federterra, Fronte della Gioventù, CGIL, UDI, API, ecc...». Il Decreto precisa che: «È scomunicato e apostata chi, iscritto al Partito Comunista, ne accetta la dottrina atea e anticristiana; chi la difende e chi la diffonde. Queste sanzioni sono estese anche a quei partiti che fanno causa comune con il comunismo». (Decreto del Sant'Uffizio - 28 giugno 1949).
La stessa Congregazione del Sant'Uffizio pubblicò dieci anni più tardi, il 4 aprile 1959, quando Pontefice era il beato Giovanni XXIII, il documento un Dubium, con lo scopo di chiarire il senso e la portata del precedente decreto, aggiornandolo alle mutate condizioni politiche. E' scritto nel documento in questione: «È stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione se sia lecito ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano (25 marzo 1959)». I cardinali preposti alla tutela della fede e della morale risposero decretando: «Negativo, a norma del Decreto del Sant'Uffizio del 1/7/1949, numero 1». Cioè la scomunica era ancora in vigore. Il giorno 2 aprile dello stesso anno il Papa Giovanni XXIII, nell'udienza al Pro-Segretario del Santo Ufficio, «ha approvato la decisone dei Padri e ha ordinato di pubblicarla».
Ma non è stata solo la Congregazione del Sant'Ufficio a comprendere quanto deleteria sarebbe stata per i cattolici l'alleanza con i comunisti. Uno dei primi a comprendere l'utilità dei cattolici nelle file delle formazioni comuniste ed a decretarne il suicidio fu proprio uno dei fondatori del PCI: Antonio Gramsci. Già nel 1919 Gramsci scrisse: «Il cattolicesimo democratico fa quello che il socialismo non potrebbe fare: amalgama, ordina, vivifica e si suicida... Non vorranno più Pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio» (A. Gramsci: Ordine Nuovo 1919-20, Cap. 86 pag. 273). E' impressionante constatare come Gramsci avesse già descritto in maniera precisa il profilo dei «cattolici adulti» e come ne avesse profetizzato la fine. Alla luce di questi documenti, vuoi vedere che anche questa volta ha ragione Silvio Berlusconi quando dice che Dario Franceschini, nuovo segretario del Pd, è un cattocomunista?

Fonte: 17 marzo 2009

9 - UNA STORIA CHE TOCCA TUTTI NOI
Ecco perche' non possiamo dimenticare Eluana
Autore: Claudio Mésoniat - Fonte: 12 febbraio 2009

La vita e la morte di Eluana ci riguardano tutti, non perché siamo cattolici o non cattolici, ma perché siamo uomini. A metterla sotto i riflettori dei media e a farla diventare oggetto di scontro politico non è stato chi è a favore della vita (come le suore misericordine di Lecco che hanno accudito Eluana come una figlia per tanti anni, dopo che la madre si era gravemente ammalata), ma chi ha voluto farne l'emblema e la testa di ponte per un cambiamento delle leggi in senso eutanasico. Ma da allora è diventata una questione di civiltà che ci riguarda profondamente. Per questo il nostro giornale se ne è occupato con passione e per questo la sua morte non chiude la riflessione, anzi ci sprona a continuarla, non solo e non tanto per aggiungere note di indignazione e di sconcerto per le modalità e le conseguenze di questa sentenza di morte eseguita senza spazio per moratorie di alcun genere, quanto piuttosto per documentare come la vita, anche la più fragile e difficile, possa essere piena di significato. Qualche idea già l'abbiamo, ma ne riparleremo. Ora ci tocca tornare su alcuni “buchi neri” di questa vicenda. Prima di tutto la questione del dubbio. Molti, a partire dal medico che ha presieduto allo spegnimento di Eluana, hanno detto e ripetuto che la ragazza «era morta 17 anni fa» e che quel che sopravviveva era «il suo corpo, non la sua persona». Ma lo stato vegetativo permanente in cui si trovava la Englaro non è la morte cerebrale -bisogna continuamente ripeterlo- e la scienza medica nutre dubbi sia sulla reversibilità di questo stato sia sul tipo e sul grado di coscienza e sulla percezione del dolore da parte di queste persone disabili. Ma dov'è finita la “cultura del dubbio”? Se c'era il dubbio come si poteva sentenziare che Eluana non avrebbe «sentito né capito nulla» perché era «un corpo non una persona»? Eluana in realtà era una persona disabile, che conservava tutte le sue funzioni vitali (compresa la fertilità!): solo doveva dipendere dagli altri per bere e per mangiare, così come accade per un bambino piccolo. Vogliamo tornare alle civiltà di oltre duemila anni fa, quando il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli? Un'altra questione: da quindici anni un gruppo di intellettuali ha usato il dramma di Eluana per arrivare alla «rottura dell'incantesimo della sacralità della vita», come ha scritto lunedì su “L'Unità” il bioeticista Maurizio Mori, salutando la morte della ragazza come «qualcosa di analogo alla breccia di Porta Pia». Questo, solo questo, è stato il vero “sciacallaggio” sul corpo di Eluana. Un altro bioeticista, l'americano Wesley Smith (laico e di sinistra), ha affermato che rimuovere acqua e cibo a un paziente profondamente disabile significa attraversare il confine che può condurre i medici a stravolgere la medicina ippocratica del “non uccidere”. Stiamo esagerando? L'eventualità è lontana? «Avviene in Olanda da trent'anni», ha aggiunto Wesley, dove «i bambini nati con disabilità e i malati terminali vengono messi a morte dai propri medici» (l'eutanasia in Olanda è legge). D'altra parte, non è forse lo stesso Mori che ha scritto in un libro su Eluana che il caso Englaro «è importante per il suo significato simbolico», in vista di «abbattere una concezione dell'umanità e cambiare l'idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell'ippocraticismo e anche prima nella visione dell'“homo religiosus”, per affermarne una nuova da costruire». Non so a voi, ma a chi scrive sono progetti che mettono i brividi, e uno dei meriti di Eluana è di averli fatti venire a galla e di costringerci a guardarli in faccia. Un'ultima considerazione è sul padre di Eluana, Beppino Englaro. Resto convinto che cercando lumi nella compagnia di quelle suore misericordine che amavano Eluana anche nella sua terribile condizione, piuttosto che nella compagnia dei Mori e dei Pannella, avrebbe potuto tentare di sostenere questa grande prova, anziché cercare di eliminarla. Ma qualcosa di grande va riconosciuto in un uomo che, dopo l'incidente che ferì la figlia, non ha più tolto lo sguardo da quel mistero di dolore e di assurdità, senza accettare nessuna distrazione dal perseguimento dell'obiettivo di cancellarlo in qualche modo, a tutti costi. E mi ha colpito quel che ha detto Enzo Jannacci (il cantautore, da noi riportato sabato sul giornale): «ci vorrebbe una carezza del Nazareno, avremmo così tanto bisogno di una sua carezza»; e ancor più, mi ha colpito, che su un volantino di cattolici quella carezza sia stata accostata a ciò che il Nazareno duemila anni fa, lui stesso con le lacrime agli occhi, disse a una vedova che aveva appena perso il figlio: «Donna non piangere!». E oggi, lo ripete (vorremmo ripeterlo) a Beppino Englaro.

Fonte: 12 febbraio 2009

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