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BastaBugie n.65 del 16 gennaio 2009

L'ABITO FA IL MONACO

di Rino Cammilleri

«Viviamo in un'epoca in cui qualsiasi gruppo etnico, qualsiasi minoranza, anche la più piccola, rivendica la propria identità e cerca di esporla (mi si passi l'esempio: avete visto al famoso “gay pride” come sono vestiti -o svestiti- quelli di questa minoranza che in tal modo afferma la propria identità; la parola che viene usata è pride, orgoglio).
C’è chi fa battaglie legali per avere il diritto di mettersi il burqua a scuola. Anche le commesse dei McDonald hanno una divisa. Per non parlare delle categorie professionali classiche: i medici, gli infermieri, i volontari dell'ambulanza, i magistrati (francamente, venire condannato da un giudice in jeans e maglietta mi spiacerebbe: la maestà della legge la voglio vedere cogli occhi). Tutti, insomma, cercano con un segno esterno per essere identificabili. Viviamo nella società dell'immagine, oggi l'immagine è tutto.
Giovanni Paolo II proprio grazie alla sua mediaticità ha ereditato, nel 1978, una Chiesa che in credibilità e autorevolezza era quasi a zero ed è riuscito a portarla dove abbiamo visto. Aveva perfettamente capito che oggi conta poco affidarsi ai mezzi classici: il discorso, la stampa, il convegno, la tavola rotonda, eccetera. Ebbene, i soli che in quest’epoca non tengono alla loro immagine sono gli uomini del clero. Sì, in tempi di ghigliottine era consigliabile travestirsi. Ma oggi non si rischia la pelle, si rischiano tutt’al più fastidi; che so, passi per una strada in cui ci sono giovinastri ideologicamente orientati che ti dileggiano. Oppure puoi venire assillato da mendicanti particolarmente petulanti o da qualche psicolabile. Tutte cose che, però, vanno solo sotto la voce “fastidi”. Ma se temevi tanto i fastidi, perché ti sei fatto prete? L’abito ecclesiastico è una predicazione muta. E lo è in un tempo affamato di segni. Se sono in strada nottetempo, ma vedo in giro dei poliziotti, sono più tranquillo. La loro divisa serve proprio a rasserenare gli onesti e a diffidare i malintenzionati. Certo, il poliziotto talvolta si traveste per esercitare meglio la sua attività; ma questo non vale per il prete: il poliziotto deve cercare i cattivi, invece il sacerdote dovrebbe avere tutto l'interesse a farsi riconoscere dai buoni. Mi rendo perfettamente conto che in un'epoca in cui il cattolicesimo non è particolarmente à la page si possa avere un certo imbarazzo, una certa esitazione, un certo timore a manifestare la propria appartenenza al clero. Ma si tratta di timorucci umani. Ed è singolare che debbano essere i laici a tirare i preti per i jeans e dire loro: rendetevi visibili.
Ai miei tempi quando uno buttava la tonaca alle ortiche si diceva: quello si è spogliato. Oggi, paradossalmente, sono i sospesi a divinis a tenerci di più, all'abito: quelli che per coerenza dovrebbero levarselo se ne fanno vanto; quelli in regola, si mettono in borghese “per essere come gli altri”. Ma non chiedono mai agli “altri” come vorrebbero che fossero; sarebbe invece democratico fare un referendum per chiedere alla gente come vuole che sia il prete. Si scoprirebbe, al contrario, che la gente non vuole affatto che il prete sia “come gli altri”, perché un punto di riferimento deve essere diverso per forza.
Immaginate una boa salvagente dipinta d’azzurro come le onde. Non la distinguo e annego. Padre Pio, quando sentiva di novizi che non volevano mettersi il saio, sbottava: “Cacciateli immediatamente. Ecchè, sono forse loro a fare un piacere a San Francesco?”. Pio XII ricevendo in udienza gli operatori della moda esordì con questa stupenda frase: “Da come uno si veste si capisce che cosa sogna”. L'abito non fa il monaco (dicevano nel Medioevo, perché le università erano corpi ecclesiastici: gli studenti portavano l'abito clericale e ciò li sottraeva alla legislazione civile).
È vero, ma un buon monaco se lo mette, anche perché non ha alcun motivo per toglierselo. Il problema dell'ostilità odierna all'abito è anche di natura psicologica. C'è questo sordo muro di gomma, una resistenza passiva che l'ex cardinale Ratzinger, attualmente Benedetto XVI, conosce perfettamente. Non vorrei essere nei suoi panni, perché non so come possa risolvere la questione. Già: la Chiesa non può imporsi ai suoi uomini con la forza. Ma la logica è dalla sua parte.
E' ridicolo iscriversi al club del bridge per poi pretendere di giocare a scopone perché le regole del bridge non mi piacciono. Tuttavia, i cosiddetti dissenzienti all'interno della Chiesa, visto che l'Inquisizione non c'è più, usano il sistema dell'orecchio da mercante. Da questo papa, sapendo chi era, molti temevano una restaurazione. Ciò è interessante, perché quando si teme la restaurazione vuol dire che si ama la rivoluzione. Ma "restaurare", da vocabolario, è prendere un capolavoro rovinato dal tempo e dalla stupidità e riportarlo al suo antico splendore. Guardate che questa storia dell'abito che non fa il monaco ha a che fare con l'eresia.
Nel Medioevo c'erano gli eretici “Fratelli del Libero Spirito”, detti anche turlupins (da cui turlupinare), che si consideravano al di sopra del peccato (infatti erano condannati anche dai protestanti: Calvino scrisse addirittura un trattato contro di loro) e si permettevano ogni trasgressione. Tra cui il travestimento. Nel Medioevo, non essendoci tessere professionali e d’identità, l'abito era il segno della propria appartenenza (Dante Alighieri è sempre ritratto vestito di rosso perché faceva parte della corporazione degli Speziali: se voleva essere riconosciuto come iscritto, e quindi avere tutte le facilitazioni e i privilegi che la corporazione garantiva agli appartenenti, doveva mostrarsi tale).
I turlupins, invece, a volte vestivano sfarzosamente, a volte di stracci, a volte da mendicanti, a volte con l'abito di una corporazione cui non appartenevano. Per questo “turlupinavano”. Stiamo ora assistendo ad un'eresia strisciante che nessuno osa più chiamare col suo nome. Non ha contorni nitidi ma si manifesta in comportamenti. L'eresia dei nostri tempi è questo demi-christianisme molto “fai da te”, con dentro tutto quello che uno vuole. Infatti, viviamo una crisi non di strutture o di comando ma di fede. Per concludere. Quando si comincia a tirar fuori una ad una le eccezioni (e noi sappiamo, come dice il Vangelo, che se uno non è fedele nel poco non può esserlo nel molto), prima l'abito, poi prego un po' di meno perché "ho da fare", poi l'”accoglienza” è molto meglio della lettura, la “solidarietà” è molto meglio della meditazione; alla fine, dài e dài, non rimane più niente. Poco alla volta, non ti sei nemmeno accorto di come hai fatto a perdere tutto e di esserti ridotto a travet del sacro, pur avendo cominciato con tanto entusiasmo il giorno in cui sei stato ordinato».

Pubblicato su BASTABUGIE n.65
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