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Ogni anno, puntualmente, si sente dire, da capi di Stato e di governo, politici e storici la frase: “Mai più Auschwitz!”. Accade solitamente a ridosso della settimana della memoria, quando si commemora il genocidio ebraico avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale.
Auschwitz è diventata così una parola che rimanda di per sé al male assoluto, a quanto di più terribile sia mai esistito: continuamente film, mostre e libri perpetuano il ricordo di quanto avvenuto allora. Eppure, per quanto incredibile possa sembrare, è esistito un luogo ben peggiore di Auschwitz. Si chiama Pitesti e si trova nel Sud della Romania, 130 km a nord di Bucarest.
Qui, tra il 1949 e il 1952, è stato condotto il più orrendo esperimento concentrazionario del dopoguerra. Gli oppositori del regime comunista (principalmente studenti universitari, liberali, conservatori e cristiani di tutte le confessioni) furono condotti in questo carcere speciale con l’obiettivo di rieducarli, di farne degli “uomini nuovi”, come sosteneva il segretario generale del Partito comunista, la stalinista Ana Pauker (1893-1960). È quanto racconta il giornalista del “Corriere della Sera” Dario Fertilio in un libro-testimonianza uscito da poco nelle librerie, che non mancherà di far discutere (Dario Fertilio, Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra, Marsilio, pp. 172, euro 15,00).
Quello che accadde a Pitesti in quegli anni, secondo Fertilio, rappresenta «qualcosa di imparagonabile e unico nella storia del Novecento: non l’annientamento ideologico e biologico come ad Auschwitz; non lo sterminio pratico e di massa come nei gulag sovietici e neppure la rieducazione forzata e spietata come in Vietnam o Cambogia.
Si tratta piuttosto di una tortura ininterrotta, attuata di giorno e di notte secondo regole precise, e concepita come un fine in se stesso». Non a caso lo stesso Aleksandr Solzencyn, che pure era passato per i gulag sovietici, arrivò a definire Pitesti «il più terribile atto di barbarie del mondo moderno». È difficile raccontare gli episodi descritti restando dei semplici cronisti: i prigionieri venivano condotti prima in isolamento completo, poi spinti a tradire i propri cari e i propri amici raccontando tutto il loro passato, quindi, se si rifiutavano, costretti a subire torture di ogni tipo che avevano l’obiettivo di avvicinare la povera vittima alla morte fermandosi però appena un attimo prima, facendo in modo che – se possibile – restasse viva ma in realtà desiderasse morire.
Il tutto veniva raggiunto con la collaborazione degli stessi compagni di prigionia che erano già passati a servire i diktat dei capi designati del campo di concentramento, come Eugen Turcanu, un uomo che da alcuni sopravvissuti è stato descritto come l’incarnazione di Lucifero e i cui crimini furono talmente aberranti da costringere lo stesso regime stalinista a giustiziarlo. L’aspetto anticristiano del “sistema-Pitesti” peraltro, non è marginale per comprendere l’essenza del comunismo rumeno. Turcanu si preoccupava anzitutto di distruggere i sentimenti di pietà e di carità che i credenti rinchiusi a Pitesti cercavano con tutte le forze di conservare.
Come egli stesso disse, era imperativo distruggere le anime delle persone, perché chi pensa di avere un'anima è già un “malato”, nemico del popolo, da rieducare e, se proprio si rifiuta, da giustiziare usando le torture più diaboliche, sia fisiche che psichiche. I ragazzi più giovani (specialmente seminaristi e religiosi) venivano così costretti a subire atti contro la propria volontà, in particolar modo sessuali, e obbligati a torturarsi a vicenda. Il cattolico doveva essere “rieducato” con un uso pressoché settimanale di orge omosessuali e atti blasfemi (come giaculatorie evocanti satana e parodie dissacratorie dei Sacramenti facendo uso di escrementi e spazzatura), amplificate ancor di più in corrispondenza delle principali feste dell’anno come Natale e Pasqua. «Guarderemo Dio dall’alto in basso!» dicevano Turcanu e gli altri capi, invitando i credenti che non volevano arrendersi a bestemmiare il più possibile.
In questo inferno entrarono tutti, senza limiti di età: il più anziano che si conosca, un ex ministro, vi entrò a 94 anni. Dei bambini vi entrarono dopo aver compiuto il primo anno di età. Non sorprende che uno dei pochissimi sopravvissuti, il sacerdote Roman Braga, abbia descritto la sua esperienza in questi termini: «Penso che non ci sia nessuna mente al di fuori di quella di Lucifero capace di inventare il “Sistema Pitesti” che teneva sospesi tra la follia e la realtà, tra l’essere e il non essere, con l’idea ossessiva di poter scomparire o, peggio ancora, di dover ricadere sotto il Terrore delle torture».
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