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In questi giorni il mondo intero ha assistito alle infinite manifestazioni di dolore e disperazione del popolo della Corea del Nord per la morte del dittatore Kim Jong Il. La teatralità dei gesti e delle lacrime ha lasciato ammutolita la gran parte dei commentatori, si direbbe imbarazzata di fronte all'apparente illogicità di comportamenti tanto plateali, trattandosi di un leader che ha rinsaldato le catene di una nazione-carcere, perpetuando arresti, vessazioni e carestie, in un paese le cui esportazioni più lucrose sono tuttora i missili di era sovietica e le banconote false da $100, dove si mangia a sazietà solo nella capitale mentre dalle altre parti si soffre la fame, e i cittadini sono obbligati a contribuire per dare da mangiare all'esercito, ma si fanno test nucleari sotterranei e si sta costruendo un impianto tecnologicamente avanzato per l'arricchimento dell'uranio.
In realtà, invece, i comportamenti che vediamo alla tv e sui giornali risultano del tutto logici: in Corea del Sud arrivano notizie di camionette della polizia che fanno continuamente la ronda per arrestare chi dovesse restare a ciglio asciutto. Il dato trova conferma negli avvenimenti dell'ultimo grande trapasso, quello del padre del dittatore appena scomparso, Kim Il-sung, nel 1994. Nel libro 'Nothing To Envy: Ordinary Lives in North Korea' [Niente da invidiare: le vite normali nella Corea del Nord], Barbara Demick scrive che "L'istrionismo del dolore prese un aspetto concorrenziale. Chi sarebbe riuscito a piangere più forte?".
Perché infatti nel momento del trapasso del "caro leader" il lutto era obbligatorio e il popolo sotto stretta sorveglianza. Chi non manifestava un dolore abbastanza convincente era a rischio di arresto e anche peggio. La classe favorita, quella che aveva il permesso di abitare nella capitale, Pyongyang, dove le condizioni di vita erano migliori che altrove, era quella che rischiava di più. Non solo la carriera e il diritto di far parte del Partito dei lavoratori (Partito comunista), ma la sua stessa sopravvivenza dipendeva dalla capacità di piangere. E chi non riusciva a lacrimare a comando? Fra gli espedienti consigliati c'era quello di tenere sgranati gli occhi, esponendo le orbite all'aria per irritarle fino a farle lacrimare.
Dell'alluvione di lacrime dopo la morte di Kim Il Sung scrisse anche Hwang Jang Yop, ideologo del partito fuggito all'Ovest: "La maggior parte piangeva perché indottrinati al culto della personalità, ma anche perché non era permesso fare altro. Il partito controllava per vedere chi si dimostrava più addolorato, e questo divenne un criterio importante per valutare la lealtà al partito. Dai pazienti che restavano all'ospedale, a chiunque restasse allegro dopo le notizia della morte del leader, furono tutti individuati e puniti."
Le motivazioni per l'apparente impazzimento di un intero popolo, naturalmente, sono anche altre. Oltre alla coercizione, l'indottrinamento al culto della personalità e l'interesse dei fiancheggiatori del regime, c'è anche da tenere conto della cultura confuciana coreana, che prescrive commiati rumorosi e lacrimosi a cui del resto si assiste anche in molte parti del meridione italico. Infine, secondo Park Jong-chul, un analista dell'istituto statale Korea Institute for National Unification di Seoul (Corea del Sud) molto del lutto enfatico di Pyongyang è anche genuino, dovuto allo smarrimento e all'incertezza per il futuro. Del resto i Kim governano il Paese presentandosi come "genitori" da oltre sei decenni, per cui ci sono intere generazioni che non hanno conosciuto altro.
Ma quello che interessa evitare in Occidente è il consueto effetto assuefazione dei media, moltiplicato con ogni passaggio di immagini trasmesse alla rinfusa e senza commento.
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