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«Questo ennesimo pronunciamento su Eluana apre un'ulteriore crepa nel confine a tutela da un potere violento: siamo disposti a superarlo, ad accettare che il principio inviolabile del diritto alla vita, che è sacra dalla nascita fino alla morte, non sia più in capo alla persona ma sia, in ultima istanza, nelle mani dello Stato? Perché è questo il valore politico della condanna confermata alla Lombardia dal Consiglio di Stato e di tutte le sentenze delle corti e dei tribunali sul caso Englaro: legittimare l'idea che sia un dovere delle istituzioni dare la morte ai suoi cittadini, superare un confine che non può essere valicato senza prefigurare scenari pericolosi e imprevedibili».
Raffaele Cattaneo, presidente del Consiglio regionale - all'epoca della morte di Eluana Englaro assessore della giunta Formigoni -, non si dice stupito dalla decisione del Consiglio di Stato di respingere il ricorso di Regione Lombardia, imponendole un risarcimento di 133 mila euro a favore del padre Beppino. Secondo i giudici la Regione è colpevole di non aver sospeso l'idratazione e l'alimentazione della ragazza, ospitata per 17 anni dalle suore Misericordine di Lecco, impedendone così la morte che poi avvenne il 9 febbraio del 2009 presso la clinica "La Quiete" di Udine. Nel pronunciamento si spiega che è Eluana ad aver subìto «il danno più grave», la «violazione del proprio diritto all'autodeterminazione in materia di cure», e, «contro la sua volontà», «il non voluto prolungamento della sua condizione, essendo stata calpestata la sua determinazione di rifiutare una condizione di vita ritenuta non dignitosa, in base alla libera valutazione da essa compiuta».
MORTE DI STATO
«Era prevedibile che il Consiglio di Stato si allineasse alle sentenze della Cassazione - spiega Cattaneo a tempi.it -, il fatto è che dal punto di vista giuridico tutti questi questi pronunciamenti si reggono su un presupposto discutibile: quello che Eluana avesse espresso consapevolmente e inequivocabilmente il proprio consenso alla sospensione delle cure nel caso in cui si fosse trovata in uno stato vegetativo». Valutazioni rese in condizioni diverse e riportate dal padre, parte in causa, ma non solo: se crediamo che la vita è sacra e inviolabile «significa che non la riceviamo in carta bollata e non è attraverso la burocrazia dello Stato che è ammissibile fare effrazione e disporre come liberarcene. È chiaro che queste sentenze vengono oggi usate in modo strumentale per condurre una battaglia politica: portare all'affermazione, attraverso provvedimenti come la legge sul fine-vita, a una sorta di diritto civile alla morte. Ma questo diritto non esiste: l'uomo è libero, anche di rinunciare alla propria vita, ma che questa scelta venga codificata dalle istituzioni ed erogata dallo Stato è inammissibile, e le dirò di più, è oscurantista e retrogrado. Quando mai può essere chiamata conquista civile per un popolo sostenere che lo Stato e le istituzioni abbiamo per legge il diritto di dare la morte ai cittadini?».
LIVELLO ELEMENTARE DI PIETÀ
Paradossale dunque sostenere che sia stato leso il diritto di Eluana all'autodeterminazione in materia di cure, «primo, perché il principio di autodeterminazione presuppone un esercizio autonomo della propria libertà», cosa che non avviene se si deve passare da una procedura stabilita dalla legge e applicata dalla burocrazia delle istituzioni pubbliche; «secondo, perché Eluana non era oggetto di cure mediche: nutrizione e l'idratazione sono il principio basilare di qualsiasi accudimento, il livello elementare di pietà e assistenza umana. Se dunque il suo stato non prefigurava certo un accanimento terapeutico, interromperlo avrebbe contraddetto qualunque principio fondamentale di un sistema sanitario, dal giuramento di Ippocrate in poi, fondato su interventi orientati nella direzione di assistere i pazienti in qualunque condizione e non di accelerarne l'esito finale e fatale».
Dal punto di vista giuridico la strada imboccata dalle sentenze introduce di fatto un'aporia in tutto l'impianto del sistema sanitario nazionale, che si fonda sull'idea che lo Stato debba assicurare cure che vanno nell'interesse del paziente a continuare la propria vita e non a interromperla. «Tutti i plaudenti della sentenza dovrebbero riflettere: da questa crepa sta passando molto di più di quanto attiene al solo caso Englaro, trasformato senza pietà - quella pietà che in tutta questa storia dimostrarono solo le suore che si presero cura di Eluana per diciassette anni - in una bandiera politica».
Nota di BastaBugie: Andrea Zambrano nell'articolo sottostante dal titolo "Era obbligo della Regione far morire Eluana" parla del padre di Eluana Englaro che ha vinto la causa contro la Regione Lombardia, condannata a pagare un risarcimento atronomico. E noi che pensavamo che il danno più grave l'avesse subito Eluana quando è stata portata a morire da una sentenza della magistratura!
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 22 giugno 2017:
Con la sentenza del Consiglio di Stato che obbliga la Regione Lombardia a pagare un risarcimento danni a Beppino Englaro, la triste vicenda di Eluana può dirsi conclusa. Un risarcimento esemplare, quantificato in 133mila euro per non aver ottemperato alla sentenza della Corte d'Appello di Milano che consentiva "lo spegnimento dei macchinari" che tenevano in vita la donna gravemente disabile ospitata per 17 anni dalle suore Misericordine di Lecco. Poco importa che Eluana fosse tenuta in vita soltanto da alimentazione e idratazione e che non ci fosse nessun macchinario a consentirle di vivere.
Il punto era proprio quello: interrompere la somministrazione dei sostegni vitali attraverso il sondino naso-gastrico. Ma per farlo bisognava trovare una clinica che ottemperasse all'ordine della magistratura, impartito nel 2009 sotto il fuoco incrociato di una polemica che aveva dilaniato in due il Paese tra favorevoli e contrari. Il presidente della Regione Lombardia di allora, Roberto Formigoni si rifiutò di prestare cliniche e ospedali lombardi per far morire Eluana.
Così il padre dovette rivolgersi alla clinica La Quiete di Udine dove il 9 febbraio cessò di vivere. Secondo Beppino, quell'estenuante braccio di ferro tra la Regione e il padre aveva provocato un danno alla figlia e a lui e alla moglie. Ragion per cui aveva intentato la strada del risarcimento in sede civile, vinto in prima istanza al Tar della Lombardia che fissò un risarcimento di 150mila euro. La Regione fece ricorso e il ricorso è stato portato avanti e condiviso anche dal nuovo governatore nel frattempo insediatosi al Pirellone, Roberto Maroni.
Ieri la sentenza del Consiglio di Stato che abbassa la cifra a 133mila euro a favore di Beppino, ma che condanna comunque l'ente.
«Non potevano sussistere seri dubbi circa la portata dell'obbligo della Regione di provvedere a fornire la necessaria prestazione sanitaria, nel rispetto dell'accertato diritto della persona assistita all'autodeterminazione terapeutica, presso una delle strutture sanitarie regionali», dice la sentenza, come se la decisione di farla morire appartenesse anch'essa all'elenco delle terapie. Un salto mortale all'indietro insomma, per giustificare la sentenza della Corte d'Appello che riconosceva nella volontà di Eluana di autodeterminarsi l'origine di tutto.
Infatti la sentenza partiva proprio dall'affermare questa intenzione di Eluana che Beppino riuscì a dimostrare: quando ancora era in vita e sana, aveva manifestato il desiderio, in caso di un incidente o una malattia, di non essere tenuta in vita artificialmente. I giudici presero per buona la tesi anche in assenza di una prova schiacciante, cioè le sue parole, ma soltanto de relato. Quindi - prosegue ancora il dispositivo - "non poteva ragionevolmente porsi in dubbio l'obbligo della Regione di adottare tramite proprie strutture le misure corrispondenti al consenso informato espresso dalla persona".
Secondo i giudici la Lombardia era dunque "tenuta a continuare a fornirle la propria prestazione sanitaria, anche se in modo diverso rispetto al passato, dando doverosa attuazione alla volontà espressa dalla stessa persona assistita".
Con questa sentenza il Consiglio di Stato si prende la colossale responsabilità di definire il distacco di un sondino naso-gastrico indispensabile per rimanere in vita una "prestazione sanitaria diversa rispetto al passato", o diversa rispetto a quello che siamo abituati a pensare, cioè che mai una terapia, una prestazione sanitaria devono portare alla morte, ma semmai devono cercare di fare di tutto per evitarla.
Merito di un complesso di concezioni dell'essere umano ormai in balia dell'ideologia dell'autodeterminazione, di fronte alle quali anche i giudici hanno mostrato di accodarsi. Con la legge sul testamento biologico Regioni e ospedali sono avvertiti: il vostro compito è quello dei sicari a comando, guai a chi sgarra.
Il risarcimento riconosciuto a Englaro riguarda anche le spese di piantonamento fisso della struttura dove Eluana morì, per far fronte alla "presenza di telecamere e giornalisti", ai "sit-in sotto la clinica" alla possibile presenza di "facinorosi", con il "conseguente rischio di lesione del diritto al rispetto della dignità umana".
Infatti i giudici dicono che Eluana ha "subito" in questa vicenda il "danno più grave", la "violazione del proprio diritto all'autodeterminazione in materia di cure" per cui "contro la sua volontà" ha subito "il non voluto prolungamento della sua condizione, essendo stata calpestata la sua determinazione di rifiutare una condizione di vita ritenuta non dignitosa, in base alla libera valutazione da essa compiuta".
Quanti colpevoli assieme a Formigoni dunque, di aver recato danni morali: i giornali che ne scrissero portando motivazioni che contrastassero la cultura della morte che si stava affermando in Italia e oggi è ormai comodamente in trono; i militanti pro life che pregarono e vegliarono in quei giorni drammatici; i politici che si adoperarono per impedire il primo caso di eutanasia in Italia; tutti gli uomini di buona volontà che provarono ad opporsi con i mezzi consentiti dalla legge e dal dibattito democratico all'immane tragedia di una donna disabile portata a morire. Tutti colpevoli, infatti a risarcire è un ente pubblico che userà i soldi dei contribuenti, cioè di tutti noi. In quel risarcimento ci saranno anche i nostri soldi e le nostre lacrime spese.
Siamo al paradosso: la dignità umana calpestata non è quella di un essere umano strappato a forza dalle cure premurose delle suore Misericordine per essere condotto alla morte, ma il "disagio" subito da lei e dai familiari per una vicenda che se non ci fosse stata l'opposizione della Regione, del governo Berlusconi di allora e delle suore Misericordine, si sarebbe potuta concludere ben prima, senza scomodare così tanto l'opinione pubblica e senza arrecare stress agli attori della partita.
E noi che pensavamo che il danno più grave l'avesse subito Eluana quando è stata portata a morire da una sentenza della magistratura.
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