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E' morto Giuseppe Soffiantini. Solo quelli di noi che hanno una certa età si ricordano di lui e del suo caso che, all'epoca, fece clamore. Era la brutta stagione dell'anonima sequestri e questo imprenditore venne rapito nel 1997. Si fece parecchi mesi di detenzione, per l'esattezza 237 giorni. Proprietario di una azienda di abbigliamento femminile, viveva nella sua villa di Manerbio, tra Brescia e Cremona. Alle 22,30 del 17 giugno (dicono che il 17 porta sfortuna...) i banditi penetrarono in casa sua, legarono la moglie e portarono via lui.
L'obiettivo, in verità, era il figlio minore, ma questi era assente perché sotto la naja. La donna riuscì a liberarsi solo il mattino dopo. Ricevette la telefonata del marito l'anno seguente, il 9 febbraio: l'avevano liberato all'Impruneta, in quel di Firenze. La prima cosa che disse fu che le molte lettere che aveva scritto era state vergate con la pistola puntata alla testa. Il sequestro fruttò ai delinquenti cinque miliardi di lire, pagati solo dopo otto mesi perché lo Stato, a quell'epoca, congelava i conti e i beni dei rapiti per avere tempo di effettuare le indagini.
Nella sua ultima intervista, rilasciata a Fabrizio Boschi del «Giornale» nel 2015, l'allora ottantenne Soffiantini si rammaricava, in qualche modo, del cambiamento di prospettiva e strategia: oggi gli italiani vanno a farsi sequestrare all'estero e lo Stato paga a tamburo battente, cosa che, lamentava il reduce, alimenta il terrorismo. Soffiantini i soldi del riscatto non li ha più rivisti, anche se i rapitori sono stati tutti (tranne uno) catturati. Condannati a pene di varia entità, alcuni sono oggi a piede libero. Il basista, addirittura, a Soffiantini toccò di rivederlo in giro per Manerbio.
Non ebbero la mano leggera: gli amputarono le orecchie, lo tenevano incatenato in buche nel terreno o in tende improvvisate, un pezzetto di lardo e una mela per mangiare, per coprirsi stracci luridi e fradici di umidità, quasi un anno senza potere lavarsi. Ma lui, a cose finite, decise di perdonare i suoi aguzzini. Niente baci e abbracci, per carità, ma piuttosto una qualche forma di igiene mentale e spirituale. Così disse all'intervistatore: «Vede, io non ho perdonato quelle bestie per spirito di buonismo. Sarei uno sciocco. L'ho fatto per me, per salvarmi. Ho imparato che nella vita covare sentimenti di odio e di vendetta non serve a niente».
Esatto, profonda verità. Sarebbe un gravarsi l'animo inutilmente, un portarsi dietro e addosso un passato che è meglio lasciar passare. Soffiantini era credente, anche se non sappiamo di quale intensità. Nel suo salotto campeggiava una foto di lui e papa Wojtyla: «Una volta mi disse: Ringraziamo il Signore, sia tu che io l'abbiamo scampata bella». Soffiantini aveva due sole passioni, il lavoro e la sua famiglia. Ma quest'uomo tranquillo, capace di chiudere l'animo a una brutta parentesi, non era affatto un irenico, né lo era diventato a causa della terribile esperienza.
Lo spaventavano ancora le cosiddette rapine in villa, «soprattutto ad opera di extracomunitari». Eh, il tempo dei sequestri è passato ma la sicurezza «nelle nostre case» non è ancora pacifica, anzi. L'intervistatore gli ricordava il caso allora recente del benzinaio che aveva sparato a un bandito nomade per proteggere una commessa: «Anche io ho un'arma e se dei rapinatori entrassero in casa mia farei lo stesso». Molto saggio: prima mi difendo, poi ti perdono; ma solo dopo che hai pagato il tuo debito. Sennò è buonismo, cioè ideologia. La misericordia deve seguire la giustizia, non precederla. Altrimenti è il mondo alla rovescia.
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