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« Torna agli articoli di Bernardo Cervellera

Le manifestazioni contro la repressione cinese in Tibet che hanno caratterizzato il percorso della fiaccola hanno ottenuto un apparente successo: Pechino ha invitato il Dalai Lama a dialoghi per «contatti e consultazioni».
Ma il successo è soprattutto della Cina che ha fatto una mossa da maestro nelle pubbliche relazioni. Il semplice annuncio, senza fissare date né contenuti, è bastato a sgonfiare tutte le voci di boicottaggio nelle cancellerie internazionali.
Come nei migliori insegnamenti taoisti, «da un male è emerso un bene», dalla rivolta e dal sangue del Tibet – ancora chiuso ai giornalisti stranieri e a qualunque inchiesta indipendente – è emerso un rafforzamento della Cina.
Anzitutto con l’esterno. Il problema Tibet ha fatto emergere ancora di più il fatto che i governi del mondo non vogliono perdere il volume degli affari con la quarta potenza economica del pianeta. Il governo cinese si è anche rafforzato al suo interno: nel Paese ci sono ogni giorno 200-300 rivolte di contadini defraudati della terra, di operai non pagati o licenziati, di villaggi espropriati e inquinati, di gruppi che si ribellano all’abissale corruzione dei capi del partito; ma ormai si parla solo della gloria della Cina e dell’offesa dei barbari tibetani che vogliono dividere la nazione. Con la carta del patriottismo Pechino è riuscita perfino a ricevere la solidarietà delle comunità cinesi d’oltremare. Di solito i gruppi di cinesi all’estero non si interessano di politica, né dell’immagine della madrepatria. In questi giorni hanno sventolato bandiere rosse, attaccato manifestanti pro-Tibet, criticato i giornali occidentali per i loro 'pregiudizi' sulla Cina e (fatto curioso) per combattere il boicottaggio delle Olimpiadi hanno lanciato un boicottaggio sui prodotti francesi.
Ormai in nome dell’unità della nazione cinese si accusa come «tentativo di divisione» ogni critica e correzione. Perfino l’innocente annotazione di un giornalista straniero sulle difficoltà trovate nei servizi igienici delle Olimpiadi è stata accolta come un tentativo di 'umiliare' la Cina. Emerge con chiarezza che queste Olimpiadi dovevano incoronare un Paese moderno e alla pari con il resto della comunità internazionale. Per difendere questa immagine, Pechino sta avvolgendo le Olimpiadi con una gabbia giustificata dal 'terrorismo' tibetano e uiguro: programmi di sicurezza, controlli dei visti, verifiche sugli spostamenti dei giornalisti,… Nel 2001, per poter vincere la candidatura dei Giochi, i cinesi avevano promesso che le Olimpiadi avrebbero migliorato la situazione dei diritti umani nel Paese. Invece di aprire un dialogo franco e vero con la comunità internazionale e con la sua popolazione, a quasi 100 giorni dal fatidico 8 agosto la Cina rimane ancora più chiusa e impenetrabile: decine di dissidenti sono agli arresti domiciliari; altri, come Hu Jia e Chen Guangcheng, sono stati condannati a diversi anni di prigione; i giornali cinesi sono obbligati a scrivere cose belle e positive sulla Cina e soprattutto a non parlare con giornalisti stranieri sui problemi del Paese; ogni dimostrazione o raggruppamento viene soppresso anche con le armi. Perfino il pellegrinaggio alla Madonna di Sheshan (Shanghai), il prossimo 24 maggio, è sotto controllo: ogni partecipante deve ricevere il permesso della polizia, che sconsiglia tutte le parrocchie dal recarsi al santuario. Il motivo apparente è la sicurezza; ma forse anche il fatto che il Papa, con la sua Lettera dello scorso anno, ha proposto quella giornata come 'Giornata di preghiera mondiale per la Chiesa in Cina'. Ostacolare il pellegrinaggio è un modo di ostacolare l’indicazione di Benedetto XVI.
Le Olimpiadi di Pechino erano attese come il compimento di un grande sogno di fraternità e giustizia fra i cinesi e il resto del mondo. A pochi mesi dall’appuntamento rimangono vivi solo gli interessi economici degli sponsor, l’immagine di potenza della Cina e (forse) qualche record sportivo. La Cina sta rischiando di perdere una grande opportunità.
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